L’Autore Invisibile al Salone del Libro di Torino
Ogni conferenza dell’Autore Invisibile al Salone del Libro di Torino è stata aperta da Ilide Carmignani con la citazione della frase di Susan Sontag: «La traduzione è il sistema circolatorio delle letterature del mondo». La traduzione è qualcosa di vitale importanza, ci viene detto e ce lo siamo detti a ogni incontro. Un’importanza trasparente, non palpabile. Ecco perché “invisibile”.
Il tradurre è una pratica essenziale, altamente frustrante, sì; eppure così arricchente. Quando si pensa al traduttore, in quanto persona, la traduzione sarà per forza frustrante: il traduttore sentirà sempre incombere il peso di quel gap fra l’originale e il testo di arrivo, un gap in cui qualcosa va dolorosamente perso, e il traduttore deve imparare a conviverci. Ma quando si pensa alla traduzione in sé, ecco, questa arricchisce non solo i lettori o la cultura d’arrivo, ma persino il traduttore stesso, il quale agisce come filo conduttore, canalizza le informazioni, l’energia del testo, senza lasciare che venga dispersa, e facendola riversare in un nuovo contenitore, trasformandone l’energia in nuova forza. Il traduttore, in sostanza, è questo: un conduttore che vibra di passioni proprie e altrui, percorso da elettroni di significato. Sempre elettrizzato. Sempre pulsante.
Se di carica elettrostatica si può parlare, dunque, ce n’era ovunque nelle sale che hanno ospitato le conferenze dedicate alla traduzione al Salone – era negli occhi di Carmignani quando citava la Sontag, si è detto; nei picchi di voce degli altri traduttori che parlavano dei loro sacrifici per tradurre dei punti ostici del testo; nell’odi et amo che è il rapporto tra traduttore e suo autore (perché gli autori e i testi tradotti diventano delle proprietà); negli applausi commossi di fronte a delle definizioni perfette sull’arte traduttoria. E se si volesse riassumere le conferenze tenutesi al Salone sull’Autore Invisibile, si potrebbe sistemarle su una retta, partendo dall’intimo del traduttore nella sua stanza e nella sua solitudine, fino ad arrivare ai “fuochi d’artificio” del testo tradotto, alla spettacolarità della parola in ogni sua forma. Quindi, niente resoconti cronologici sulle conferenze dell’Autore Invisibile. Che si segua questa retta.
Che si inizi pure dalla conferenza di Daniele Petruccioli sul tradurre i romanzi di Dulce Maria Cardoso, una di quelle conferenze che colpisce per la sincerità sconcertante e il coraggio. Petruccioli, infatti, ha deciso di spiegare come tradurre la Cardoso lo abbia reso diverso, non solo professionalmente, ma anche come persona e come scrittore in seconda. Lo ripete più volte durante la conferenza, che si sappia, dice, «non parlerò di una traduzione da palcoscenico, in cui il traduttore può raccontare i salti mortali della lingua». La sua non è una discussione da stand-up translator, che fiero racconta dei momenti epifanici notturni in cui finalmente capisce come trasporre un sintagma. No, Petruccioli ha voluto parlare di come la Cardoso e la sua lingua l’abbiano cambiato. Avrebbe voluto mostrarci i reperti delle sue traduzioni, i testi originali in portoghese con le note a margine, in cui sono state appuntate, a matita, traduzioni estemporanee, magari delle idee su come tradurre delle preposizioni. Immediatamente, sottolinea: «il cuore del nostro mestiere sta nelle piccole cose» come le preposizioni, «è nei punti meno importanti che la sua arte si manifesta». Porta a esempio tre parole in particolare, parole che per la disarmante semplicità hanno rappresentato una sfida incalcolabile per il traduttore. Questi aneddoti sono, forse, la storia di una sconfitta, ma questo non ne ferisce la bellezza. Parla di un “sebbene” modificato due giorni prima della stampa del testo, in “nonostante” – perché chi lo pronuncia nel romanzo è un adolescente, e per giunta un retornado, la sua grammatica non è perfetta – e Petruccioli si è fatto carico delle parole altrui, ne ha fatto suo l’incedere. Racconta della difficoltà e della quantità mastodontica di note a margine tra traduttore e revisori, per poter tradurre mostrenga, per rendersi conto, dopo anni, che la chiave della traduzione era nelle parole circostanti, nelle assonanze del testo. O ancora, il dilemma su come tradurre una parola tanto comune come bonita, che nel contesto dell’originale assumeva un’importanza straordinaria, e di come sia stata tradotta con un corrispettivo non perfetto. Ma