L’autoritratto è il volto dell’anima. “Chi sono io?” di Concita De Gregorio
Ci sono dei libri che ti entrano dentro non appena ci inciampi. Uno di questi è Chi sono io? Autoritratti, identità, reputazione (Contrasto Editore, 2017) della giornalista e scrittrice Concita De Gregorio che, dopo aver realizzato i progetti Cosa pensano le ragazze e Lievito Madre – Le ragazze del secolo scorso,ci conduce nelle stanze multiformi dell’universo degli autoritratti e del loro potere di rivelare il volto di ciò che è invisibile all’occhio umano: l’anima.
Il titolo porta già con sé la forza di intrufolarsi nei meandri più nascosti del lettore e qualsiasi tentativo di sfuggirgli appare vano; sarà per la copertina su cui campeggia il rosso, il colore della “presenza,” della rivendicazione della propria storia e della propria esistenza, proprio come affermano molte delle protagoniste di questo lavoro di indagine pieno di domande e inattese scoperte; un colore che fa da cornice a quelle tre parole, accostate a un punto interrogativo, che ti catturano come una calamita, ti richiamano, ti rincorrono, fino a quando non cedi e ti imbarchi per un viaggio che, fin da subito, si annuncia fatto di crepe e abissi.
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Perché quel titolo è ingannevole nella sua semplicità e lo si scopre non appena ci si sofferma e fa eco nella nostra mente, sollevando un groviglio di questioni,spesso irrisolte, a cui tutti noi dobbiamo fare fronte, o prima o poi.
E Concita De Gregorio, con la delicatezza e l’intensità che caratterizzano il suo stile narrativo, esprime questa necessità, intravedendola tra le dinamiche, apparentemente banali, di un fenomeno dilagante: i selfie. Un simbolo di un’epoca in cui fotografarsi si è trasformato nell’ossessione di mostrarsi per avere l’approvazione degli altri, quale condizione primaria per piacere a se stessi, in un circolo vizioso che porta tutti noi a diventare vittime del giudizio altrui: se gli altri ci apprezzano, allora noi esistiamo. Altrimenti diventiamo invisibili per il mondo e infine anche per noi stessi.
“I selfie ci rubano l’anima?”, è questo infatti il punto di partenza da cui muove la riflessione dell’autrice. Un secondo interrogativo che erode gli alibi protettivi del lettore, segnando l’inizio di un’analisi che, fin dalle prime pagine, offre voce e spazio a tutte le artiste che, dalla fine dell’Ottocento fino ai giorni nostri,hanno usato la macchina fotografica come specchio non del proprio corpo, ma di ciò che alberga dentro di esso: l’io. E con quel gesto hanno dato vita a una moltitudine di autoritratti, diversi nel tempo e nello spazio, ma legati da un tema comune: un’idea salvifica della fotografia quale espressione e allo stesso tempo superamento di un dolore, domanda e risposta a un disorientamento, assenza e presenza, tempo sospeso e tempo che scivola via, solitudine e bisogno degli altri, nostalgia e proiezione nel futuro, rappresentazione di un mondo e del suo doppio.
Una visione dell’autorappresentazione che appare, da subito, estranea all’universo maschile– sono rari i fotografi che hanno intrapreso questa strada – quasi fosse una porta di accesso troppo intima per essere varcata dagli uomini. E al contrario apparisse un passaggio necessario per le donne, probabilmente in virtù della loro maggiore propensione a interrogarsi, analizzarsi, andare in profondità e alzare un velo sulle loro contraddizioni, risalendo alla loro origine per tentare di trovarne il senso. E infine scegliere l’angolo della realtà che meglio possa accoglierle, con e malgrado le loro ferite.
«Io fotografo me stessa per trovare il mio posto nel mondo», scriveva Vivian Maier i cui autoritratti appaiono trai lavori delle artiste del passato – da Katharina Behrend a Claude Cahun, da Francesca Woodman a Cindy Sherman, da Wanda Wulz a Dora Maar –su cui Concita De Gregorio si sofferma in queste pagine. Parole che trovano conferma negli incontri tenuti dall’autrice con cinque fotografe contemporanee: Guia Besana, Silvia Camporesi, Anna Di Prospero, Simona Ghizzoni e Moira Ricci.
Nei loro racconti infatti nessuna di loro parla dei propri autoritrattiin termini tecnici; al contrario tutte conducono il lettore nella loro sfera emotiva, nei loro luoghi familiari e interiori, tra le radici procreatrici della scelta di rivolgere la macchina fotografica verso loro stesse e affidarle il compito di dare forma alla loro identità, intesa come mosaico di imperfezioni del corpo e dell’anima, non come bellezza da esposizione. Il giudizio altrui – la reputazione– è infatti un elemento relegato ai margini di questo processo di ricerca ed espressione del proprio io.
