L’eco della memoria. “La casa delle madri” di Daniele Petruccioli
Puntata n. 121 della rubrica La bellezza nascosta
“I gemelli non litigavano, non giocavano, non polemizzavano, non correvano. Sembravano ammaliati anche loro dal silenzio. Seduti così, di sguincio, tra il fondale mozzafiato azzurro-verde e il coro muto delle madri in contemplazione e blanda attività, erano il pubblico perfetto. Ilide non aveva resistito. Dopo essersi accertata che la pausa non sarebbe stata interrotta tanto presto, aveva accordato il respiro al battito regolare dei fagiolini sul metallo e aveva detto: «Certo che di fronte a uno spettacolo come questo, mi chiedo io, come si fa a pensare che sia stato il caso e non Dio, un essere superiore, a creare tanta bellezza?»”
Le persone somigliano a delle case, posseggono stanze, oggetti, luoghi chiusi pieni di polvere e finestre da cui può entrare la luce, finestre a volte malconce che non ce la fanno a tenere lontano il freddo, che non riescono a proteggere dalla notte e poi ci sono le porte, porte chiuse a più mandate o tenute aperte, porte che custodiscono segreti e sorrisi, porte ricordo e i pavimenti, superfici piane su cui potersi sdraiare per la stanchezza, su cui camminare, correre, inciampare. Le case respirano come gli esseri umani, ogni stanza è un accumulo di memoria e fiato, di disperazione e di gioia.
Daniele Petruccioli è nato a Roma nel 1970, La casa delle madri è stato pubblicato da Terrarossa edizioni.
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Ernesto ed Elia sono due gemelli che somigliano a dei corridoi che finiscono per non intersecarsi mai. I loro genitori, Sarabanda e Speedy, restano distanti anche quando credono di aver raggiunto il massimo grado di vicinanza. Inizia così un viaggio attraverso le generazioni, vite che si consumano e che si intersecano dentro case che rappresentano vita e morte, amore e sofferenza.
La casa delle madri è un romanzo che esplora l’intimità, la vita famigliare, un romanzo che indaga gli equilibri, le scelte che diventano svolte che diventano il futuro; pagine colme di sguardi e di silenzi, pagine che a tratti sono come una carezza, che a tratti poi diventano duelli.
«La casa è divisa in due. I morti si aggirano per le camere scomparse, facendo inciampare i vivi in cose che non dovrebbero stare dove stanno. Famiglie di vivi che non si conoscono (a volte non si sono mai visti, perché i loro appartamenti insistono su condomini ormai separati; altre volte si incrociano appena per un saluto sbrigativo sul pianerottolo, un silenzio imbarazzato in ascensore) condividono senza saperlo schiere di morti che non hanno nessuna contezza di compravendite, frazionamenti, divisioni, e continuano ad attraversare gli spazi».
Daniele Petruccioli con uno stile elegante e una scrittura ricca ci racconta dei morti e dei sopravvissuti, di chi c’era e di chi c’è adesso, ci racconta di quanto i ricordi possano essere presenza e di quanto i vivi inciampino di continuo nella propria memoria. La casa delle madri è un libro sincero, un libro che guardato dall’alto somiglia a un mosaico, una serie di pezzi più piccoli o più grandi che cercano la loro collocazione, che vagano tra presente e passato alla ricerca di un senso, di qualcosa che vada al di là della materia terrena.
«In questa parte di tempo e di mondo, e nonostante la retorica sull’importanza degli spazi di ciascuno, allo spazio tutto sommato non si dà molta importanza, forse perché è una zona pertinente al corpo, che tendiamo a trascurare (salvo per quanto riguarda la sua maggiore o minore aderenza ai canoni di bellezza correnti), che ci sembra una cosa scontata. Noi uomini (e anche le donne: in questo condividiamo un identico grado di stupidità) non abbiamo nessun tipo di rispetto per questa tangibilità che ci esprime (se proprio non vogliamo dire che coincide con noi), rispecchia e in grandissima parte anche rivela.»
Petruccioli è bravissimo a tenere sempre alta l’attenzione del lettore riuscendo grazie alla sua scrittura limpida a coinvolgere e a donare alla pagina un livello di bellezza molto elevato.
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Alcune volte una casa abbandonata vista da grande distanza somiglia a uno scheletro, a qualcosa che un tempo possedeva la vita, possedeva linfa e che poi perde ogni cosa, perde ogni cosa proprio come qualsiasi essere umano. Ma le stanze, le camere, restano echi di una memoria che sopravvive a tutto, che va al di là di quello che possiamo volere o non volere, una memoria che detta le sue regole e dalla quale non si può sfuggire, mai.
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Per la prima foto, copyright: Anita Jankovic su Unsplash.
Per la quarta foto, la fonte è qui
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