L’epica dei reietti: “Il pianeta irritabile” di Paolo Volponi
[Articolo pubblicato nella Webzine Sul Romanzo n. 5/2013, La gioia dell’incontro]
Esiste, nella storia recente della letteratura italiana, un momento in cui sono venute a confliggere
e confrontarsi, in un groviglio terribile e miracoloso, numerose istanze concorrenti e complementari. Facciamo riferimento agli anni Settanta, in cui, già smaltita la sbornia iniziale da miracolo economico, si cominciava a fare i conti con i baby-boomer ormai cresciuti, con compromessi a destra e a manca, responsabilità nazionale, sopravvivenza (oggi diremmo agibilità, forse).
In questa temperie sono nati ed emersi, anche se a corrente alternata e con fortune diseguali, numerosi testi, di cui ci siamo in parte occupati in puntate precedenti di questa stessa rubrica. Un romanzo, targato 1978 e tra i più esemplificativi, pur appartenendo a un genere non naturalistico, o forse proprio grazie a questo, è Il pianeta irritabile di Paolo Volponi.
Lo scrittore urbinate conosceva certo gli snodi dell’industria italiana e altrettanto la promozione culturale irrefrenabile e quasi tumultuosa che veniva propugnata da aziende come l’Olivetti. Non sarà inutile ricordare l'esperienza di uno scrittore e intellettuale come Ottiero Ottieri, con tutta probabilità insuperato cronista della "letteratura di lavoro" nel nostro Paese.
Volponi, dunque, sarebbe stato, in teoria, uno scrittore dal difficile accesso a un genere come la fantascienza, tanto anti-naturalistico quanto crogiolo di invettive, apodittico per un verso, come problematico, introspettivo, speculativo per un altro. Del resto, testi come Memoriale, La macchina mondiale, Corporale, vagavano decisamente per altri lidi.
Il pianeta irritabile si apre, invece, con un incipit che non dona scampo e lascia pochi dubbi: «Piove a dirotto da sempre, senza interruzioni né rallentamenti». In un ambiente palesemente stravolto, subiamo un'improvvisa immersione in un mondo altro, oltre la fine, segnato, andato irrimediabilmente in macerie. Il primo sintomo di questa "eversione geografica", come potremmo chiamarla, è lo sfasamento tra il mondo sensibile e le sue caratteristiche, il modo con cui si presenta agli stralunati osservatori dei quali seguiremo le vicissitudini. In questo futuro, lontano ma forse neanche troppo, e in questo mondo, in cui da qualche parte si può godere della «visione dei ruderi affioranti della millenaria città del Vaticano», oppure di felci che hanno «tronchi dello spessore di una gamba», un quartetto improbabile, da circo (letteralmente), costituito da un nano, Zuppa, un babbuino, Epistola, un elefante, Roboamo, e un'oca, Plan Calcule, attraversa, scalcinato, intemperie imponderabili e improvvise insidie. Romanzo di viaggio, dunque, almeno in apparenza; in realtà, ben più profondo e mefistofelico requiem alla Terra. Giacché, in senso stretto, succede poco, ne Il pianeta irritabile, ma la materia narrata è densissima, quasi inestricabile a tratti, e si alternano avanzamenti rapidissimi, come sulle ali delle parole, ad infossamenti altrettanto straordinari.
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Il viaggio dei quattro indomiti è riportato per ellissi continue, per selezione e scarnificazione, attraverso episodi salienti in una "traversata" che, se da un lato ricorda la prima Cantica della Commedia dantesca, dall'altro è di continuo stemperata, annullata, virata in farsa mediante l'uso insistito, e quasi jazzistico, della rappresentazione grottesca.
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