L’amore non è potere. Intervista ad Anna Segre
Con La distruzione dell’amore Anna Segre torna in libreria per Interno Poesia.
Si tratta di una raccolta di poesie con cui l’autrice mette in scena un processo di distruzione dell’amore da parte sua (o dell’io poetico) e delle sue amanti.
Una distruzione che sa farsi poesia per mostrare la carne viva di un sentimento che resta nonostante tutto.
Di questo e di molto altro abbiamo parlato con l’autrice.
Nella sua biografia lei si descrive: «medico, psicoterapeuta, anche ebrea, in più lesbica». In che modo tutte queste componenti trovano spazio nella sua opera?
Come si definisce una persona nella nostra società?
Potrei dire: donna che ama leggere Salamov, o che cucina verdure, o sogna naufragi da sette anni, ossessiva sulla pulizia. Potrei dire: si commuove alla scena finale di Come eravamo, lavora a maglia, ascolta De André.
Ma in questo mondo contano alcune categorie più di altre: laurea, collocazione economica, religiosa, di genere. Sulla standardizzazione dell’inquadramento mi scatta l’ironia e sbotto: “pure mancina”.
La mia opera, sia questo libro di poesie sia gli altri che ho scritto, mi riguarda profondamente, anche quando non parlo di me, e queste componenti sono intrecciate col resto, sono fili della tela…
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La prima cosa che salta agli occhi è il titolo: «La distruzione dell'amore». Perché un titolo così forte? E cosa intende per "distruzione"?
A un certo punto feci un file “LA DISTRUZIONE DELL’AMORE”, quattro anni fa, e ci misi dentro le poesie del disincanto, del conflitto, della frase intera impossibile da pronunciare di persona.
Ah, avessi potuto, l’avrei raso al suolo quell’amore. Ma, per quanto io protesti, rivendichi, entri in loup ossessivi di paranoie e chiuda tutti i miei boccaporti affettivi, l’amore rimane. Non si distrugge.
Per quanto ci applicammo, io e le mie perdute amori, a infangare, rovinare, affossare e ridicolizzare il nostro goffo e sacro sentimento, quello trovava il modo di ripresentarsi sotto altre forme. Nessuna persona che io abbia amato e che mi ha amata è fuori dalla mia vita. Obliquamente ci amiamo ancora, nascostamente ci sorvegliamo, ci vogliamo vive.
Però la fase della distruzione c’è, e in queste poesie compare, oltre all’amore, anche la sua umiliazione, il suo esilio. Intitolare La distruzione dell’amore permette la domanda e il passaggio dall’idealizzazione alla delusione cocente e dalla delusione alla resurrezione di un affetto che sa, ricorda bene perché ti ha tanto amato.
In «Omoaffettività» lei scrive che troverebbe «appropriato/preciso/somigliante/e onesto» che si parlasse di affettività più che di sessualità. Un tale mutamento che impatto avrebbe, secondo lei, sul piano sociale?
A nessun eterosessuale verrebbe in mente di definirsi tale. Ma chissà perché è necessario per un omosessuale farlo, dichiararsi, collocarsi. Addirittura c’è proprio la parola legata a questa necessità: coming out. Il coming out esiste perché non è ovvio socialmente che ci si possa innamorare di persone dello stesso sesso, quindi si rende indispensabile far presente la cosa. E, nel momento in cui lo si fa, la parola ha il suffisso -sessuale, quindi inerente all’atto e non alla relazione tutta, con conseguenze sociali di svalutazione della relazione omosessuale, in quanto sessuale.
Prima cosa allargare la definizione sull’affettività, e poi spogliarla di ciò che non definisce l’affettività, cioè i genitali.
Beh, sarebbe un bel cambiamento…
In «Giustizia» scrive:
«Sperare senza sapere
è scaramanzia
miracolo, magia.»
Cosa sono per lei la speranza e il sapere?
La speranza è una forma di attaccamento alla vita, a volte convulsa, a volte infusa di fede, a volte fondata su una probabilità calcolabile. Ma, ecco, mettere a confronto la speranza col sapere è come mettere una dea gigantesca a confronto con un esercito ben organizzato. La dea è immortale e vince senza nemmeno combattere.
Io sono figlia della medicina allopatica, degli esperimenti confutabili, del cognitivo comportamentismo, questi saperi mi abitano. Ma la mia dimensione dionisiaca è imparagonabilmente più potente e quindi sono anche un’idiota, una speratrice fortissima. Il miracolo arriverà.
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Uno dei temi ricorrenti nelle poesie di questa raccolta è il cambiamento, declinato in varie forme e modi. Cosa rappresenta per lei il cambiamento? E in che misura in esso è presente una componente di lotta?
Se non credessi nella possibilità di cambiare, non potrei fare un lavoro di cura.
Se non fossi stata malata, se non mi fossi rotta tante ossa, se non fossi stata obesa, se non avessi mai pensato alla morte, se non avessi temuto di non superare gli ostacoli, non conoscerei la guarigione, la fatica del percorso, la frustrazione cellulare del cambio di alimentazione, il dolore della fisioterapia, il deserto senza confini di certi momenti di psicoterapia, la gioia selvaggia di riuscire. Ho dovuto provare a fare diversamente da come stavo facendo così tante volte e ci sono riuscita così tante volte (non tutte, purtroppo), che conosco la possibilità che succeda. Se l’acqua per bollire deve aumentare l’agitazione molecolare di ogni molecola e insomma, per cambiare stato, da liquida ad aeriforme, deve impegnare ogni particella di sé, figuriamoci per cambiare un’abitudine quanto si deve lottare con i propri automatismi, individuarli uno a uno e smontarli ogni volta che si presentano...
Va bene, lo ammetto, metaforicamente sto sempre con la spada in mano, e questa è anche una forma di paura. Sono una creatura piena di spavento, ma di questo so pochissimo, mentre del callo osseo posso parlare cinque minuti di seguito.
«Il mio amore è così:
un erbivoro
che anche le tigri
temono.»
Scrive in «Pachiderma». Provo a farle una domanda un po' provocatoria: cosa non è l'amore?
Non è potere. Non è indifferenza. Non è perfezione.
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Per la prima foto, copyright: Mahrael Boutros su Unsplash.
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