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Islam in Italia: ha senso parlare di integrazione?

Islam e integrazione in ItaliaL’Islam in Italia vive un momento di grande attenzione, che spesso trova linfa nella paura non per lo straniero nel suo complesso, ma per le possibili cellule terroristiche che potrebbero nascondersi nelle fila dell’associazionismo islamico, anche quello ufficialmente riconosciuto.

Ne abbiamo parlato con Antonio Angelucci, dell’Università degli Studi dell’Insubria, Maria Bombardieri, dell’Università degli Studi di Padova e Davide Tacchini, dell’Università Cattolica del S. Cuore di Milano, autori di Islam e integrazione in Italia, un’interessante raccolta di saggi, pubblicata da Marsilio editori.

 

Islam e integrazione in Italia riprende, in parte, i temi del progetto Nuove presenze religiose in Italia. Un percorso di integrazione. Qual è l’idea Islamica di integrazione venuta fuori dal corso?

Non esiste più un’idea di integrazione. Se non altro, ci sono parecchie riserve sul termine stesso e sul suo uso appropriato. Quantomeno, non esiste un’integrazione di un elemento alieno a una struttura costituita, quanto piuttosto la partecipazione a una società comune. A ogni conto, non c’è un’unica idea islamica di integrazione. C’è, indubbiamente, una generale aspirazione all’integrazione che passa attraverso due vie: quella dell’intesa con lo Stato o quella di una nuova legge sulla libertà religiosa. Comunque sia, i corsisti hanno dato l’impressione di cercare per lo più una cornice statuale all’interno della quale esercitare diritti e doveri costituzionali, che dalla Carta possano divenire effettivi. In altri termini, l’idea islamica di integrazione passa per la cruna della sfera pubblica piuttosto che restare nell’ambito dei rapporti privatistici, quale potrebbe essere quello dell’associazionismo regolato dal diritto comune, ossia dal codice civile. Sennonché, la realtà dei fatti dimostra che, al di là delle idee, è più agevole cercare (o cominciare a cercare) un’integrazione dal basso, tant’è che, eccezion fatta per la Grande Moschea di Roma, tutte le altre associazioni Islamiche sono regolate dal diritto privato e con queste i musulmani provano (a fatica) a integrarsi a livello locale.

Nur Amirah, pic by herman yahaya

Il libro offre una panoramica dello stato dell’associazionismo Islamico in Italia. In quale misura, questo può incidere sul processo di integrazione degli islamici nel nostro Paese?

Le numerose associazioni islamiche presenti nel Paese riflettono la pluralità della umma italiana, si strutturano di solito per iniziativa di una leadership con l’obiettivo di offrire iniziative e spazi di socializzazione per i musulmani, come per esempio i centri islamici. L’assunzione stessa di una veste associativa può essere considerata il primo segno visibile di un processo di integrazione in atto, questo perché evidenzia la volontà di una comunità di emergere nello spazio pubblico e di una leadership di presentarsi e interloquire con le istituzioni. L’associazionismo può incidere nel processo di integrazione dei singoli nella misura in cui contribuisce a formare genuini legami di appartenenza e di solidarietà tra i membri, favorendo l’apertura all’incontro con altre realtà, religiose o laiche, promuovendo la reciproca conoscenza. Il ruolo chiave è giocato dalla leadership, tuttavia i singoli assumono particolare importanza, anche attraverso un’azione di controllo sociale. All’interno di una comunità unita è infatti possibile prevenire e arginare lo sviluppo di idee radicali. Inoltre, le forme di coordinamento associativo sia a livello locale che nazionale, si pensi ad esempio al Coordinamento delle Associazioni Islamiche di Milano (CAIMI), all’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (UCOII) o alla Confederazione Islamica italiana (CII), possono ancora meglio supportare il processo di integrazione delle singole comunità che inserite in una rete di relazioni sono incoraggiate a confrontarsi su problematiche e condividere buone pratiche. Non si può, tuttavia, escludere da questa riflessione il ruolo delle amministrazioni pubbliche, ovvero l’influenza che determinate politiche possono avere sulle comunità Islamiche. Potrebbe fare la differenza una politica di riconoscimento e regolarizzazione dei luoghi di culto rispetto a una politica che elabora leggi “anti-moschee”.