«[…] Io non sono negli occhi degli altri. Sono nei miei […]».
Ed è per questa ragione che addentrarsi nel sentiero di questa narrazionesignifica intraprendere unvero e proprio viaggio che, con il procedere della lettura,si fa sempre più intimo. Sono infatti graffianti le centonovantuno pagine di questo libro, di cui più di una ventina sono dedicate alle biografie di tutte le fotografe citate o presentate. Lo si percepisce perfino quando riportano il lettore indietro nel tempo e si ha la sensazione che quelle figure femminili siano lì, accanto a noi, chiuse nel loro silenzio. Perché le immagini parlano da sole, raccontano una storia, o prendendo in prestito le parole di una di loro, Anna Di Prospero:
«[…] Le foto sono le pagine del diario che non ho scritto […]».
Ogni dettaglio – una maschera sdoppiata, una figura “crocifissa” a una porta, un volto tumefatto da una violenza domestica, uno sguardo nascosto da due uccelli o dalle mani materne, un corpo ricoperto da foglie secche, una gamba troppo lunga per entrare in un armadio, tanto per citarne alcuni esempi – simboleggia un mondo interiore che ha contemporaneamente desiderio di esprimersi, liberarsi da un peso e accettarsi.O bisogno di colmare un vuoto, un’assenza che diventa presenza attraverso la fotografia. Perché quegli autoritratti sono rappresentativi di temi che comunemente attanagliano gli individui, ma che oggi faticano a trovare canali di espressione: la caducità del tempo, il corpo, la maternità, la perdita, la mancanza, l’infanzia, il rapporto con la propria madre, la necessità di trovare un equilibrio.
Il lettore, di fronte a quel susseguirsi di fotografie e storie, non si sente estraneo, ma al contrario presto si ritrova coinvolto in questa riflessione sul tema dell’identità, finendo per chiedere anche a se stesso: “chi sono io?” Unadomanda carica di significato, che richiede la volontà di mettersi a nudo, esplorando quegli abissi presenti nell’animo di ognuno di noi per arrivare a mostrarli, senza vergogna, come tratti distintividella propria unicità. E, così facendo, ci ammonisce: se non siamo pronti noi stessi ad accettare e accogliere le nostre fragilità,non saremo mai capaci di guardarci dentro e di comprendere chi siamo oltre lo strato delle apparenze e delle costrizioni sociali; e continueremo a delegare agli altri e ai loro occhila definizione di noi stessi, proprio come ci ricorda l’autrice attraverso il doppio autoritratto di Dora Maar, musa di Picasso:
«[…] Una donna spezzata che non si riconosce dalla sua ombra. Che si cerca nello sguardo dell’altro, prova a vedersi come Picasso la vede, a prendere lo sguardo di lui – ne soffre. […] E cosa vede Dora quando guarda se stessa? Trova lui che la guarda, si vede come lui la vede – frantumata, rotta, un volto che esce da una maschera, un essere vivo dentro il suo calco di gesso […]».
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In ciò risiede la forza coinvolgente di queste pagine, oltre che in un linguaggio capace di riflettere la stessa profondità che arriva dagli autoritratti – profondità nelle immagini e profondità delle parole – in un susseguirsi di racconti e riflessioni che ci parlano anche di luoghi abbandonati, laghi in cui specchiarsi, vasche piene di acqua su cui galleggiare, animali in gabbia, specchi. Tutti elementi apparentemente privi di significato, ma che ancora una volta spingono il lettore ad andare oltre la superficie, scoprirne ciò che simboleggiano, ciò che racchiudono e rappresentano.
Chi sono io?non è quindi un semplice libro, ma è un invito a intraprendere un percorso di scoperta, comprensione e rivendicazione della propria identità. In fondo ognuno di noi può compiere quel gesto coraggioso di autoritrarsi, inteso non come strumento di costruzione della propria reputazione, ma come radiografia dell’anima, dei dolori inconfessabili e delle ferite che non si cicatrizzano. Una fotografia che ci ricorderà che noi esistiamo al di là dell’approvazione degli altri, dei loro pollici in alto, perfino delle madri che ci hanno sì generato, ma ci hanno donato soltanto il bulbo e le radici del nostro io: a noi spetta far nascere il fiore. E poco importa quale sia la forma, il colore, la grandezza: ciò che conta è che sia nostro, esclusivamente nostro. Solo allora saremo capaci di dire agli altri, soprattutto a chi ci ama:
«[…] Non somiglio a nessuno, eppure ti somiglio. Guardami, ecco come sono, tienimi. Ti tengo, ti amo, ti guardo».
Per la prima foto, copyright: Jakub Gorajek.
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