Jobs Act: qualche auspicio per Matteo Renzi
Il Jobs Act, letteralmente una proposta di riforma del lavoro – è l’argomento del giorno – viene presentato in bozza nella settimana in cui l’Istat ci informa che a novembre 2013 gli occupati sono 22 milioni 292mila, in diminuzione dello 0,2% rispetto al mese precedente (-55mila) e del 2,0% su base annua (-448mila). Questi dati non raccontano soltanto l’urgenza tutta italiana di porre rimedio a una situazione ormai disastrosa, ma anche una contraddizione che non ha eguali nella storia del nostro Paese. Siamo di fronte a un’impennata della disoccupazione mentre i posti di lavoro persi non sono determinati dai pensionamenti, ma da un effettivo calo degli occupati, quindi da un aumento dei licenziati.
Erano decenni che non si verificava una situazione simile, per questo la proposta di Renzi di riformare il lavoro viene accolta con favore perfino dall’Ue. Tuttavia, va presa la bozza con cautela, perché se è vero che è necessario produrre lavoro, è altrettanto vero che esso si produce solo in una prospettiva industriale complessa che coinvolga il tessuto d’impresa non più nella sua totalità, ma nelle eccellenze soprattutto se giovani. Infatti, il capitalismo italiano è vecchio, lontano dai mercati, disarticolato e frantumato, mentre nel Paese circolano nuove idee d’impresa che, se adeguatamente sostenute, possono ridar fiato all’economia reale e al lavoro, producendo prima reddito, dopo, forse, rendita. Dunque, che si tassino i patrimoni milionari e le transazioni finanziarie per restituire alla gioventù italiana che vuole imprendere quegli strumenti adeguati a gestire il futuro, a traguardare l’avvenire, a ricomporre un patto produttivo tra generazioni.
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Abbiamo un tasso di disoccupazione giovanile che fa spavento, ma non tutti i giovani vogliono o cercano un lavoro fisso, soprattutto al Sud: conviene, dunque, che s’investa ulteriormente sulla motivazione che è alla base della ricerca di reddito. Se essa è stimolata nella direzione dell’impresa nei settori cardine delle nuove economie (il green, la cultura, l’artigianato, l’ICT e il welfare) forse questa nuova Italia può competere, facendocela, sui mercati. Ma non basta, perché va radicalmente modificata la cultura popolare che crea bisogni interni di un certo tipo: bisogna dire agli Italiani che si deve consumare altro e diversamente, se si vuol produrre altro e diversamente. Dove il diversamente deve presupporre anche contrattualizzazioni differenti e l’uso, sempre più opportuno e sostenuto, delle competenze insite in una generazione (quella dei cosiddetti Trenta/Quarantenni) che, va detto, è l’ultima ad aver studiato meglio delle altre. Questo, quindi, il ricettario minimo perché il Jobs Act non resti una trovata elettorale, ma diventi norma e regola.
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