L’homme qui tua Roland Barthes: il racconto alla stregua dell’omicidio
L’ossessione sotto forma di scrittura e il delitto come tema attorno al quale ruota il racconto: L’homme qui tua Roland Barthes raccoglie XVIII testi in cui niente sembra essere stato lasciato al caso e lo stesso numero dei racconti rinvia quasi all’anagramma latino di VIXI, «sono morto». Così come il piano di un crimine, la serie di racconti orchestrati da Thomas Clerc segue un ritmo, una dinamica e una struttura compositiva complessi e variegati. Allievo di Roland Barthes, di cui aveva trascritto le lezioni sul Neutro tenute al Collège de France (Le Neutre, Seuil, 2002), Clerc testimonia di una penna sicura, arguta e impregnata delle teorie sul romanzo e sul non romanzo che hanno a lungo circolato in Francia, e che, ancora oggi, popolano molti testi critici. E proprio a partire dalla morte di Roland Barthes prende avvio l’ultimo lavoro dello scrittore francese, pubblicato da Gallimard nel 2010 e recentemente premiato dall’Acadèmie Française con il Prix de la nouvelle.
Thomas Clerc utilizza ed elabora l’immaginario maniacale, reiterato e molesto del crimine, che l’autore interpreta in un’accezione contemporanea e considera al di là della nozione di topos letterario: «Il crimine è per me una così vecchia storia che supera la nozione del semplice topos letterario» — scrive Clerc nella postfazione — «Non ho deciso il mio soggetto, ma solamente il modo di lavorarlo, cercando di creare qualcosa di nuovo dall’antico». Non si tratta, però, di crimini comuni e di delitti ordinari. Quelli con i quali si diletta l’autore, sono crimini mediatici, che non possono passare inosservati al grande pubblico. Attraverso questo genere di delitto, l’assassino riceve finalmente i suoi quindici minuti di celebrità. Sfilano così, nella fantasia dell’autore, le tragedie che hanno visto la morte di Gianni Versace e Pier Paolo Pasolini, Lady D., Anna Politkovaskaïa, Lincoln e Marvin Gaye, solo per citarne alcuni. Particolarmente rappresentativa appare l’ultima “novella”, L’homme qui tua mon arrière-grand-père, che potrebbe essere anche la prima della serie. Se fossimo degli addetti della critica psicanalitica, inevitabile sarebbe l’accostamento autobiografico tra il tema del crimine trattato come ossessione e il delitto inteso in quanto ossessione personale dello scrittore stesso. Fortunatamente ci pensa Thomas Clerc a darci la conferma della nostra intuizione. E allora il racconto dedicato ai suoi avi debutta con queste parole: «L’uomo che ammazzò il mio bisnonno non è un uomo, ma una donna: la sua sposa, Andréa Clerc. Tuttavia, l’uomo che ammazzò Auguste Clerc con la pallottola di un revolver è un uomo: un cecchino pagato dalla mia bisnonna, che ordinò il delitto di suo marito, lasciando ad altri la cura di metterlo in atto. E, ultima correzione, l’uomo che ammazzò il mio bisnonno non è una donna e neppure un uomo, ma due uomini, poiché Andréa aveva reclutato due assassini. Era il 30 giugno 1912, quasi un secolo fa».
Stilare la psicologia del crimine, la trepidazione, gli ultimi attimi del condannato a morte è il sentire la morte arrivare e abbattersi contro la vittima con violenta designazione. La scelta della vittima raramente è casuale. Traspare e trapela l’insidiarsi ossessionante dell’idea che si alimenta del proprio tormento. Nonostante la coesione e l’omogeneità della tematica trattata, che diventa il filo conduttore della narrazione, il fatto che si tratti non di un romanzo ma di racconti permette all’autore di sperimentare liberamente diverse forme di scrittura. Dalla narrazione alla prima persona, al dialogo, al vous introdotto ormai più di cinquant’anni or sono da Michel Butor (La modification) e ripreso da Calvino (Se una notte d’inverno un viaggiatore), passando per la decostruzione linguistica: «Tusé koi, lé jan i s’écart kan im’croizx dan la ru, i chang’ 2 trotoir, c ça la puissanss’, si j’lé r’gard dans lé zieu i sent’ ke ça pu pr leur gueul», impiegando i toni propri del gergo e cercando di trascrivere la sonorità degli accenti, in questo caso non regionali ma sociali, e ancora la prosa in versi e la ripresa della scrittura concettuale, che l’autore intende come oggetto mentale, sono i molti metodi che impiega Clerc nel mettere in scena i diversi omicidi.
Sottile e intrigante, la scrittura di Thomas Clerc rimane fredda e oggettiva, così come freddo e oggettivo devono manifestarsi lo sguardo e il sangue dell’omicida al momento del compimento del delitto. Tuttavia, il crimine chiama l’umanità e il suo sentimento più intimamente prossimo di paura, d’adrenalina e di ripensamento. Ed è allora che la narrazione si capovolge e svela le frustrazioni, le debolezze e l’infimo crogiolo di rivalsa che pervade tanti dei crimini commessi nel secolo scorso. Sagace e fuori dall’ordinario, la raccolta di racconti di Clerc mette in scena la Babele del crimine e la scrittura diventa il tramite per sprigionare la pulsione alla vita che si cela perpetuamente dietro la pulsione alla morte, e viceversa.
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