L’antropologia del gioco dall’evoluzionismo al funzionalismo
L’antropologia culturale nasce dall’esigenza dell’uomo di indagare il proprio contesto evolutivo attraverso dei tratti caratteristici, in particolare quelli culturali. All’interno di questo approccio, il gioco è sicuramente uno degli elementi al centro di diverse prospettive di analisi e riflessione. L’interesse per il ludico è fuor di dubbio successivo rispetto all’affermarsi dell’antropologia culturale propriamente detta. Non che per il gioco non ci fosse una certa attenzione, ma era tuttavia episodica. Gli antropologi ufficiali, per molto tempo, si sono occupati di ludico solo superficialmente, non riconoscendogli lo spazio che avrebbe meritato. Solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, però, l’antropologia inizia a concepire il gioco come una sorta di deposito misterioso nel quale sopravvivevano antichi ed obsoleti costumi, credenze, istituzioni (De Sanctis Ricciardone, 1994). I giochi, in tal senso, venivano intesi come i residui di attività più “serie” (evoluzionismo vittoriano), perciò non sarebbero stati altro che la riproduzione delle fasi primitive della storia, di quella che si può chiamare l’infanzia dell’umanità (De Sanctis Ricciardone, 1994). È solo con Huizinga, uno dei grandi teorici del gioco, che a quest’ultimo viene riconosciuta, per la prima volta, la funzione di operatore decisivo di ogni cultura [….]. La cultura sorge in forma ludica (Huizinga, 1938). Analizzare i giochi, così come si presentano in una determinata società, significò allora raccontare la storia da un osservatorio particolare: quello dell’universo ludico, appunto. Se prima il gioco era considerato solo uno dei tanti tratti culturali, bisognerà attendere Huizinga per assistere ad un mutamento di approccio e metodologia di analisi e all’affermazione della tendenza ad analizzare un determinato periodo a partire dall’individuazione del modo di giocare, considerato, appunto, indicativo e rappresentativo degli elementi caratterizzanti di una data società.
Con Alice B. Gomme, che parte dalla prospettiva dell’evoluzionismo vittoriano classico, si comincia a criticare persino l’eccessivo comparativismo tyloriano che si prefiggeva la comparazione tra diversi giochi di diverse società. L’antropologia che in questa fase si occupa del gioco lo fa con un approccio evoluzionista, cioè ponendo l’attenzione sull’origine dei giochi, sulla loro descrizione e comparazione. All’interno di questo paradigma, si andarono consolidando due prospettive: la poligenesi e la monogenesi. Per poligenesi, si intendeva l’origine plurima delle istituzioni culturali e. quindi, anche dei giochi; la monogenesi era più propensa a credere che le innovazioni culturali fossero estremamente rare, e che, una volta affermatesi, tendessero eventualmente a diffondersi. Per i sostenitori dell’origine monogenetica degli istituti culturali, la comparsa dello stesso gioco in due luoghi differenti del pianeta avrebbe dovuto spingere i ricercatori a individuare i percorsi di diffusione che avevano portato il gioco da una parte all’altra. Ovviamente, era molto raro che le due posizioni di monogenetismo e poligenetismo fossero fatte proprie in modo esclusivo dai singoli studiosi, che, invece, molto spesso si affidavano al buon senso e ritenevano che stabilire se un gioco avesse un’origine unica o plurima fosse questione strettamente empirica. Si svilupparono, quindi, delle posizioni intermedie come quella di Giuseppe Pitrè, autore della monumentale Biblioteca delle tradizioni popolari, in cui ritiene ammissibile sia l’una che l’altra posizione. Per Pitrè, infatti, le due prospettive non erano da considerare in contraddizione, ma andavano verificate a seconda dei singoli giochi.
Questo fino ai primi del novecento, quando, affermandosi il funzionalismo in antropologia, ci si convinse che fosse necessario individuare la funzione dei giochi al’interno della società di riferimento. I maggiori esponenti di questa prospettiva furono Malinowski e Radcliffe- Brown. I funzionalisti ritenevano che i giochi dovevano essere analizzati in rapporto agli aspetti della cultura o del sistema sociale e all’antropologia spettava il compito di scoprirne le funzioni e le interrelazioni. Fu proprio in questo periodo che l’antropologia subì quella profonda e decisiva rivoluzione, che le permise di affermarsi come scienza a sé stante, lontana, almeno negli intenti, da contaminazioni idiografiche, congetturali e storicistiche. Gli antropologi ritennero sempre più indispensabile vivere a diretto contatto con i popoli oggetto della loro indagine: solo in questo modo si aveva la possibilità di conquistarne la fiducia e, quindi, entrare più in profondità nelle analisi. Tale prospettiva metodologica affermava la priorità della ricerca sul campo e apriva per l’antropologia nuovi orizzonti geografici, ma soprattutto teorici. Il gioco divenne, perciò, una di quelle categorie che più facilmente potevano essere osservate presso le varie popolazioni. Il ludico risultava molto importante e funzionale rispetto all’analisi culturale vera e propria. Le teorie precedenti sul ludico come deposito quasi esclusivamente storico di costumi e credenze perdevano valore e importanza. Il gioco era servito e serviva a qualcosa, diventava funzionale, strappando l’uomo alla consuetudine e rigenerandolo. Sebbene Malinowski non abbia fornito una vera e propria definizione di gioco, egli, come la maggior parte degli antropologi del periodo, intravedeva le connessioni con gli altri aspetti della cultura e, in particolar modo, lo distingueva dal lavoro.
Gioco, dunque, inteso come svago dal lavoro e, perciò, capace di ricreare energia da reinvestire subito.
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La foto è la riproduzione de Il dilettevole gioco di loca di Carlo Coriolani, Venezia 1640 (Civ. Racc. delle Stampe A. Bertarelli, Milano)
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