“Ivanhoe” di Walter Scott. Il coraggio di Rebecca e l’antisemitismo nell’Inghilterra del XII secolo
«Se siamo come voi nel resto, somiglieremo a voi anche in quello»
Il mercante di Venezia, III, 1
Nel 1820 lo scrittore scozzese Walter Scott pubblicò, sotto lo pseudonimo di Laurence Templeton, Ivanhoe, acclamato dai critici come primo esempio di romanzo di genere storico. La storia di Wilfred di Ivanhoe è ambientata in Inghilterra, verso la fine del XII secolo.
Di ritorno dalla Terza Crociata, il sovrano Riccardo Cuor di Leone viene fatto prigioniero dal duca d’Austria; ciò permette al capriccioso e senza scrupoli Giovanni Senzaterra di esercitare il potere in assenza del fratello ma, a causa della sua cattiva politica, nel regno presto si diffondono un generale malcontento e un profondo senso di instabilità. In questo scenario, reso ancora più precario dall’inimicizia che corre tra i vinti Sassoni e i vincitori Normanni, si sviluppa un’emozionante ed avventurosa storia corale arricchita da scene di tornei, dettagliate battaglie, congiure e buoni sentimenti quali il coraggio e la fedeltà.
Nel corso della lettura si rimane affascinati da una figura in particolare, quella dell’ebrea Rebecca, figlia dell’usuraio Isaac di York. È una donna carismatica, che colpisce per la sua adamantina tempra morale e la sua squisita bontà; è un personaggio forte, intelligente e ben caratterizzato al quale il lettore facilmente si affeziona. In una societàfortemente misogina, dominata dall’immagine del cavaliere senza macchia e senza paura, dov’è l’uomo a prendere le decisioni e a farla da padrone, Rebecca con coraggio riesce ad affrontare le più atroci difficoltà e le più ingiuste persecuzioni causate dal sua essere donna e, soprattutto, dal suo appartenere al popolo ebraico. In più di un’occasione dimostra la sua incorruttibilità non cedendo ai ricatti e ai compromessi del viscido templare Brian de Bois-Guilbert, mantenendosi, anche davanti ad una possibile morte, fedele ai propri principi.
«Santa Maria» disse l’Abate facendosi il segno della croce, «un miscredente ebreo ammesso alla nostra presenza?»
«Un cane di ebreo» fece eco il Templare, «si avvicinerà a un difensore del Santo Sepolcro?»
Fin dai primi capitoli Walter Scott descrive come l’Inghilterra medievale fosse attraversata da un profondo odio verso gli ebrei. Questo clima di impietosa ostilità, che si manifesta in parole e in azioni, non riesce però a vincere la dolcezza e la gentilezza della giovane Rebecca. Lo si può notare, ad esempio, quando offre una generosa ricompensa al porcaro Gurth, servo di Cedric il Sassone, il padre di Wilfred, riparando così al torto causatogli dall’avarizia di Isaac di York.
«In questa borsa» disse Rebecca, «ne troverai un centinaio. Restituisci al tuo padrone quel che gli è dovuto, e tieni per te il resto. Presto, va’, non stare a ringraziare!»
Durante il torneo di Ashby-de-la-Zouche, organizzato dal principe Giovanni per ingraziarsi i favori di un popolo sempre più scontento, Wilfred di Ivanhoe rimane gravemente ferito e, per questo motivo, durante il viaggio di ritorno dalla lizza, viene affidato alle cure di Rebecca, resa esperta nell’arte medica grazie agli insegnamenti della famosa Miriam. Anche in questa situazione mostra tutto il suo lato premuroso, sebbene il cavaliere non faccia nulla per nascondere la sua diffidenza nei confronti della giovane ebrea.
[…], ella non poté fare a meno di sospirare intimamente quando lo sguardo di rispettosa ammirazione non privo di tenerezza con cui Ivanhoe aveva contemplato sino allora la sua sconosciuta benefattrice, si mutò improvvisamente in un atteggiamento freddo, composto e sostenuto che non esprimeva altro sentimento che la gratitudine per una cortesia ricevuta da una parte inaspettata e da una persona di razza inferiore.
