L’amore fa più paura della guerra. “Un altro candore” di Giacomo Verri
Se è vero che la vita si svolge in due tempi e un intermezzo, proprio come una partita di calcio e come l’architettura del nuovo libro di Giacomo Verri per Nutrimenti, è possibile che nella seconda fase ci sia concesso, magari ai supplementari, il recupero di Un altro candore, lo stesso che dà il titolo al romanzo.
Come per Partigiano inverno, Verri torna a un tema e a luoghi a lui cari: la lotta partigiana in Valsesia. Questa volta, però, la cornice storica è uno sfondo tenue, mentre la fanno da padrone le vite dei protagonisti, che «si saldano assieme come i lembi della pelle dopo un taglio», tra ferite che tardano a rimarginarsi nei cinquant’anni lungo i quali scorrono le pagine del libro, dal 1942 al 1992. Si muovono dentro un terreno di gioco quasi claustrofobico, rappresentato dal paese di Giave dove, nonostante alcuni di loro tentino incursioni fuoricampo, la palla delle loro vite rimbalza sempre, obbligandoli a falli durissimi non solo verso gli avversari, ma colpendo spesso anche i compagni di squadra, quando la mischia per non retrocedere impedisce di vedere chiaramente a chi si sta spezzando le gambe. In fondo, la partita dell’esistenza è più che altro confusione.
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Due uomini –Claudio e Franco –, un ragazzino – Sebastiano –, una donna –Cristina – e la loro Resistenza insieme, in montagna nel 1942, segnano il fischio d’inizio di questa storia di cime e abissi, dove la carne è sempre sotto i nostri occhi, prima come carne da guerra, da macello, e poi come rifugio contro la paura, anche quando la guerra degli eserciti e dei bandi finisce. La fisicità dei personaggi, i loro gesti, i continui incidenti di cui sono vittime o testimoni, le lacerazioni sulla pelle – fatali, in alcuni casi – segnano il lettore molto più dei dialoghi o della trasposizione dei pensieri, degli stati d’animo. Il vero stato d’animo è una lingua in bocca o labbra su una guancia; è star sopra, dentro o contro altra pelle, ed è un buio protettore pieno di conseguenze, che sembra impossibile esporre alla luce del giorno.
Questo libro è un percorso dall’oscurità al chiarore di riuscire a «ricordare senza che ce ne vergogniamo» e a ritagliarsi il diritto di un secondo tempo, nella vita, abbandonando la convinzione che «amare davvero significa che puoi far del male alle persone». I Sonetti dell’amore oscuro di García Lorca sarebbero un perfetto completamento poetico a queste pagine in cui il segreto, il passato, la colpa, la gelosia, il senso di vendetta e perfino la violenza divengono un posto in cui stare, ma sono anche i canali attraverso cui il caos si tramuta in recuperato candore. «Vorrei stare nelle tue labbra/per spegnermi nella neve/dei tuoi denti./Vorrei stare nel tuo petto/per disfarmi in sangue.», scriveva il poeta andaluso, negli anni della maturità, nel Madrigale appassionato, quando nemmeno immaginava che un giorno le sue parole sarebbero diventate un monumento all’amore universale. Ed era il 1941 quando i primi due componimenti del canzoniere di Lorca sull’amore oscuro vennero pubblicati; poco prima che Claudio e Franco scoprissero, da partigiani, la passione che li legava e che li avrebbe separati.
Questo, tuttavia, è un libro di continui ritorni, come se la Resistenza, quel «mito in base al quale avevano sorriso per decenni e si erano perdonati tanti errori», fosse il territorio e il tempo della purezza, marcato dal sangue e dallo scambio di fluidi.
Ogni personaggio continua ad annusare le tracce degli altri, per andare a stanarli dalle botteghe o dai bordelli in cui, dopo la fine della fine della guerra, credono di trovare l’oblio e abitano in segreto. Eppure i segreti «a meno che tu non sia certo di tenerli a bada, è meglio infrangerli prima che ti si rompano addosso». E così Claudio, Cristina, Sebastiano e Franco si rincorrono, si trovano e si ritrovano, soprattutto quando, nel secondo tempo, il novantesimo minuto della partita sta per scadere e la concessione dei minuti di recupero non si può dare per scontata. I passaggi di palla, sul limite del fischio finale di quell’arbitro che è il destino, si fanno nervosi, tesi; li riflettono un linguaggio spezzettato e una narrazione che a tratti diventa straniante, perché non lascia intuire chi di loro abbia la parola; le voci dei personaggi si confondono, così come i loro corpi sono spesso diventati, nel passato, una cosa sola. È lecito chiedersi, negli istanti finali, «è andata bene, la nostra vita?», così come è lecito pretendere, allo scadere del tempo, che il gioco assurdo dell’esistenza recuperi uno schema e non sia più puro catenaccio contro la vergogna, la paura del segreto svelato. Cinquant’anni sono il tempo necessario ad accettare che «l’amore fa più paura della guerra», e che ci si è venduti il candore, ci si è sporcati, e che la libertà per la quale si è saliti in montagna, si è imbracciato il fucile e si è andati a uccidere dei figli di puttana che in fondo erano uomini, era la libertà di tutti gli altri, ma non la propria libertà di amare.
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Quel campo di battaglia, non certo di gioco, che ogni partigiano porta cucito addosso zolla a zolla, è impregnato di epica, e scolla uomini, donne e bambini dal loro presente: non è un caso che la Città e Giave, i due luoghi in cui il romanzo si svolge, non siano affatto delineati, spuntino dalle pagine come una specie di terra di nessuno. È la lingua usata da Verri, che contiene echi di Fenoglio e Pavese, a situarli sulla mappa e a ricostruirli fedelmente nella nostra immaginazione. Se Rafael Chirbes impiegò vent’anni a fissare la stazione di Austerlitz, a Parigi, come luogo del sentimento tra Michel e il pittore, i cinquanta che Giacomo Verri impone a Claudio e Franco per recuperare Un altro candore appaiono quasi ragionevoli: il loro amore oscuro vedrà la luce solo grazie a un insondabile e struggente sacrificio finale.
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