"L'arte di perdere tempo", elogio della lentezza per viaggiatori speciali
L'arte di perdere tempo (Ediciclo, 2017 – traduzione di Francesca Cosi e Alessandra Repossi) è un breve e accattivante saggio di Patrick Manoukian, giornalista e scrittore francese di origine armena che è, prima di tutto, un accanito viaggiatore, e non solo per necessità legate alla professione giornalistica.
Il suo primo e avventuroso viaggio risale infatti alla fine degli anni Sessanta, quando nemmeno diciottenne riuscì a raggiungere New York, dove rimase per un'estate lavorando in un ristorante, per poi realizzare, al termine degli studi, ventisette mesi di vagabondaggio assoluto attraverso mezzo mondo, dall'Islanda all'Amazzonia.
Anche la sua produzione narrativa risente delle esperienze vissute in paesi lontani, perché in Francia ha ottenuto un grande successo (sotto lo pseudonimo Ian Manook) con una trilogia di romanzi gialli ambientati in Mongolia, di cui Fazi ha pubblicato nel 2016 il primo volume Yeruldegger. Morte nella steppa (traduzione di Maurizio Ferrara).
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Cos'è allora, per un viaggiatore di lungo corso come Manoukian, "l'arte di perdere tempo"? Come si arguisce dal sottotitolo, che definisce il saggio come una «piccola celebrazione della sosta e degli imprevisti», l'autore ha una visione del viaggio che va del tutto controcorrente rispetto al nostro modo abituale di concepire questa esperienza.
Noi generalmente consideriamo il viaggio come un periodo di assenza dalla nostra vita di tutti i giorni, ci dice Manoukian, ma ci dimentichiamo di considerarlo come una fase di vita vissuta, e spesso più intensamente di quella quotidiana, perché ricca di nuove esperienze. Ogni tappa ci conduce in un luogo nuovo da esplorare, da conoscere cercando il contatto con gli abitanti, mangiando i cibi locali, gustando sapori e odori e decidendo quanto tempo fermarci in base alle nostre sensazioni.
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Certo, non tutti sono in grado di viaggiare liberamente, senza limiti di tempo e di spazio, come ha avuto la possibilità di fare l'autore, e questa è un'obiezione di fondo che si potrebbe fare al suo modo di muoversi nel mondo seguendo spostamenti spesso casuali, senza un itinerario prefissato e, soprattutto, concedendosi la libertà di lunghe soste tra una tappa e l'altra, perché sono appunto le soste la parte più importante di un viaggio.
«Roland Dorgelès (giornalista e romanziere francese bohémien attivo fra le due guerre mondiali) ha scritto che viaggiare è partire, più che arrivare. Per me, viaggiare è fermarsi. Fare una pausa oziosa tra la tappa appena raggiunta e quella successiva» spiega Manoukian, per cui la sosta costituisce una via di mezzo tra la voglia di fermarsi in un luogo per conoscerlo meglio e il desiderio di ripartire alla volta di altri luoghi e di altre scoperte.
Del resto, si può convenire con lui quando sostiene che «il percorso non è che una forma particolare di immobilità», se per spostarci da una meta all'altra dobbiamo per forza trascorrere molte ore chiusi dentro un aereo, un'auto, un treno o un pullman: sono questi, in effetti, i momenti in cui ci possiamo considerare assenti o "sospesi" dall'esistenza, mentre quando sostiamo in un luogo impariamo a viverci, anche se per un periodo breve.
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Questo piccolo saggio rappresenta quindi una lettura molto particolare, perché può insegnare a tutti noi a guardare i luoghi che visitiamo, vicini o lontani che siano, con occhi diversi, allontanandoci un po' dai clichés e dagli stereotipi.
Non a caso, è stato pubblicato in una collana chiamata "Piccola filosofia di viaggio", in cui Ediciclo, piccola ma interessante realtà editoriale nata pubblicando libri sulla bicicletta per poi allargatasi anche ad altri argomenti, propone una serie di brevi saggi sugli aspetti meno insoliti degli spostamenti umani, dal treno alla vela, dalle pedalate estreme alle lunghe camminate in solitudine.
Patrick Manoukian, ne L'arte di perdere tempo ci racconta soprattutto questo, una divagazione molto curiosa e molto personale che piacerà anche a chi si limita a viaggiare con la fantasia.
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