Petruccioli afferma «quello che la teoria dice essere errore, nella pratica musicale del testo è un imperativo», fino ad aggiungere quasi sottovoce che «l’errore è apparenza. L’errore può essere fecondo. Ho imparato a fidarmi persino degli errori inconsci». Con il suo parlare concitato e accalorato, rende così vivido il problema personale del traduttore di fronte alla responsabilità del testo, delle voci dei personaggi, della voce dell’autrice – e per quanto si possa esorcizzare il gioco di parole con la pratica, in fondo, un traduttore avrà sempre paura di essere un traditore. La conferenza termina con l’esempio di un altro problema che il testo poneva: far sentire la differenza tra il portoghese della madre patria e quello delle colonie. E Petruccioli l’ha risolto facendo ricorso alle parole di sua nonna, a quelle della sua infanzia, parole perfette perché desuete, e quindi adatte a far sentire la stessa differenza che intercorre fra bus e corriera.
Una risoluzione che Susanna Basso, durante la conferenza dedicata al tradurre Alice Munro, ha definito con geologia linguistica. Definizione che implica l’andare a riprendere le parole dimenticate di sua madre, definizione che implica anche quanto il tema del ritorno e della maternità – così tanto importanti per l’opera della Munro – l’abbiano rapita e coinvolta persino nel momento della traduzione. «Nonostante la pratica ormai più che decennale sui suoi testi, scopro sempre un pudore diverso a raccontare le mie traduzioni delle sue storie. Mi sono chiesta perché… E credo che la risposta sia questa: che nella lingua di Munro a volte mi sono persa. Mi sono confusa, ho sentito verificarsi qualcosa di pericoloso che altri autori impedivano che accadesse. Ho sentito echeggiare dentro i suoi dialoghi, per esempio, un’ironia spenta che mi risvegliava il ricordo di un certo parlato contadino a me familiare. Mi è sembrato, a momenti, di andare a pescare le parole della traduzione in ripostigli linguistici ben lontani dal conforto asettico dei dizionari. È una sensazione esaltante, ma anche un po’ spaventosa. Perché la lingua diventa in quei casi materiale radioattivo… Si percepisce il rischio di contaminazione, un fenomeno che va al di là dei concetti di errore, aderenza, ambiguità, metodo»[1]. Si potrebbe parlare di transfert e controtransfert della traduzione. E, soprattutto, si potrebbe parlare della sacralità nel tono della Basso, il suo sguardo emozionato nonostante quella pratica ormai più che decennale, e il riso sincero di quando si discosta dall’intervento per ammettere in tutta franchezza di essere caduta in un lapsus freudiano – si parlava di “sventratori di tacchini” e invece: «…perché i sventratori di storie [ride] no, io sono una sventratrice di storie».
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Tra i grandi sventratori di storie che sono intervenuti al Salone, c’era anche Matteo Colombo, di cui è appena stata pubblicata la nuova traduzione de Il giovane Holden, edita da Einaudi. Colombo afferma di aver lavorato su «quattro traduzioni differenti: su quella del ‘61, quella francese e quella spagnola in cerca di ispirazione», per mantenere lo stile asciutto di Salinger, l’«economia del testo», e scoprire che il romanzo «può esser stato scritto l’altro ieri» per quanto sia fresca la sua lingua. Anna Nadotti, infatti, aggiunge che «Salinger è più vivo di tutti noi», e questa frase sicuramente implica molte più conseguenze, non solo a livello linguistico. Ma del resto, afferma sempre Nadotti, «ogni storia d’amore è una storia di fantasmi», citando non solo una famosa e recente biografia, ma anche il “diario di bordo” che la Nadotti e Colombo hanno pubblicato sul sito Einaudi per raccontare l’esperienza della traduzione di Salinger. Una frase di questo diario può riassumere bene quello che è stato detto durante la conferenza: «Le ultime tre settimane prima dell’andata in stampa sono state frenetiche. Ho trascorso ore e ore su Skype con l’editor Einaudi, rapiti da una foga di perfezione inebriante ma faticosissima. Sentivamo di giocarci la faccia, e quando siamo rimasti da soli a tirare la volata, ci ha preso la tensione. È stato tutto un lavoro di ripristino delle coerenze interne, di musicalità, di “de-colombizzazione” (ovvero la caccia ai miei tic linguistici, anche infinitesimali), ma soprattutto di progressiva modulazione del registro, anche questa infinitesimale. Un momento bellissimo, comunque, benché estenuante».
