Italia, tra razzismo e apartheid di fatto
Magari fosse soltanto Matteo Salvini il responsabile culturale di quanto è accaduto a Macerata. Sarebbe più facile estirpare il razzismo viscerale che sta penetrando velocemente nelle pieghe della società italiana.
E magari si trattasse soltanto di razzismo e non, come invece stiamo scoprendo, di una forma politica di desiderio di apartheid. Sì, un pezzo d’Italia vuol fare del Paese un Sudafrica, dove neri e bianchi, se proprio devono convivere, devono farlo in quartieri, ambiti lavoratovi, spazi di aggregazione diversi e lontani.
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Ma è già così, se ci pensiamo. I braccianti neri vivono nei ghetti. Aumenta il loro numero. E ci vivono perché impoveriti dalle paghe da fame e perché nessuno, anche al Sud, gli vuol fittare una casa a un prezzo decente. Ancora, le donne nere sono predate dai maschi italiani che ci vanno a pagamento, ma di coppie miste l’Italia è vuota, spaventosamente vuota. Cinico sintomo di indifferenza e di noncuranza verso l’affettività altrui. Sul lavoro, ci dicono le statistiche che agli stranieri, soprattutto se centrafricani, vengono concessi spazi minimi e soltanto nei servizi di pulizia, nel bracciantato, nel manifatturiero generico. Lo stesso nel lavoro criminale, dove i neri, se non stanno in proprio, sono l’ultimo anello del sottoproletariato criminale, soprattutto al Nord.
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Potremmo continuare a lungo a elencare i sintomi di un’esclusione sociale già in atto da tempo, che trova nella politica un megafono elettorale, ma non un centro di elaborazione. Perché il razzismo italiano è funzionale al sistema produttivo e a quello economico, anche illegale. È un laboratorio diffuso, che parte dall’alto per comprimere diritti e salari grazie all’irradiazione di valori che dividono l’umanità in umani e subumani, come scrisse Kapuściński qualche decennio fa. Gli umani sono i padroni, i subumani sono tutti gli altri nelle diverse gradazioni di colore della pelle, di tono linguistico, di appartenenza sessuale. Neri, stranieri bianchi, donne, minori… Eccoli i subumani, quelli contro i quali si scatena la canea neofascista arrivando perfino a impugnare una pistola e fare fuoco in corsa come negli action movie di provincia.
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Per ribaltare la diffusione della barbarie è necessario individuare i dispositivi che la fanno crescere. Non basta dire che siamo di fronte a un disagio sociale, perché il malessere e la disoccupazione non legittimano la violenza e il razzismo. Siamo, piuttosto, dentro il dominio di una cultura cretina, radicata, neonazionalista che fa prevalere i valori della violenza su quelli della convivenza. Siamo dentro un’americanizzazione perversa. Anche questo va detto. Il costante ricorso alla retorica delle armi e l’invocazione della violenza privata come risoluzione dei problemi hanno un’origine culturale statunitense. Tanto è vero che chi ne fa uso nella campagna elettorale, come Salvini, non fa mistero di guardare a Trump e a Reagan come modelli per armare gli italiani. Italiani che sono già armati, in verità. Più di qualunque altro popolo in Europa. Complici, ovviamente, i produttori di armi e i loro alleati mafiosi. E quindi, dobbiamo entrare nelle scuole e insegnare che migrare è fare umanità. Che non si può fermare la storia. Che non si può uccidere qualcuno perché lo si ritiene meno adatto a vivere di noi bianchi italiani. Altrimenti, da questo violento apartheid non usciremo più.
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