Andando avanti con il racconto, Rebecca viene fatta prigioniera dal templare Brian de Bois-Guilbert, il quale è rimasto affascinato dalla bellezza della giovane donna, scorta durante il torneo. Durante il loro primo incontro emergono le profonde differenze che separano i due personaggi. Brian de Bois-Guilbert è un uomo molto ambizioso e senza scrupoli, è templare solo perché ciò gli permette di soddisfare la propria inesauribile sete di potere e di violenza; come molti dei suoi compagni, anche lui viene meno alle regole dell’ordine, svelando in questo modo la sua ipocrisia, addirittura si dichiara disposto ad abiurare la fede cristiana pur di soddisfare i propri desideri lascivi, scambiati per innamoramento. D’altro canto Rebecca, sapendo così di mettere in pericolo la propria vita, si mostra impassibile davanti alle richieste del cavaliere perché preferisce rimanere fedele al proprio credo e all’insegnamento tramandatole dalle antiche generazioni. Rebecca decide di non scendere affatto a compromessi con il male.
«Rassegnarmi al mio destino!» esclamò Rebecca, «Ma per il cielo, a quale destino? Abbracciare la tua religione! Ma quale religione può essere quella che accoglie un tale scellerato? Tu la miglior lancia dei Templari! Cavaliere codardo, prete rinnegato, io ti disprezzo e ti sfido! Il dio di Abramo ha aperto una via di scampo a sua figlia… anche da questo abisso di infamia.»
Walter Scott rovescia le parti: il templare, che è visto come un eroe e un esempio positivo perché cristiano, nella realtà, invece, si rivela un uomo spregevole e squallido; Rebecca, la quale appartiene ad un popolo che è trattato con disprezzo anche dalle alte cariche della Chiesa, secondo il pregiudizio dell’opinione pubblica dovrebbe essere una figura negativa e diabolica ma non è affatto così come si è fin d’ora esaminato.
Nonostante i continui rifiuti, Brian de Bois-Guilbert decide di portare con sé Rebecca, nascondendola nella sede dei Templari, nella precettoria di Templestowe. Lucas De Beaumanoir, Gran Maestro dei Templari, una volta scoperto l’illecito, fa imprigionare la giovane donna con l’accusa di stregoneria, perché, secondo le opinioni comuni, una donna, soprattutto ebrea, se riesce a guarire i malati è solo per la sua esperienza nelle diaboliche arti magiche, quelle stesse che hanno incantato il templare facendolo macchiare di una tale infamia. Durante il processo, dove si dà adito soprattutto a voci superstiziose e prive di fondamento, Rebecca non si lascia intimorire dalla ferocia dei presenti e di Lucas De Beaumanoir e, ad alta voce, difende la propria causa dichiarando la propria innocenza.
«Vi è ancora per me una speranza di vita» disse Rebecca, «le stesse vostre crudeli leggi me la lasciano. La vita è stata triste per me, per lo meno in questi ultimi tempi, ma non voglio gettar via il dono che Dio mi ha dato quando egli mi dà mezzo per difenderla. Io respingo questa accusa, sostengo la mia innocenza e dichiaro falso tutto ciò di cui mi si fa carico; chiedo il privilegio della prova del combattimento e presenterò il mio campione.»
Con sorprendente onestà intellettuale, lo scrittore scozzese in questo romanzo cavalleresco denuncia l’antisemitismo e gli effetti che questo nefasto pregiudizio ha esercitato, e purtroppo esercita, sul popolo israelita. Isaac di York è un personaggio pavido, un ricco usuraio che non suscita subito simpatia a causa anche della sua fin troppo manifesta avarizia, eppure Walter Scott cerca di capire il perché di questo morboso attaccamento al denaro da parte di Isaac: esso rappresenta l’unica possibilità che gli permette di preservarsi in un mondo, purtroppo, a lui ostile.
«Non pensate così, padre» disse Rebecca; «anche noi abbiamo i nostri vantaggi. Questi gentili, crudeli e oppressori come sono, dipendono in qualche modo da quei dispersi figli di Sion che disprezzano e perseguitano tanto. Senza l’aiuto delle nostre ricchezze non potrebbero né schierare i loro eserciti in guerra né celebrare i loro trionfi in pace; e l’oro che noi prestiamo loro torna con interesse nei nostri forzieri.»
Il denaro, d’altra parte, permette ad Isaac di York di potersi vendicare dei gentili, o nazareni come vengono appellati varie volte nel romanzo, perché quando ne hanno bisogno devono per forza ricorrere ai suoi servigi. Il povero usuraio si è lasciato vincere dall’ostilità di cui è vittima, ma Walter Scott non lo biasima del tutto. La figlia Rebecca, invece, sceglie di vincere il male con la bontà e la gentilezza, mostrandosi coraggiosa nelle avversità, mantenendo la propria dignità anche davanti alle minacce di morte. Il suo commiato finale, prima di lasciare per sempre l’Inghilterra, è un monito e una speranza per un futuro tollerante.
«Addio» disse, «Colui che creò gli ebrei e i cristiani possa spandere su di noi le sue benedizioni!»
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