Anche da un punto di vista giuridico, il panorama dell’associazionismo si mostra variegato nelle sue forme. Vi sono onlus, organizzazioni di volontariato, aps e molte associazioni culturali; mentre poche sono quelle religiose. L’uso corretto delle forme associative, ossia, l’uso di queste secondo diritto, aiuta, senza dubbio, il processo di integrazione. Un esempio giova a chiarire quanto si vuol dire: un’associazione musulmana culturale deve limitarsi a far cultura perché così prevede la legge italiana. Se, invece, tale associazione gestisce un luogo di culto, ovvero svolge attività cultuale, quando a ciò deputate sono piuttosto le associazioni religiose, si potrà creare contenzioso, e non certo integrazione. Così accade quando luoghi di culto vengono chiusi da ordinanze comunali – poi impugnate con esiti diversi – solo perché la veste associativa non è stata pensata (e, in alcuni casi, voluta) secondo diritto. Ecco, con un esempio, l’importanza di un sano sviluppo dell’associazionismo Islamico per il processo di integrazione dei musulmani in Italia.

agoo islam, pic by agoolapulapu

La costituzione italiana, così come le norme di diritto comune, garantisce ai musulmani la possibilità di sostenere il loro associazionismo. È possibile una conciliazione tra le norme della sharia islamica e la costituzione italiana?

L’art. 19 della costituzione garantisce a ogni persona, indipendentemente dalla cittadinanza e altresì – si noti – qualora la condizione di reciprocità non sia rispettata, il diritto di professare le proprie convinzioni religiose in forma individuale o associata. Il successivo art. 20 si occupa, invece, del fenomeno associativo in riferimento ai soggetti collettivi, precisando che «il carattere ecclesiastico o il fine di religione o di culto di un’associazione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali […]». In altri termini, l’art. 20 garantisce ai musulmani il diritto di scelta della tipologia associativa secondo il normotipo più confacente, fosse pure di diritto civile. Detto ciò, l’associazionismo musulmano è regolato dal diritto dello stato e non dalla sharia, dal momento che non c’è un accordo con lo stato che dia rilevanza alla normativa religiosa sharaitica. Ciò non significa che certe regole religiose non siano praticate dai musulmani in Italia in forma associativa, nelle associazioni e attraverso di esse (basti pensare alla pratica del Ramadan). Ebbene, esse si conciliano con la Costituzione fin tanto che non siano in contrasto con i suoi principi fondamentali.

I'm surrounded, pic by Beth Rankin

Negli ultimi anni, e ancor più dopo gli attentati in Francia dello scorso gennaio, l’associazionismo Islamico è stato al centro di grande attenzione, soprattutto da parte di alcuni schieramenti politici. Quest’attenzione, figlia anche di una crescente preoccupazione, può rendere più problematico il processo di integrazione, oppure può rappresentare un elemento per garantire maggiore sicurezza?

L’associazionismo islamico è al centro dell’attenzione di alcuni schieramenti politici per ragioni di sicurezza. C’è il diffuso timore che le associazioni possano radunare e, forse, nascondere soggetti potenzialmente pericolosi oppure favorire qualche disordine urbano, facendosi promotrici della costruzione di luoghi di culto, a loro volta possibili “covi” di “fondamentalisti”. In verità, pare che si tratti di paure per lo più prive di fondamento, poiché, come è emerso di recente, i reclutamenti verso le note zone di conflitto a oggi avvengono nella maggior parte dei casi sul web e non tramite strutture associative o nelle moschee. Quest’attenzione, e soprattutto una rinnovata preoccupazione dopo i gravi tragici fatti di Parigi, può rendere, in effetti, più problematico il processo di integrazione. Sennonché, l’attuale tensione può rappresentare un motore potente verso il traguardo dell’integrazione, a beneficio, fra l’altro, di una maggior sicurezza per tutti. Innanzitutto, per un verso, le associazioni musulmane possono guadagnare punti in termini di trasparenza, almeno adottando la veste giuridica giusta, conforme a diritto, a seconda dell’attività svolta (come si rilevava, l’associazione che gestisce la moschea deve essere di religione o di culto). La trasparenza favorisce, non da ultimo, il dialogo con la pubblica amministrazione, evitando inutili contenziosi, e tale collaborazione fa sì che anche le organizzazioni Islamiche e le moschee possano farsi promotrici del controllo sociale sui propri associati. Per altro verso, anche lo stato deve fare uno sforzo importante, prendendo con decisione la strada verso una moderna legge sulla libertà religiosa per superare quella “sui culti ammessi”, che risale al 1929 e che crea gravi quanto inutili difficoltà per la discrezionalità politica che la connota.

