L’evasione del serial killer: una riflessione a margine
Ci sono fatti che riguardano sempre più le persone, gli italiani e le italiane per bene. Ci sono eventi che dovrebbero scuotere le coscienze, ma che talvolta restano lì, nell’etere, e paiono non appartenerci. La fuga, per esempio, di un assassino seriale dal carcere di Genova, arrestato a Mentone dopo aver recuperato una pistola. La vicenda, in sé, pare essere piuttosto ambigua, a partire dalle dichiarazioni del direttore del carcere – che forse non era a conoscenza della fedina penale del fuggiasco – fino alla pretesa di chiarezza della Ministra Cancellieri e alle legittime esternazioni di Grasso, che prevede un inasprimento del dibattito politico sulla condizione dei detenuti in Italia. Napolitano ci ha rammentato la disumanità della detenzione in Italia, battaglia portata avanti negli ultimi anni da un isolato Pannella e da alcune associazioni, ma a nulla sono valse queste richieste di intervento, mentre il resto del mondo civilizzato guarda all’Italia come a una democrazia a metà nella quale i diritti umani vengono costantemente calpestati nelle carceri, nei Cara e nei Cie e negli ospedali: negli universi concentrazionari del Paese.
Allora c’è un problema, evidentemente non siamo capaci di creare una cerniera tra limitazione della libertà e società civile, tra detenzione e libertà vigilata, tra pena e recupero, tra degenza e inclusione, tra clandestinità e integrazione. Tutto questo, a monte, rivela una scarsa disposizione a considerare la libertà e la sicurezza delle persone tratti conciliabili nella vita di un Paese normale, non un argomento per imbastire interventi securitari.
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La fuga di un detenuto così pericoloso stona con la detenzione di autori di piccoli reati in celle sovraffollate, sporche, maleodoranti. Stona e fa male a tutta l’Italia che pretende la certezza della pena, ma anche condizioni di recupero alla vita sociale.
Siamo figli di una cultura che ha smentito Beccaria e che nelle carceri trova libero sfogo e libera deroga in un quadro emotivo che rimpolpa le paure a danno della convivenza. Allora, riflettendo sull’accaduto, sono portato a considerare le carceri come una cerniera possibile tra un mondo sano e uno sanabile, tra pezzi di un’unica società, senza ostilità o desideri di vendetta e senza la leggerezza che può consentire a un assassino di scappare e minacciare. Va ricostruito un nesso e ridato senso a una cultura che dalla prigione come luogo di pena, o da un Cie come limbo verso l’inferno, porti a un incivilimento di prossimità, più egualitario, e che magari intervenga di più sulla costruzione sociale dei reati e delle paure.
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