Musicalità– ci riporta direttamente all’intervento di Magris sull’oralità del testo, e quindi anche della traduzione che deve «mantenere lo shock dell’originale» o per dirla con le parole di Franco Buffoni, durante la conferenza dedicata al tradurre la poesia, «il traduttore deve trovare un’intonazione, non deve imitare il ritmo della poesia originale, ma deve trovare un ritmo giusto per ri-produrre l’arte dell’originale». Donata Feroldi si spinge anche più oltre, affermando che «la traduzione è una transustanziazione».
Coerenza– come non citare l’intera conferenza dedicata alla traduzione dei classici, in cui Elena Loewenthal ha parlato della propria personale «chimera – o forse addirittura un incubo – della Bibbia in tutti i testi dall’ebraico» che traduce; o come non parlare di Ada Vigliani che con fare entusiasta, esaltato, ha parlato della traduzione de L‘uomo senza qualità e del Redentore di Musil, e della difficoltà di dover interpretare l’autore lì dove era più oscuro, gli «specchi ciechi» che erano alcune frasi in particolare, dove l’autore è stato frettoloso, o addirittura dove è stato troppo pedante.
Si potrebbe dire che, il ciclo di conferenze sull’Autore Invisibile al Salone non si poteva concludere che con tutti i giochi pirotecnici della lingua – italiana e non. Giunti a questo apice, che è quello della bellezza del testo sulla carta stampata – ormai lontana dalle tribolazioni e dalle sudate carte personali dei traduttori –, si posizionano gli interventi di Maurizio Trifone sulla ricerca del sinonimo perfetto, e quello di Douglas Hofstadter sui giochi nella letteratura comparata. Trifone ha dipanato un’incessante matassa di termini, ché egli stesso parlava per sinonimi offrendo (minimo) tre diverse varianti per ogni concetto espresso – deformazione professionale, probabilmente, e grande abilità in giochi d’illusionismo verso di noi, il pubblico. Mentre Hofstadter si è dilettato nel trasformismo, prendendo una poesia di Marot, À une damoyselle malade, e traducendola un’infinità di volte da lingua a lingua, allontanandosi sempre di più dall’originale, applicando la tecnica della traduzione della traduzione, solo per puro gioco linguistico e per pura sfida nei confronti delle sue grammatiche e dei suoi assiomi, per dimostrare che in qualsiasi caso che la lingua è bella anche quando aggrovigliata.
Perché quello che è emerso dagli incontri sulla traduzione al Salone del Libro è che in ogni punto da cui si analizzi quello strano processo che è la traduzione, che sia dal suo intimo, dalla sua partenza, o che sia nei suoi aspetti più scenici; che sia nelle sue contraddizioni interne, o nell’inequivocabilità di certe scelte; che sia nelle sofferenze dovute allo scavo interiore, o alla gioia dell’aver trovato la parola perfetta, il lavoro del traduttore è uno dei lavori più belli al mondo, come non ha avuto paura di affermare Elena Loewenthal. Ed è con questa definizione che si potrebbe concludere la retta disegnata dalle conferenze sull’Autore Invisibile al Salone del Libro di Torino.
[1]Il testo completo dell’intervento di Susanna Basso al Salone del Libro è stato pubblicato nell’ultimo numero della rivista «Tradurre», ed è disponibile al seguente link: www.rivistatradurre.it/2014/04/una-privata-geologia-linguistica/.
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