pic by Zeyneee

Una delle obiezioni mosse alla costruzione di nuove moschee è che siano un possibile focolaio diistigazione al terrorismo e di mantenimento di legami con i gruppi terroristici nei Paesi d’origine. Fino a che livello questi sospetti sono fondati e quali sono, invece, i rischi connessi alla presenza di legami con la madrepatria?

In passato ci sono stati casi di moschee in cui gli imam hanno predicato messaggi radicali, contro l’Occidente, l’integrazione e i cristiani. Si è trattato di casi limitati e isolati dove gli organi preposti alla sicurezza sono intervenuti con arresti ed espulsioni. La radicalizzazione dell’identità così come la deriva violenta sono fenomeni reali ma oggi possono interessare di più lone actors, come lupi solitari socializzati nel web e legati a cellule virtuali, piuttosto che persone frequentanti comunità “in carne e ossa”, dove potrebbe sussistere una forma di vigilanza intra ed extra comunitaria più efficace. Diverse organizzazioni Islamiche nazionali intrattengono relazioni transnazionali o con le istituzioni nella madre patria. Il rischio che più si ravvisa in questo tipo di legami è il possibile condizionamento nella visione dell’Islam vissuto e praticato in Italia. Per esempio, la scelta di chiamare imam dai Paesi d’origine che non conoscono la lingua italiana e il contesto in cui operano, nonché quella di ricevere finanziamenti in modo acritico per la costruzione di moschee o il loro mantenimento potrebbero rallentare quel fisiologico processo di formazione di un Islam praticato da musulmani italiani, naturalizzati nel Paese. Di fatto lo Stato potrebbe giocare un ruolo importante per la genesi di un Islam praticato da musulmani italiani, slegato da ideologie politiche e derive etnico-nazionali, per esempio sostenendo progetti di formazione civica, socio-culturale e giuridica degli imam con il Centro interuniversitario Culture, Diritti e Religioni – Forum internazionale Democrazia & Religioni. Anche in ottica solo securitaria, l’ipotesi di restringere ancora do più la legislazione per la costruzione dei luoghi di culto pare essere assai poco lungimirante. È più facile controllare luoghi di culto ufficiali, legalmente riconosciuti e in edifici ben visibili o luoghi clandestini, non localizzabili, in stabili spesso fatiscenti e non a norma? La risposta è banale. Si ricordano le parole del premier norvegese all’indomani della strage compiuta da Anders Breivik, nel 2011: «The Norwegian response to violence is more democracy, more openness and greater political participation».In Italia manca una politica di integrazione e di gestione dei luoghi di culto a livello nazionale e i fastidi, perché questo rappresentano le moschee in Italia, specie in prospettiva elettorale, non possono essere lasciati solo ai sindaci, agli amministratori locali.

Moschea di Torino

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Nel libro, viene proposta un’interessante definizione della umma Islamica come «entità che supera le differenze etniche, culturali, geografiche e nazionali». Nella pratica quotidiana, in quali comportamenti e atteggiamenti si traduce questa peculiarità?

Da tempo ormai in certe aree dell’Occidente, l’Islam non è più solo religione di immigrazione, e i musulmani non sono più solo stranieri. Musulmani condividono con cristiani, atei e credenti di ogni genere i quartieri, le scuole, i luoghi di lavoro, gli ospedali, le carceri…  perfino i cimiteri. Oggigiorno le principali città dell’Islam non sono più solo Damasco, Baghdad, Il Cairo, Tehrān o Dhākā, ma anche New York, Chicago, Detroit, Londra, Parigi, Berlino, Bruxelles, Lione, Roma, Milano. La umma islamica si trova a essere oggi più che mai un’entità che supera le differenze etniche, culturali, geografiche e nazionali. In Italia la situazione è ancora, ahimè, assai differente.

