L’affettuosa lettera di James Joyce a Henrik Ibsen
Joyce ebbe fin da giovane una grande ammirazione per Henrik Ibsen, al punto che Harold Bloom arrivò a sostenere che, per Joyce, il lavoro di Ibsen fu di “portata universale”. Esaltò e difese l’allora controverso lavoro di Ibsen quand’era ancora studente, sia in una lezione che tenne nel 1900 all’University College di Dublino sia in un saggio che pubblicò lo stesso anno nella «Fortnightly Review».
L’articolo di Joyce, Ibsen’s New Drama, si occupava dell’ultima opera di Ibsen, e fu accolto con favore dallo stesso Ibsen che, attraverso il suo traduttore inglese William Archer, descrisse il saggio come “benevolo”. Subito dopo aver appreso il giudizio di Ibsen, Joyce decise di scrivergli la lettera che riportiamo qui di seguito:
Gentile signore,
le scrivo per darLe il mio saluto nel giorno del Suo settantatreesimo compleanno e per unire la mia voce a tutti quelle che Le stanno facendo gli auguri da tutto il mondo. Forse ricorderà che poco dopo la pubblicazione della sua ultima opera Quando noi morti ci destiamo, un suo apprezzamento era apparso in una delle riviste inglesi – «The Fortnightly Review» – a mio nome. So che l’ha vista perché un po’ di tempo dopo Mr. William Archer mi scrisse e mi disse che in una sua lettera di qualche giorno prima Lei aveva scritto: «Ho letto con grande attenzione una recensione nella Fortnightly Review a firma del Sig. James Joyce che è molto benevola e per la quale mi piacerebbe tanto ringraziare l’autore se soltanto avessi una sufficiente conoscenza della lingua» (la mia conoscenza della Sua lingua, come vede, non è buona ma confido che Lei saprà decifrare quanto intendo dire).
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Faccio fatica a dirLe cosa ha mosso dentro di me il suo messaggio. Sono giovane, molto giovane, e forse il fatto che io Le racconti di questi scherzi dei miei nervi La farà sorridere. Ma sono certo che se Lei tornasse indietro nella Sua vita, a quando ancora non era laureato come me, e se pensasse a cosa avrebbe significato per Lei essersi guadagnato una parola da parte di qualcuno che occupa un posto così elevato nella Sua stima come Lei lo occupa nella mia, sono certo che comprenderebbe i miei sentimenti.
Una sola cosa mi dispiace, e cioè che un articolo così immaturo e frettoloso debba essere finito sotto i Suoi occhi, piuttosto che qualcosa di meglio e più meritevole del Suo apprezzamento. Non ci può essere stata una qualche ostinata stupidità in esso, ma in tutta onestà non posso dire altro. Potrebbe averLa infastidita il fatto che il Suo lavoro sia finito alla mercé di giovinetti ma sono certo che preferirebbe persino l’impetuosità ai paradossi senza forza ed eccessivamente “acculturati”.
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Cosa posso dire di più? Ho fatto risuonare il Suo nome in un college dove era ignoto o poco noto. Ho reclamato per Lei il posto che merita nella storia del teatro. Ho mostrato quella che mi sembrava essere la Sua più alta eccellenza – il Suo elevato potere impersonale. I Suoi pregi minori – la satira, la tecnica e l’armonia orchestrale – anche questi ho portato avanti. Non pensi a me come a un eroe-adoratore, non lo sono.
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Ma noi teniamo sempre per noi stessi le cose che ci sono più care. Non ho detto quello che più mi ha tenuto legato a Lei. Non ho detto come sia stato per me motivo di orgoglio vedere ciò che ho potuto vagamente discernere della Sua vita, come le Sue battaglie mi hanno ispirato – non le ovvie battaglie materiali ma quelle che sono state combattute e vinte dentro di Lei – come la Sua volontaria risoluzione di strappare dalla vita il suo segreto mi abbia dato coraggio e come nella Sua assoluta indifferenza ai canoni pubblici dell’arte, agli amici e alle parole d’ordine lei ha camminato nella luce di un eroismo interiore. E questo è ciò che ora scrivo a Lei.
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Le do il mio saluto come uno della giovane generazione per la quale Lei ha parlato – non umilmente, perché io sono sconosciuto e lei nella luce, non con tristezza perché lei è vecchio e io sono giovane, non con presunzione né con eccessivo sentimentalismo – ma le do il mio saluto con gioia, con speranza e amore.
In fede,
James A. Joyce
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