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L’arte di raccontare con la voce. Dai cantastorie all’Opera dei pupi

L’arte di raccontare con la voce. Dai cantastorie all’Opera dei pupiLa figura del narratore girovago è presente in ogni area geografica, nei vari secoli; ha richiami mitologici e talora sciamanici ed è l'origine dell'arte della parola e dell'intrattenimento più o meno colto.

Il cantastorie storicamente più vicino a noi veste i panni del cantore popolare che va girovagando nei paesi e, accompagnato da uno strumento musicale come la chitarra o la fisarmonica, canta e narra storie reali o leggendarie, lontane nel tempo o contemporanee (1). Solitamente questo cantastorie usa un cartellone che sintetizza gli episodi della storia in riquadri.

La Sicilia ha avuto una ricca tradizione legata ai cantastorie e ai racconti epico-cavallereschi del ciclo carolingio tanto da far nascere il “cunto” ovvero “racconto” che è un modo diverso di usare la voce mentre si narra.

Dalla seconda metà del XIX secolo viene indicato, nei vari dialetti siciliani, con “cuntastorie” una figura particolare di narratore girovago. Il cuntastorie non canta e quindi non porta con sé alcuno strumento musicale e, per scandire e lasciar memorizzare gli eventi, non si avvale di un cartellone, ma di un particolare uso della voce e dei movimenti del piede e di una spada di legno. Un altro elemento che lo differenzia dal cantastorie è l’uso di repertorio preciso, quello epico e cavalleresco.

Nel cunto la voce può tuonare, accarezzare, rompersi e, nei momenti più drammatici o che necessitano di maggiore descrizione, può essere aiutata dal battere del piede e dal roteare della spada. Quando il racconto si fa evocativo, la voce può diventare suono astratto e una decisa scansione ritmica riesce a separare il significato dal significante.

Col tempo la distinzione tra i narratori girovaghi si accentuò e i cantastorie preferirono un repertorio per così dire giornalistico o satirico e lasciarono quello epico-cavalleresco ai cuntastorie e all’Opera dei Pupi.

L'Opera dei Pupi è un teatro di figura di cui è difficile tracciare le origini. Giuseppe Pitrè, studioso delle tradizioni popolari siciliane, reputò che fosse nata nella prima metà del XIX secolo.

Il pupo è una marionetta di legno vestita con abiti di tessuto e, nel caso dei cavalieri, indossa un'armatura di metallo. La marionetta del pupo è mossa da alcuni bastoni e nel tempo gli accorgimenti tecnici si sono raffinati, tanto che oggi il pupo può fare molte azioni, come estrarre e riporre la spada nel fodero, abbassare la visiera, abbracciare e baciare.

I tratti somatici e l'espressione dei volti dei pupi famosi come Orlando, Rinaldo, Bradamante, Berta, Carlo Magno sono una fedele ricostruzione, nata a seguito di uno studio sulle pitture tardo medievali e rinascimentali oppure sulle descrizioni trovate nei testi della poesia cavalleresca.

 

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Tra la seconda metà dell'Ottocento e i primi anni del Novecento si riscontra un impatto socio-politico nel mondo del Teatro dei Pupi. Il popolo vedeva rispecchiate le proprie problematiche e i soprusi subiti nelle lotte tra cristiani e saraceni, nelle trame di Gano di Magonza. La figura di Rinaldo, in quanto paladino ribelle a Carlo Magno, era molto amata. Talvolta nacquero scontri fra le classi subalterne e le classi dominanti, dopo uno spettacolo dell'Opera dei Pupi.

Dopo la Seconda guerra mondiale la società cambiò in fretta e in modo irreversibile e le antiche tradizioni dei racconti orali vennero a perdere il loro fascino. Ma guardiamo da vicino cos'è rimasto di quella tradizione.

Ci incamminiamo all'interno dello spettacolo Visita guidata all'opera dei pupi, scritto e realizzato nel 1989 da Salvo Licata e Mimmo Cuticchio, per incontrare l'antica tradizione dell'Opera dei Pupi e quella del cunto al fine di capire il loro attuale valore culturale e artistico.

Visita guidata all'opera dei pupi narra la trasformazione di una società e dei suoi mezzi di intrattenimento o formativi. La storia è ambientata nel secondo dopoguerra in una Palermo piena di ombre e di difficoltà.

La scena è quasi buia, poche luci taglienti illuminano pupi, oggetti di scena e il puparo, Don Paolo, di cui un cunto energico, dalle movenze sonore astratte, descrive la pazzia, mentre egli afferra il pupo del paladino Orlando, a sua volta pazzo d'amore per Angelica e gli spezza la testa.

