L’amore non è cieco: ci vede benissimo. Alessandro D’Avenia a teatro
L’ingresso del Teatro Carcano è affollato. Sono tutti qui per Alessandro D’Avenia, che porta in scena l’ultimo suo libro, Ogni storia è una storia d’amore (Mondadori). Manca mezz’ora all’inizio dello spettacolo e mi metto in fila per ritirare il biglietto. Senza che me ne renda conto inizio a parlare con una giovane donna. Si chiama Francesca, ha 26 anni e intensi occhi azzurri. Mi racconta che lavora in un asilo e che il lunedì mattina la prima cosa che fa quando si alza è leggere “Letti da rifare”, la rubrica curata da D’Avenia sul «Corriere della Sera».
«Mi piace come parla dell’insegnamento», mi racconta Francesca. «La scuola è un sistema aperto, che si può migliorare costantemente se alimentato da energie nuove; la novità apre, non mette i bastoni tra le ruote come molti si ostinano a pensare». Nella discussione con trasporto si inserisce Barbara, una collega di Alessandro, che ha seguito a scuola la preparazione dello spettacolo. «Come appare sulla scena è realmente – ci racconta –, è una persona sempre vera, un insegnante molto emozionato».
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Ritirato il biglietto prendo posto, fila 7 posto 20. La posizione è ottima, sono a pochi metri dal palco, così non mi accorgo che il teatro è pieno se non quando entra in scena D’Avenia, accolto da un fiume di applausi. Sul palco, accanto a lui, come in un’aula scolastica ci sono ventisei studenti, tredici da una parte e tredici dall’altra. «Tutto inizia e finisce insieme a loro», dice, riferendosi ai ragazzi.
La scuola inizia bene e finisce male. All’asilo imparare equivale a giocare. Ma l’equazione viene presto incrinata, quando a partire dalle elementari studiare comincia a equivalere a soffrire, racconta. I banchi sono disposti in aula come in guerra a formare una trincea, contro il nemico, posizionato oltre la cattedra. Ma perché le cose belle devono morire?, chiede a se stesso e a noi. Forse da qua nasce il nostro bisogno di storie: vi cerchiamo un significato che ci sfugge, un’epifania in grado di spiegare tutta l’imperfezione delle nostre vite.
E se allora è di storie che abbiamo bisogno, Alessandro D’Avenia comincia a raccontarne una dietro e dentro l’altra, dai miti greci – con Orfeo ed Euridice – a storie biografiche di grandi scrittori del Novecento - come quella di Raymond Carver e Tess Gallagher. A lei, che a lungo l’ha salvato, il grande scrittore americano dedica il suo ultimo libro. Tess, Tess, Tess, Tess, scrive all’inizio di Orientarsi con le stelle (minimum fax), perché l’amore dipende da come il nome sta sulla bocca di chi lo pronuncia.
Le luci sono quasi sempre accese, le musiche cambiano di episodio in episodio e conducono per braccio il lettore nell’epoca e il luogo in cui si svolge la storia. Ogni storia si rivela una storia d’amore, un amore che non è cieco, come recita l’invalso luogo comune, ma è l’unico che ci vede benissimo. Se ognuno di noi sente così tanto il bisogno di essere amato è perché l’amore ci permette di essere noi stessi, con tutti i nostri difetti e tutte le nostre imperfezioni. D’altra parte Fellini, che per festeggiare i cinquant’anni di matrimonio fuggì dall’ospedale in cui era ricoverato, amava tanto i clown perché riescono a prendersi poco sul serio. Dopo lo show degli impavidi domatori di leoni e i temerari acrobati, il clown è impacciato come noi, noi che siamo alla perenne ricerca di una perfezione che non fa altro che farci sentire inadeguati.
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Allora non ci restano che l’amore e la bellezza, le uniche forze capaci di difenderci dal male del mondo. È nell’amore, come nelle storie, che tutto acquisisce un significato. Quando ci innamoriamo cominciamo a cantare sotto la pioggia e ci rendiamo finalmente conto che ogni occasione è buona per far festa. E poi, a ben vedere, ogni eroe inizia il suo cammino con una chiamata erotica, amorosa. Senza l’amore non si comincia ad esplorare e le storie non avrebbero ragione di esistere, quelle storie che riescono a “legarci”, gli uni agli altri, a creare “legami”. Non è un caso che “mythos” in greco voglia dire sia racconto che filo. Ed è proprio così che D’Avenia, dopo un monologo lungo quasi due ore, si avvia alla conclusione. Sul palco sono disposti dei gomitoli di lana rossa, che rappresentano le vite dei personaggi e delle persone di cui è stata racconta la storia. I ragazzi si alzano e cominciano a srotolare i fili, facendoli passare per la platea. L’effetto scenografico è forte. Ognuno di noi, anche fisicamente, è ora collegato all’altro. Prendete un pezzo e portatelo a casa, ci dice. Una storia è un filo e un filo è una storia. Ricordate? Io ne ho un pezzo in tasca.
Per la prima foto, copyright: Roman Kraft.
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