Nonostante, infatti, le cosiddette seconde generazioni, che nel nostro Paese si stanno in questi ultimi anni affacciando sulla scena pubblica (anche se con orientamenti contrastanti, specie nelle loro forme associative), l’Islam italiano è ancora un Islam di prima generazione. Islam e immigrazione sono ancora legati. In contesto migratorio la funzione aggregante, sociale e politica della moschea è più evidente. Fra i frequentatori delle moschee italiane vi è una percentuale considerevole rappresentata da persone che nel Paese d’origine non erano soliti partecipare alle preghiere comunitarie. Le nostre moschee sono frequentate da musulmani di diverse origini e culture, tanto che si stanno sviluppando, come già succede da decenni a esempio negli USA, moschee etnicamente connotate. Quelle perlopiù frequentate da bosniaci, da pakistani, da arabi… Dove questo non succede, ci si trova ad ascoltare sermoni del venerdì in lingua araba che vengono tradotti in italiano, non perché i convertiti o i musulmani di seconda generazione di madrelingua italiana siano così numerosi, ma perché l’italiano rappresenta la lingua ponte per senegalesi, bosniaci, bengalesi, indiani.

In passing, pic by Beth Rankin

Alla umma Islamica che vive in Occidente vengono riconosciute la possibilità e la responsabilità di riformare l’Islam. Si tratta di un processo religioso, oppure ci troviamo all’interno di un percorso di integrazione sociale?

I musulmani che vivono come minoranze in Occidente sono più liberi di esprimere la loro fede rispetto ai loro correligionari nei Paesi d’origine. Essi sono anche più liberi di sperimentare, di sviluppare nuove idee, hanno insomma la possibilità (e la responsabilità) di provare a riformare l’Islam. Una condizione di minoranza, simile dunque a quella meccana pre-Hijra, che rappresenta una situazione di primaria importanza per il futuro della religione.

I fondamenti della religione non sono certo negoziabili, ma Dio ci (a noi e ai musulmani) ha dato il Testo, ma anche la testa. Siamo, anche sul piano religioso, obbligati a usarla.

Conseguenza tangibile di questo potrebbe essere l’esempio dei concetti di Ijma‘ (consenso) evoluto nella moderna idea di “opinione pubblica”, Maslaha  (termine legale che indica la necessità di giungere a nuove interpretazioni della Sharī‘a in assenzadiun precedente o di un parere autorevole) chediventa la nozione liberale di “utilità”, Bay‘a che assume un significato vicino a quello di “suffragio universale”, e addirittura Ijtihād convertito in “libertà di pensiero” riproposto da Tariq Ramadan in un testo di oltre dieci anni fa.

Si tratta, dunque, di un processo che approccia i rapporti della religione con la vita pubblica e la convivenza civile. La riforma musulmana non può che essere frutto dell’esperienza, di minoranza, in società democratiche (e secolarizzate) del cosiddetto Occidente.

 

Nei vari saggi che compongono il libro si cita spesso la particolare situazione degli italiani convertiti all’Islam. Avete avuto modo di riflettere con loro circa quest’esperienza? E quali sono le ragioni alla base di questa conversione?

Le ragioni e le motivazioni alla base delle conversioni possono essere davvero molteplici così come le singole esperienze di primo contatto con l’Islam e i musulmani. Si possono riscontrare sia conversioni strumentali sia conversioni autentiche. Il primo è il caso per esempio dell’italiano, cristiano, che abbraccia l’Islam per sposare una donna musulmana poiché secondo l’Islam una donna musulmana può solo sposare un uomo musulmano. Nel secondo caso, invece, l’esperienza della conversione può avvenire in occasione di un viaggio nei Paesi musulmani o attraverso l’incontro con persone immigrate in Italia, ma anche leggendo il Corano o inseguito a un innamoramento, etc. Diversi convertiti trovano poi nell’Islam la risposta a una profonda ricerca di senso e di sacro, per alcuni avviene attraverso una via intellettuale, per altri per mezzo del misticismo sufi, altri ancora, invece, nella pratica esperita di solidarietà e accoglienza, di fratellanza all’interno della umma locale. Tra le ragioni religiose in primis i convertiti hanno evidenziato la semplicità teologica e la semplicità rituale dell’Islam, molti infatti sono stati mossi dall’esigenza di una fede semplice e razionalizzabile, per esempio il dogma cristiano dell’incarnazione o della Trinità risultavano poco comprensibili nelle singole esperienze di fede così come l’accettazione di un intermediario nella relazione con Dio.


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