L’amicizia è un matrimonio tra anime. Parola di Tahar Ben Jelloun
L’amicizia che conosciamo in queste pagine è quella delle “facce” e dei “gesti” disegnati da uno degli scrittori marocchini francofoni più noti in Europa: Tahar Ben Jelloun.
Nel 1995 Giulio Einaudi editore pubblica la versione originale Éloge de l’amitié con il titolo L’amicizia tradotta da Egi Volterrani, aggiungendo due testi inediti nella seconda parte dell’opera, aperti dal titolo L’ombra del tradimento nella traduzione di Camilla Testi.
Sono amici veri quelli cui l’autore dona le chiavi della propria anima, uomini e donne con i quali ha condiviso quello stato di grazia su cui riflette in queste pagine per raccontare al lettore la memoria del suo «matrimonio tra anime», unito allo sgomento perennemente acerbo dell’inaspettata quanto rara rottura.
Scorriamo un viaggio, un peregrinare di ricordi imbevuti di religiosa lealtà descrittiva perché sincero è Tahar Ben mentre su queste anime scrive, quasi illuminato da quello che Cicerone chiamava il “sole del mondo”: la virtù dell’amicizia.
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E mentre Jelloun risale il tempo della giovinezza si sofferma su alcune figure che diverranno centrali nella sua vita di uomo e di scrittore, una di queste è il suo primo amico:
«Il mio primo amico aveva un anno più di me. Non eravamo nella stessa scuola. C’eravamo incontrati durante l’estate, a Ifrane, dove mia zia aveva una seconda casa (l’estate a Fès è insopportabile). Lui aveva i capelli biondi, era snello ed elegante…Ci ritrovavamo tutti i pomeriggi vicino alla cascata d’acqua sorgente. Seri, parlavamo degli studi, della famiglia e persino dell’avvenire della patria, che aveva appena riconquistato l’indipendenza. Eravamo troppo seri e ci comportavamo come i grandi […]. Se oggi mi ricordo di quell’amicizia è perché fu costruita su una bugia. Pur avendo un anno più di me, sembrava più giovane. Io ero appena entrato in sesta. Quando gli ho chiesto che classe faceva mi ha risposto “la quinta”… E io, senza riflettere, risposi “anch’io”».
Due estati più tardi Tahar gli confessa la verità con una lettera e ne riceve per risposta il silenzio; è allora che apprende la prima lezione sull’essere amici: «ho perso un amico perché gli ho mentito».
Qualche anno dopo, al liceo, lo scrittore incontra Lotfi che lo inizia alla musica jazz e classica, e per un ragazzo che conosce soltanto quella andalusa dei banchetti nuziali è una vera scoperta. Tahar lo ritroverà nell’estate del 1966, alla caserma di El Hajeb dove sarebbe stato trattato come un ribelle da domare a causa dei sollevamenti dell’anno precedente, organizzati dal Sindacato degli Studenti aderente all’Unione degli Studenti del Marocco:
«Usciti dal campo disciplinare, eravamo cambiati. Eravamo maturati durante quei diciotto mesi nel corso dei quali i militari avevano cercato di spezzarci, di farci pagare le nostre scelte di giovani oppositori politici. Ciascuno per conto suo, avevamo ripreso gli studi. D’estate ci ritrovavamo».
Sono gli anni in cui l’autore si dedica alle sue prime poesie – che pubblicherà nel 1971 nella raccolta Hommes sous linceul desilence – e allacollaborazione con la rivista«Souffles», voluta dall’amico e poeta Abdellatif Laâbi. Sono gli anni delle illusioni, degli errori e delle infatuazioni; degli studi segnati da scelte importanti come quella del trasferimento a Parigi e dall’incontro con il giornale «Le Monde». E anche gli anni delle prime ferite amicali; nell’aprile del 1976 Tahar riceve infatti una lettera dall’amico Abdel che lo accusa tra l’altro di “mimetismo” e “amicizia per interesse”:
«Trovai la lettera insultante, scandalosa e ingiusta. La ricevetti come una pugnalata nello stomaco. Ne soffrii veramente. Lo shock fu così forte, così violento che mi ci vollero parecchie settimane per riprendermi…Ci ho messo del tempo per ammettere che non conoscevo bene quell’uomo. Mi ero sbagliato e la cosa si era protratta per anni. L’errore era il risultato della mia ingenuità. [...]. Diciassette anni dopo aver ricevuto quella lettera, non capisco ancora cosa abbia motivato quell’aggressione.»
Al di là di una spiegazione più o meno plausibile, rimane il fatto che certe ferite risultano all’autore inconsolabili. L’amarezza e la disillusione lo predispongono alla lettura e alla scrittura come spazio privilegiato in cui corazzarsi di sicurezze emotive:
«Con le parole vivevo in perfetta armonia. Mi tenevano compagnia, occupavano la mia immaginazione…Così sono nati i miei primi testi in prosa. Le prime pagine di Harrouda furono scritte nell’atelier del pittore Chebaa… Faceva parte del gruppo di Souffles».
Accanto alle parole Tahar mette le donne, con loro intreccia relazioni d’amicizia importanti come quella verso Odette che dura da venticinque anni e profuma di sigari e buon vino. Fiero di questo suo sentire, lo scrittore conosce nel 1974 un «turbine di generosità, intelligenza e immaginazione» di nome Leïla e poco prima di lei anche l’ebreo marocchino Edmond, uno dei più importanti membri del partito comunista del Marocco, nonché “patriarca dell’amicizia” e ottimo cuoco. Attorno alla sua tavola Edmond esprime l’amicizia come passione marocchina, ghiotta e possessiva.
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La galleria di ritratti cresce e prende forma sulle esperienze maturate nel tempo e ogni tanto, tra le pagine di L’amicizia e l’ombra del tradimento, compaiono gli echi, in forma di citazione, di Cicerone e Montaigne quasi a consigliare, senza mai giudicare, su questa «religione senza Dio né Giudizio finale». Fedele a queste tracce del passato, Tahar continua a raccontare la sua storia con Egi che alle parole preferisce i funghi, i liquori e l’azione, sebbene scriva, legga e disegni disseminando ogni angolo della propria casa di libri, carta, matite, stringhe, e tanto altro da divorare gli spazi con il suo disordine:
«È stato Egi che non solo ha introdotto e tradotto i miei libri in Italia, ma mi ha anche aperto le porte essenziali di quel paese. Mi ha fatto scoprire parecchie regioni, mi ha presentato ai suoi amici e alle sue donne, e persino ai suoi avversari…La sua amicizia non ha lo stesso disordine della sua casa. […] Oggi ci conosciamo benissimo. L’occasione di approfondire la nostra amicizia ci è stata offerta da un viaggio che abbiamo fatto a Napoli e in Sicilia per un’indagine sulla camorra e sulla mafia.».
Lo scrittore lo conosce in occasione della traduzione di La Nuit sacrée che gli varrà il premio Goncourt nel 1987.
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E infine il ricordo più bello, quello legato all’amicizia con il libraio, il «messaggero delle notti che altri hanno consacrato alla scrittura, delle mattinate che altri hanno occupato ad allineare parole, a vivere con i personaggi», l’unico che non tradisce mai perché il legame è materializzato in un oggetto. Se questo tipo di amicizia non è personale, è comunque stretta a quella particolare intimità della lettura. Questa convinzione profonda è custodita nell’anima di Jelloun da quando James Joyce gli aprì, con Ulisse, la via della scrittura.
Per la prima foto, copyright: Jeremy Bishop su Unsplash.
Per la seconda foto, la fonte è qui.
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