L’America con gli occhi di Tiziano Terzani
In America, pubblicato da Longanesi, si presenta come una ricca raccolta di articoli scritti da Tiziano Terzani durante il periodo in cui ha lavorato e vissuto in America, prima di diventare una delle menti più acute che l’occidente abbia conosciuto.
Trasferiamoci per un attimo nell’America di fine anni Sessanta primi anni Settanta, dove un giovane borsista – Tiziano per l’appunto – si trasferisce con la moglie, subito dopo il matrimonio e dopo un importante lavoro in Italia commissionatogli dalla Olivetti. Da subito incuriosito e colpito dalle rivolte e dalle proteste interne agli States, decide di iniziare a raccontare e pubblicare per dei giornali la quotidianità che si trova a vivere e le dinamiche interne di un paese profondamente frantumato, nella sua contraddittorietà e dove le statistiche vengono falsate in vista delle imminenti elezioni politiche.
Sin da subito le parole da lui scritte sono taglienti e, unite insieme, si trasformano in una vera e propria denuncia al vetriolo, che fondamentalmente prende di mira le manovre militari statunitensi nei Paesi orientali, sbugiardando quella politica secondo la quale solo con la guerra si può imporre la pace; non solo, racconta di come le proiezioni economiche, il numero degli invalidi civili e delle vittime mietute oscillino inspiegabilmente a servizio delle esigenze di questo o quel partito politico.
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Scriveva il latino Tacito:«Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant»;forse questa è la sententia che meglio riassume uno dei discorsi più accorati della letteratura, fatto volutamente pronunciare da Calgaco per portare alla luce l’atroce politica imperialistica romana e dal significato molto semplice: «Dove fanno un deserto, lo chiamano pace». A distanza di secoli potrebbe essere applicata la stessa frase in tutt’altro contesto, per scopi che Terzani analizza con occhio critico e puntualmente, riscoprendo l’America.
Confluiscono, in questo appassionato lavoro di ricerca e comparazione di dati da parte del giornalista-lettore, anche le esperienze passate in Sudafrica, un continente in piena lotta contro l’apartheid e che pertanto lo sensibilizza notevolmente verso l’operato svolto da Martin Luther King. Attraversando l’America, descrive più o meno approfonditamente le caratteristiche di ogni singolo Stato, affiancando così alle lunghe ombre che si protraggono fino al nuovo millennio gli exempla di personaggi positivi capaci di incidere nella cultura collettiva.
Bisogna però cogliere la valenza sempre attuale dei dati lasciati in questi fiumi di inchiostro, tra lo spazio bianco lasciato da intere righe va cercato il senso per cui questo libro abbia una grande potenzialità qui e ora: si legge la voglia di costruire un futuro migliore e lasciamoci insegnare qualcosa dalla storia, ogni tanto.
Proprio di storia e del ruolo che deve avere si è tanto sentito parlare in questi giorni, ed è proprio la storia protagonista di questa raccolta. Salvatore Tramontana, nell’introduzione di uno dei suoi libri afferma chiaramente: «Chi invece si interroga in modo istintivo e passionale per avere risposte a domande preoccupato non di capire, ma di trovare un colpevole, non può rivolgersi alla storia. […] Non è infatti un tribunale: essa non ha il compito di incriminare o discolpare qualcuno ma di offrire paradigmi interpretativi. […] La storia si crea nell’atto stesso dell’interpretazione ed esposizione delle testimonianze dei fatti. [...] L’unica certezza della ricerca storica non può dunque che essere il dubbio, la saggezza dell’incertezza di cui parla Milan Kundera».
Quello che ogni giorno ci chiede la storia coincide con la chiave di lettura di questo libro: essere persone consapevoli dell’incidenza del proprio operato e possedere la capacità di saper ragionare su lunghe distanze, lasciando il posto anche alle incertezze nella società della pseudo-certezza assoluta. Dobbiamo però partire o ripartire dal nostro presente, essere artigiani del nostro stesso destino, usando la debolezza e la fragilità come valore aggiunto alla preziosità del tempo.
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A chi è indirizzato questo libro dunque? Ai nostalgici di futuro, dove nostalgico va inteso nel suo senso più profondo: νόστος ritorno e ἄλγος dolore, augurando a tutti che si ritrovi la speranza nel e del futuro perché in fondo – mi permetto per concludere di citare un articolo di Alessandro d’Avenia – «La parola “futuro” richiede immaginazione e non violenza, deriva infatti da una forma latina del verbo essere che indicava semplicemente «ciò che sta per essere». Ma sta per essere, cioè raggiungere la sua pienezza, solo ciò che al presente contiene tale premessa: il seme è la premessa del frutto, il lavoro dell’uomo la sua promessa».
Per la prima foto, copyright: frank mckenna.
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