Il testo scenico è giocato su due piani, quello elaborato da Licata, reso con una scrittura “scientifica”, rivolta all'indagine sociale che illustra una città massacrata dalla guerra, e quello inventato da Mimmo Cuticchio e reso con una stesura “a canovaccio” da sviluppare e talora da ricreare in scena.

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Anche lo stesso racconto drammaturgico si svolge su due piani: da una parte Don Paolo, interpretato da Mimmo Cuticchio, che, vittima di un cambiamento sociale profondo e irreversibile, vede il suo lavoro di puparo senza futuro, e dall'altra parte i pupi, attori di legno, creature senza tempo, sempre pronte a rialzarsi e a narrare tradimenti, amori e battaglie. I due piani si compenetrano e scorrono l'uno nell'altro.

Don Paolo evoca i ricordi delle truppe alleate sbarcate in Sicilia e, muovendo i pupi dei Saraceni sotto le mura di Parigi, confonde le milizie, le armi e le emozioni.

Carlo Magno abbraccia e consola il pupo di Rinaldo dopo che Don Paolo ha confessato che il pubblico non segue più i pupari e i contastorie perché attratto da altri linguaggi, da altri mezzi di comunicazione.

Se da una parte lo spettacolo enuncia a chiare note la fine del teatro dei pupi, la fine di una tradizione spazzata via dal cambiamento di un'epoca, dall'altra traccia una possibilità per la sua rinascita, lascia intravedere la crepa attraverso cui l'antica linfa della parola può penetrare e circolare in nuove arterie per far vivere ancora quell'arte scenica.

Questo spettacolo è uno spartiacque nella vita artistica di Mimmo Cuticchio e anche nella tradizione centenaria del cunto e del teatro dei pupi.

 

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Mimmo Cuticchio è figlio d'arte e all'interno del teatrino di famiglia, sotto la guida del padre Giacomo, ha percorso tutte le tappe per diventare un puparo: conoscere gli episodi e i nomi del ciclo carolingio, saper suonare il pianino, aiutare in scena e fare l'oprante.

Alla fine degli anni '60 Giacomo Cuticchio, per far sopravvivere il teatrino, preparava solo spettacoli per turisti: ripeteva lo stesso spettacolo per un pubblico sempre diverso. Questo modo di lavorare era per il figlio Mimmo frustrante e asfissiante, per lui che avrebbe voluto sperimentare altre cose ma, essendo il padre intollerante verso qualsiasi innovazione, i due giunsero a una rottura.

Quel momento di crisi fu l'inizio di un percorso individuale arricchito poi da altri tipi di formazione attoriale e anche dall'incontro con un grande maestro di cunto e puparo: Peppino Celano.

Peppino Celano, per sancire la conclusione di quel percorso maestro-discepolo, donerà a Mimmo la sua spada preferita.

Mimmo fonda nel 1971 la Compagnia Figli d'Arte Cuticchio e nel 1973 apre un suo teatrino. Gli anni Settanta-Ottanta per Cuticchio sono gli anni della sperimentazione.

L’arte di raccontare con la voce. Dai cantastorie all’Opera dei pupi

Lo spettacolo La spada di Celano, dove si racconta la trasmissione del sapere da maestro a discepolo, è il momento in cui il cunto arriva in un teatro con un pubblico nuovo.

Al tempo di Giacomo Cuticchio l'opera dei pupi come anche il cunto avevano una funzione sociale, erano il rito di una collettività che oggi non esiste più.

Quindi, Mimmo Cuticchio sperimenta nuove tecniche narrative e performative che vanno incontro al nuovo ambiente e al nuovo pubblico. Anche i copioni rinnovano i loro temi: nascono Cagliostro, Coriolano, Iliade per il teatrino tradizionale dei pupi. Afferrata l'essenza della tradizione, nasce una poetica nuova, dove i pupi e il cunto entrano nei vari generi teatrali e si legano a differenti personaggi, come ne L'Urlo del mostro, Don Giovanni, Macbeth, Storia di Manon Lescaut, del cavaliere Des Grieux e in tanti altri.

In un'intervista di alcuni anni fa Mimmo Cuticchio disse, a proposito della tradizione: «La tradizione è un'esperienza che passa di padre in figlio o da maestro ad allievo, ma non bisogna intenderla sempre la stessa. Possiamo paragonarla all'acqua di un fiume che, pur scorrendo sempre tra gli stessi argini, non è mai la stessa acqua».

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(1) In realtà esiste una figura di cantastorie ancora più vicina a noi, che ritroviamo in certi programmi televisivi e nel cinema degli anni Sessanta, come anche nei film di Pier Paolo Pasolini.

Si ringrazia Mimmo Cuticchio per aver rese disponibili le foto.

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