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“L’Avversario” di Emmanuel Carrère

Emmanuel Carrère, L'avversarioLa mattina del sabato 9 gennaio 1993 Jean-Claude Romand uccide la moglie e i figli e, dopo pranzo, uccide i genitori. La sera, cena con la sua amante e tenta di ucciderla, ma la donna reagisce e riesce a salvarsi. Romand rincasa, passa diverse ore in stato catatonico a guardare film in videocassette e il lunedì, alle tre del mattino, cosparge di benzina la casa, ingolla una considerevole dose di barbiturici scaduti e dà fuoco all’abitazione. I netturbini si accorgono del rogo e danno l’allarme. Intervengono i pompieri e Romand sopravvive alla strage. In quelle stesse ore, lo scrittore Emmanuel Carrère va ad una riunione all’asilo del figlio maggiore, pranza assieme ai genitori e passa il fine settimana a scrivere la biografia di Philip K. Dick. Solo tre giorni dopo leggerà sui giornali la notizia della strage compiuta da Jean-Claude Romand.

Il 30 agosto del 1993 Carrère scrive una lettera a Romand, in cui gli spiega che vorrebbe scrivere un libro su di lui e su questo tragico avvenimento. Ciò che lo spinge non è morbosità né una curiosità malsana, piuttosto il bisogno di «capire cosa gli passasse per la testa durante le giornate in cui gli altri lo credevano in ufficio, giornate che non trascorreva, come si era ipotizzato inizialmente, trafficando armi o segreti industriali, ma camminando nei boschi». La vita di Romand, infatti, era stata all’insegna dell’impostura: aveva fatto credere a tutti di essere laureato in medicina, di aver passato il concorso ospedaliero a Parigi e di fare il ricercatore all’OMS di Ginevra. Diciotto anni passati nella menzogna, raggirando i parenti per farsi dare i risparmi di una vita, denaro che Romand puntualmente versava sul proprio conto e che permise a lui e alla sua famiglia di mantenere un tenore di vita alto sulle colline del Giura, al confine con la Svizzera.

La risposta affermativa alla lettera di Carrère arriva dopo due anni e coglie lo scrittore alla sprovvista, gettandolo nello sconforto e nel panico. Romand si diceva convinto «che lo sguardo di uno scrittore» su questa tragedia potesse «completare e trascendere largamente altri approcci, più riduttivi, come quello della psichiatria o di altre scienze umane». «Un qualsiasi ‘recupero narcisistico’ era lontano dai [suoi] pensieri (perlomeno consci)». Una simile responsabilità spaventa lo scrittore, che si interroga come uomo e come padre se sia giusto dare risalto a un evento così tragico, a tratti raccapricciante, e come collocarsi, dunque, nella storia.

In una lettera a Romand del novembre del 1996, Carrère precisa: «A differenza di quanto pensavo all’inizio, il problema per me non è reperire informazioni, ma trovare una mia collocazione rispetto alla sua storia. Quando mi sono messo al lavoro, credevo di poter eludere il problema cucendo insieme pezzo per pezzo tutto quello che sapevo e sforzandomi di restare obiettivo. Ma in una vicenda come questa l’obiettività è una mera illusione. Dovevo scegliere un punto di vista. […] Non spetta certo a me dire “io” a nome suo, perciò non mi resta che dirlo a nome mio parlando di lei – ossia raccontare in prima persona, senza rifugiarmi dietro un testimone più o meno immaginario o un patchwork di informazioni diciamo così oggettive, quello che della sua storia mi riguarda e produce un’eco nella mia. Il fatto è che non ci riesco. Non trovo le frasi, quell’“io” suona falso. Ho deciso quindi di accantonare il lavoro finché non mi sentirò pronto».

Carrère ha impiegato ben sette anni per portare a termine la stesura de L’Avversario, che Adelphi ha ripubblicato quest’anno nella traduzione di Eliana Vicari Fabris, dopo una prima pubblicazione per i tipi di Einaudi nel 2000. Il risultato è un romanzo documentario (nonfiction novel), tutto incentrato sulla vicenda di Jean-Claude Romand. Con sapiente regia, Carrère ha proceduto per blocchi narrativi, mostrandoci prima il punto di vista di Luc Ladmiral – il migliore amico di Romand –, poi l’istruttoria del processo alla Corte d’Assise dell’Ain – cui egli stesso ha partecipato facendosi accreditare dal Nouvel Observateur – e, infine, stralci del suo carteggio con Romand prima e dopo la sentenza che lo condannerà all’ergastolo. Carrère avrebbe voluto scrivere un libro oggettivo e impersonale, in cui l’autore fosse dappertutto e da nessuna parte, non comparendo né come personaggio né come narratore, proprio come aveva fatto Truman Capote nel suo capolavoro del 1966 A sangue freddo, che racconta l’uccisione di un’intera famiglia da parte di Perry Edward Smith e Richard Eugene Hickock. Ha tentato di raccontare la terribile storia di Jean-Claude Romand come se non ne facesse parte; alla fine, però, ha rinunciato a eclissarsi, scrivendo il libro alla prima persona. In tal modo, Carrère non ha potuto aderire a quell’obiettività propria del Naturalismo francese e di maestri come Émile Zola e Gustave Flaubert che fecero della teoria dell’impersonalità il loro manifesto programmatico. Quando un romanzo non è semplice fiction e non racconta storie inventate, ma mette in scena personaggi reali, uno scrittore molto difficilmente riesce a rimanere imparziale e a sparire da ciò che sta narrando.

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