L’eredità di un padre che ha abusato di sua figlia
Ci sono scheletri che teniamo ben nascosti nell’armadio, segreti che influenzano inevitabilmente le nostre vite, le nostre scelte, il nostro modo di rapportarci con noi stessi e con gli altri. Nel momento in cui decidiamo di spalancare le ante di quell’armadio per mostrare agli altri quel che per lungo tempo era stato taciuto, s’incorre nel rischio di essere etichettati come bugiardi, di aver inventato tutto solo per un desiderio egoistico dell’io di essere al centro dell’attenzione. Così accade a Bergljot, protagonista del romanzo Eredità (trad. it. di Margherita Podestà Heir) della scrittrice norvegese Vigdis Hjorth. Un discusso caso letterario in Norvegia, premiato dai librai norvegesi come miglior libro dell’anno, in cima alle classifiche di vendita, tradotto in venti lingue e adesso edito in Italia da Fazi, romanzo che ha fatto raggiungere alla sua autrice la fama internazionale.
Eredità, il cui titolo originale è Arv og miljo, ovvero Eredità e ambiente, fa pensare che lo scritto abbia come oggetto la spartizione di un’eredità. Scopriremo presto che non si tratta solo di questo. Affiora innanzitutto un dibattito tra natura/ambiente ed educazione. I protagonisti del romanzo sono infatti prodotti dell’ambiente in cui vivono, cresciuti ed educati all’interno di una società permeata da apparenze, ipocrisie, repressioni, che li spinge a comportarsi in un determinato modo.
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Il racconto si apre con la lettura di un testamento. Al momento di ripartire l’eredità tra i quattro figli, una coppia di anziani decide di lasciare le due case al mare alle due figlie minori, mentre i due maggiori, Bard e Bergljot, vengono esclusi. Mentre Bard vive questo gesto come un’ultima ingiustizia nei suoi confronti, dato che i genitori lo hanno sempre escluso dagli affari familiari, Bergljot intuisce invece le ragioni celate dietro quella scelta. Ha infatti deciso di troncare i rapporti con la famiglia ventitré anni prima e se non era stata diseredata del tutto era solo perché «a livello di immagine non era una bella cosa» e i genitori volevano che la facciata fosse sempre perfetta.
Ma cosa ha spinto questa donna a troncare drasticamente ogni rapporto con la famiglia? Il dibattito che si scatenerà per le ingiustizie sull’eredità trascinerà nuovamente Bergljot all’interno di un’orbita dalla quale aveva cercato in ogni modo di fuggire, ma fornirà pure l’input per dare voce a un silenzio doloroso che l’ha portata a tacere per anni, dato che la verità non poteva essere detta, andava dimenticata e i suoi familiari si erano da sempre rifiutati di ascoltare.
«Tremavo al pensiero di quell’attimo doloroso di verità che mi avrebbe stravolto e squassato, forse lavoravo inconsciamente per accelerare l’avvento, per affrontarlo e superarlo, vista la sua ineluttabilità».
Hjorth invita a mostrare le anime sanguinanti. Scrive contro i tabù e la paura di svelare le cose. La realtà non sempre è come appare, a volte c’è altro che va svelato. Ecco perché il romanzo diventa una meditazione lirica sul racconto di una donna che nel corso della propria esistenza ha lottato per sopravvivere ed essere creduta e così rinascere dalle macerie.
Scorrendo tra le pagine di questo romanzo, scritto con un linguaggio a volte brusco, ma conciso e travolgente, percorrendo con delicatezza i pensieri di questa donna attraverso i suoi monologhi interiori, giungiamo alla certezza che non si tratta solo della disputa su un’eredità. Entriamo nella psiche della protagonista per scoprire che all’età di cinque anni il padre ha abusato sessualmente di lei, un atto gravissimo a cui né sua madre né le sue sorelle hanno mai voluto credere, accusandola addirittura di essere una bugiarda, di aver inventato tutto per dare la colpa a qualcuno della sua infelicità, delle sue frustrazioni, del suo divorzio, chiedendole persino come fosse capace di comportarsi così male nei confronti del padre, di essere ingiusta con lui che aveva sempre fatto del suo meglio per i propri figli. Da qui la scelta, difficile ma lenitiva, di tagliare il cordone ombelicale con la famiglia. Tuttavia, trovandosi nuovamente in contatto con loro per la questione dell’eredità il trauma riemerge con un’esplosione lacerante. Anche dopo la morte del padre/carnefice le sorelle continuano a rifiutarsi di accettare la verità. Preferiscono erigere un muro e ignorare le confessioni di Bergljot.
Permettere al dolore vissuto da un’altra persona di esistere, riconoscerlo e accettarlo, equivale a compiere un atto di empatia; per alcuni individui si tratta però di uno sforzo immane che va oltre le loro capacità di giudizio. Per essere “riaccolto” l’individuo che ha subito il male, ovvero la vittima, dovrebbe rinnegare se stesso; Bergljot non intende più farlo. Ha taciuto per ventitré anni, persino con se stessa. È cresciuta, ha sposato un uomo gentile e rispettabile, ha avuto tre figli, si è dedicata a una tesi sul moderno dramma tedesco, e alla fine ha lasciato il marito.
«Non ho detto niente, ho rimosso tutto, ero diventata silenziosa e taciturna, ma con il passare del tempo, la mia vita è diventata così difficile, a poco a poco ero diventata così autodistruttiva e in preda a crisi continue che tutto quello che avevo rimosso è tornato in superficie».
Il dolore lentamente riemerge. Nella sua memoria riaffiora l’immagine del padre che, quando era bambina, l’ha toccata «come un dottore». Aveva solo cinque anni, ma capì subito che «stava accadendo qualcosa di molto sbagliato». Da quel momento suo padre smise di essere l’individuo in carne e ossa che l’aveva generata per diventare un’imago paterna che ha compiuto un incesto.
«Non era possibile rimettere tutto a posto, era impossibile. Il vaso cade per terra una volta e incroci i cocci per rimetterlo insieme, il vaso cade per terra una seconda volta e incolli i cocci per rimetterlo insieme. Non è più così bello, ma in un certo modo funziona, ma quando cade a terra per la terza volta e rimane polverizzato davanti ai tuoi piedi, vedi subito che oramai è da buttare, non si può riparare. Era così. La famiglia era distrutta. La famiglia era persa».
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Hjorth racconta le vicende in maniera circolare, tornando più volte sugli stessi eventi per farci immergere sempre più in profondità, come se volesse scavare tra i ricordi più remoti fino a recuperare del tutto il trauma, in una simbiosi tra lettore e protagonista, in cui il puzzle va lentamente incastrandosi e le parole confessate diventano il mezzo affinché Bergljot riacquisti finalmente la propria pace mentale, il rispetto per se stessa e possa così congedarsi dall’ambiente ipocrita nel quale è cresciuta, lasciarsi alle spalle un’infanzia che le ha insegnato cosa fossero la durezza e il dolore, ma che tuttavia le ha fornito l’arma più potente che esista, essere diventata una donna forte grazie a quegli avvenimenti.
Per la prima foto, copyright: Zack Minor su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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