“L'eterno marito”, il più puro Dostoevskij
Einaudi ha da poco ripubblicato un piccolo romanzo di Fëdor Dostoevskij, L'eterno marito (traduzione italiana di Clara Coïsson), al quale nulla si può imputare se non il fatto di essere troppo breve per quanto si propone di dirci, anche tra le righe, anche silenziosamente. L'eterno marito venne cinque anni dopo Delitto e castigo, nel 1871, quando Dostoevskij era però già un altro scrittore, slavofilo ed estremamente conservatore; aveva visitato l'Italia in autunno: Milano, Firenze.
Tutto all'inizio del romanzo, nelle prime bellissime pagine, è opaco e incerto. Il protagonista, Vel'čaninov, un trentottenne ipocondriaco con aspetti da opera buffa, è un melanconico da manuale, con tutto ciò che questo può comportare. Ogni suo passo incede con una pesantezza e uno sforzo terribile, e così anche il romanzo.
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Un giorno tutto questo cambia, d'improvviso. L'arrivo di un vecchio conoscente scuote la vita monotona di Vel'čaninov. Nello stesso tempo le luci del romanzo si affievoliscono e tutto si incupisce: il romanzo che prima era stato di Vel'čaninov, lento, ponderato, ora diventa il romanzo di Pavel Pavlovič, bizzarro, imprevedibile, fatto di molte possibilità e decisioni inaspettate. L'eterno marito ha cambiato di fatto tutte le proprie prospettive. Ma in Pavel Pavlovič qualcosa crolla: ha abbandonato la figlia Lisa, giovanissima e ormai irrimediabilmente malata, non si cura del proprio aspetto e trova conforto solo nei bicchieri di champagne e vodka bevuti di continuo. Passa il suo tempo tra una misera e provvisoria abitazione e l'appartamento di Vel'čaninov.
In realtà Vel'čaninov e Pavlovič si contendono il primato all'interno della storia: credono di conoscersi, ma procedono a tentoni nel buio. Vel'čaninov ne è fisicamente terrorizzato, le notti, colto da terribili insonnie, si rannicchia nel letto pur di non accorgersi della presenza di Pavlovič. Pavlovič, al contrario, sente di aver violato ogni limite e tenta di vendicarsi di colui che mette in mostra le sue debolezze e che pensa lo stia calunniando; cerca una nuova moglie, ma ignora la parte tenera e femminile del mondo.
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Pavlovič sembra molto meno coinvolto di noi: una notte tenta di sgozzare l'amico con un rasoio, non riuscendoci. Pavlovič non ama più vivere e, soprattutto, detesta Vel'čaninov. I colori del libro si sono ormai spenti e l'ombra si è impadronita di ogni stanza, ogni appartamento. Quello di Vel'čaninov è terribilmente spoglio: solo cose essenziali, come una scenografia poco curata, dove si muovono figure consumate. Non abbiamo più l'impressione che Pavlovič sia un essere umano, come possiamo incontrare quotidianamente. Ci sembra uscito da un quadro di Munch: pallido, spesso solo davanti a colori tenui e bluastri, con il crespo di lutto portato sul cappello. Qualcosa in lui si è guastato, ma a tutto c'è una giustificazione.
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Vel'čaninov, che già era stato l'amante della sfortunata moglie di Pavlovič, non sospetta nulla. Il marito però sapeva tutto: la relazione segreta, la bambina nata da questa, i tanti altri amanti. Il suo tempo nel romanzo sembra finito, tant'è che una mattina, come era venuto, d’improvviso, se ne va. Dostoevskij non racconta per due anni. Poi, per caso, nell'immensa Russia, i due si incontrano su un treno, in una giornata estiva calda e soleggiata. Pavlovič torna a reclamare spazio nella storia, ma Vel'čaninov è cambiato in meglio:
Appariva adesso un altro uomo, in confronto alla «marmotta» di due anni prima, che noi abbiamo descritto, e a cui già cominciavano a capitare quelle storie indecorose; appariva allegro, sereno, contegnoso.
Pavlovič allora si allontana dopo un rapido saluto; forse non lo rivedremo mai più. Quello che era stato due volte un incubo per Vel'čaninov, una conseguenza della sua condizione melanconica, adesso è lontano, chissà dove, forse a Odessa o lungo il Volga. Si chiude così L'eterno marito, un libro secco e duro, incombente come la grande San Pietroburgo, dove tutto accade; la cosa migliore del romanzo aveva scritto Moravia.
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