L’America di oggi ne “La caduta dei Golden” di Salman Rushdie
L’America di oggi, la «terra dell’Io che si è fatto da sé», fa da sfondo principale al nuovo romanzo di Salman Rushdie, La caduta dei Golden(Mondadori, 2017).
Il settuagenario Nero(ne) Golden è un cittadino americano da oltre 20 anni, «innamorato dell’idea di sé in quanto persona potente», emigrato dal «paese innominabile» dove veniva chiamato il Cobra, con i suoi tre figli maschi: Petronius (o Petija), Lucius Apuleius (o Apu) e Dionysus (per tutto il resto del libro: D.). Il primo come l’arbiter elegantiarum presso la corte di Nerone e autore del Satyricon; il secondo è premonizione di metamorfosi, per almeno uno dei tre fratelli, come ne L’asino d’oro; l’ultimo come il «dio della resurrezione e dell’avvento», androgino, «maschile-femminile».
Le fonti classiche sono utili a René, scrittore di sceneggiature che rappresentano il ritratto dei tempi, per la stesura del suo film sui Golden: The Golden House. René è l’Io narrante autodiegetico, per tutto il corso del libro, vicino di casa dei Golden: la casa dei genitori, due importanti accademici, è situata sul lato opposto dei Gardens (complesso di edifici sontuosi di Manhattan, New York City), di fronte alla residenza dei Golden.
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Descritta come una domus aurea, la casa di Nero appare come la dichiarazione di follia del suo proprietario, certificato di megalomania, annunciazione di una catastrofe, come la Roma in fiamme dell’ultimo imperatore della dinastia giulio-claudia. La struttura del palazzo, così come i rapporti di potere, da fuori rimaneva «inamovibile», «immutabile», come durante «il delirio continuo che regnava nel palazzo all’epoca dei dodici Cesari», ma dove all’interno regnava l’inferno.
I Golden devono recidere ogni rapporto con la Storia, defilarsi da ogni responsabilità di fronte a essa, come nella dichiarazione a favore del capitalismo pragmatico di Nero: «Se l’America vuole essere come è capace di essere, come sogna di essere, ha bisogno di voltare le spalle a Dio per volgersi al dollaro. La vocazione dell’America è il business. Ecco qual è la mia convinzione». L’America deve scrollarsi di dosso Dio per poter realizzare se stessa.
Così come i personaggi proliferanti del romanzo di Rushdie devono realizzare loro stessi, in perenne conflitto: Petja «nello spettro dell’autismo» (come Dustin Hoffman in Rain Man), agorafobico, incline al suicidio e all’isolamento; Apu, il pittore come Dalì, l’ultimo «figurativo in un’epoca di concettualismo», di tendenze mistiche come la Kabbalah pratica; D. invece rappresenta un caso a parte, fortemente evocativo, come Gregor Samsa porterà a compimento la propria metamorfosi, vissuta drammaticamente nel rapporto con la propria identità sessuale, assieme alla sua compagna Riya Z, curatrice (non casuale) del Museo dell’Identità (MOI).
Il personaggio di D. è il pretesto per una profonda immersione nelle analisi delle teorie di genere («l’identità sessuale è una scelta», dice il curatore del MOI Orlando Wolf), accurata ricognizione del vocabolario più aggiornato sul tema: cross-dresser, gender fluid, bigender, agender. Pensiamo ai Navajo che riconoscono 4 generi: oltre a maschi e femmine, riconoscono la figura dei Nádleehi, «ossia i due-spiriti, che nascono maschi, ma assumono un ruolo femminile, e viceversa».
I Golden sono al centro del film che René sta cercando di scrivere, la storia di uomini «trasformati in finzioni di se stessi», ma i due testi si confondono, non si ha più la percezione distinta se ciò che si sta leggendo sia nient’altro che la sceneggiatura del film da realizzare o se sia accaduto realmente, come ammesso dallo stesso scrittore: «non so più con sicurezza che cosa è reale e che cosa è inventato».
Al netto del realismo magico, o del science fiction adottato da Rushdie (in misura nettamente minore, per non dire quasi del tutto assente, rispetto all’altra sua celebre opera, ovvero I versi satanici) e del sincretismo di genere, attraverso il quale si riducono le distanze tematiche e morfologiche, il suo romanzo è un perfetto «modello di stile sostenibile nell’era della globalizzazione», come messo in luce dall’analisi riservata a Rushdie da Stefano Calabrese nel suo www.letteratura.global(Einaudi, 2005).
Il viaggio attraverso la caduta dei Golden conduce direttamente verso la follia escatologica dell’America di oggi, «in lotta con la sua demenza», dove al posto del vecchio presidente il nuovo è descritto con i tratti dell’acerrimo nemico del supereroe Batman della DC Comics: il Joker (Donald Trump).
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L’immagine del paese fornita da Rushdie è impietosa, come in 1984 di George Orwell tutto è al contrario: «la conoscenza era ignoranza, l’alto era basso, e la persona giusta cui affidare i codici dell’arsenale nucleare era il buffone verdecrinito dalla pelle sbiancata e dalla bocca simile a uno squarcio rosso sangue».
Mentire, odiare, praticare il bullismo, ora, sono pratiche divertenti, e «dove le armi vivevano di vita propria» la strage è inevitabile: compiuta durante le festività di Halloween, da un personaggio descritto con i tratti di Klaus Kinski e guidato dal delirio complottista (per rimarcare l’ulteriore parificazione di reale e immaginario nell’opera di Rushdie, pensiamo agli ultimi fatti che hanno coinvolto proprio Manhattan).
Il sentimento che anima l’America di oggi è la rabbia, la stessa «di tutti i neri che morivano ogni giorno […] che urlavano di non aver meritato di morire […] la rabbia dell’America bianca per il fatto di avere un nero alla Casa Bianca, e l’odio schiumante degli omofobi, e l’ira ferita delle loro vittime, la rabbia operaia di chi era stato truffato».
L’Occidente come la Roma di Nerone, tra le fiamme di un dipinto di Hieronymus Bosch, il decadimento dell’America come il decadimento di un’intera civiltà, ora che «il mostro è sempre più forte». Nel movimento della vita René, animato dalla sua passione sterminata per il cinema, entrerà nella casa dei Golden come il cavallo di legno entro le mura di Troia, portando dentro di sé Ulisse e i guerrieri, mentre la nuova moglie di Nero, Vasilisa (ginnasta russa) è la nuova Elena, per dare vita a una nuova dinastia.
Nella galassia di riferimenti cinematografici di cui è costellato il film, c’è un passaggio riservato a Il settimo sigillo diIngmar Bergman particolarmente significativo: il titolo del film contiene un riferimento all’Apocalisse di Giovanni (8,1): «Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio nel cielo per circa mezz’ora».
Il «silenzio nel cielo» per René rappresenta la mancata apparizione di Dio, come «la verità della visione secolare dell’universo». Quella «mezz’ora» è la durata del silenzio, come la durata della vita umana: un breve tempo entro il quale compiere l’impresa di una vita degna. René/Max von Sydow (identificato con Don Chisciotte) gioca a scacchi con la Morte per ritardare l’inevitabile. L’impresa di René è quella di realizzare il suo sogno di diventare un filmaker, come il desiderio del cavaliere crociato del film è quello di raggiungere la propria moglie: riuscirà, lui come ognuno di noi, nella propria impresa?
È possibile che un atto irrazionale, un’intuizione come ne L’angelo sterminatore di Luis Buñuel, ci consenta di preservarci e di prevenire le calamità? Salman Rushdie ci prova, con questa meravigliosa cattedrale narrativa, edificata con frammenti sparsi.
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