“L’amore lungo” di Giovanni Mariotti
Dopo Storia di Matilde (2003), che resta il suo libro insuperato per grazia e felicità di scrittura, dopo l’autobiografia stinta in finzione e la finzione che si fa autobiografia de Il bene che viene dai morti (2011), a chiudere un ideale trittico, Giovanni Mariotti ritorna su di un suo vecchio libro, essendo L’amore lungo versione alleggerita e profondamente rielaborata di Musica nella casa accanto, già apparso nel 1999 per Mondadori. Racconto lungo o romanzo breve del sovrapporsi e coesistere di universi intermedi, del contagiarsi tra aldiquà e aldilà, che subito ci riporta a un'opera di autentica poesia, senz’altro di più nichilistica e tragica evidenza, come Le stelle fredde (1970) di Guido Piovene (si pensi alla lucidissima lettura che ne diede Andrea Zanzotto). Tema, qui, giocato in minore, essenzializzato, e innestato su quello dell'amore. Ma di quale amore si tratta?
L’«amore lungo» di un Lui e di una Lei avanti negli anni (non quello giovanile dei giorni che bruciano di passione), edificato sulla ripetizione degli stessi gesti, delle medesime parole, con il continuo fiorire della filocalia dei 'Ti amo'; rituali senhal, privato alfabeto da formiche laboriose, messo da parte, forse chissà, anche per il dopo. «Frantumi d’umanità per l’eternità maturi» - come recita l’eloquente epigrafe baudelairiana, assunta dallo scrittore a ideale biglietto d’accompagnamento. La microfisica di questa unione che si fa «cosa», diviene materia di racconto, ripercorsa a partire dalla soglia cruciale del sopraggiungere della morte di Lui; e della solitudine di Lei, ora rimasta sola (?) ad abitare l'universo della Casa.
E Mariotti traduce in pura e rarefatta poesia quel che accade quando tutto finisce, prova a scrutare dentro al «buco nero» in cui non-vita e non-morte si toccano: Lei, pur nell'assenza, lo sente ancora aggirarsi nel recinto della casa, intravede, prima che sfumi, il fantasma del marito, ne intuisce e riconosce l’«ingombro familiare»; Lui, prima di svanire come le ombre allo zenit, bisbiglia l’ultimo istintivo ti amo (dimentico di «chi o cosa sia oggetto del suo amore»). Entrambi, nello scivolare d'un mondo nell’altro, entro questa nuova liminare condizione tra l’essere e il non-essere (dove?), fronteggiano confusi l’enigma: «sono viva io e morto tu… oppure vivo tu e morta io? oppure vivi entrambi? o morti entrambi?»; e ancora: «io sono un sogno di lei (…) oppure il contrario: io sono vivo e lei un sogno mio, un pensiero (…) ma è importante saperlo?».
Nel provvisorio trascorrere, sembrano vedere rispecchiata la propria indole da vivi: Lui svapora, nebbia evanescente, come i libri «inclassificabili e dissimili» che aveva scritto in vita; Lei, per anni impegnata nel passatempo preferito di disegnare piantine, trovare la più equilibrata sistemazione per il loro nido, lo vede palesarsi, ora, infranta ogni barriera, nella sua imperscrutabile natura di «immenso labirinto», che si riappropria d’uno spazio senza centro. La cui porta - se c’è - rimane irraggiungibile o impossibile da forzare.
Con una trama nei fatti esilissima, nutrita di fragili intermittenti increspature e vertiginosi squarci, Giovanni Mariotti dà fondo al suo minimale realismo metafisico, popolato di presenze, estinzioni, radicali svuotamenti, passaggi al limite. Cesellando così un miracoloso gioiello narrativo, sorretto dal dono di una incredibile misura. Sicché il narrato, arioso, sembra vivere per sé: sciamanica epifania di un ulteriore sovramondo che solo allo scrittore, all’arma bianca, è dato rivelare.
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