Isabel Allende continuerà a scrivere dall’aldilà
Qualche anno fa fu lanciata, su Twitter, la notizia della morte di Isabel Allende, subito smentita.
Gabriela Wiener, nell’articolo che segue, pubblicato per la prima volta su «Etiqueta Negra», coglie l’occasione di due incontri con Isabel Allende per tracciarne un profilo, giocando con la sua attitudine verso la scrittura.
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Ha qualcosa a che vedere con l’eternità una delle scrittrici più lette nel mondo?
Nel pomeriggio del 24 settembre 2012 morì Isabel Allende, e queste signore che si sentono come se la conoscessero da tutta una vita, come se ogni linea uscita dalla sua penna fosse stata scritta pensando a loro, accesero candele aromatiche negli altari delle loro stanze e circondarono di pietre energetiche i loro esemplari di Eva Luna. Mia madre, senza andar molto lontano. Migliaia di persone connesse a quell’ora in internet si rammaricarono pubblicamente della notizia. E il mondo della letteratura si sarebbe preparato per renderle il suo ipotetico (e condiscendente) omaggio: «Era padrona di un’incrollabile vocazione che la portò a vendere milioni di libri». O «più che una scrittrice, fu un fenomeno culturale». Ma l’Allende era morta solo su Twitter, come oggi muoiono tanti prima di morire davvero. Alcuni minuti dopo rivisse nello stesso luogo dove era morta: «Sono morta, ma dalle risate», scrisse nel suo profilo in rete.
Che ne sarebbe stato dell’Allende se fosse morta quel pomeriggio di settembre? Un figlio, un marito, tre nipoti, una cagna, una manciata di bestseller e l’opinione, più o meno generalizzata tra i critici letterari, che la scrittrice più letta in lingua spagnola è una pessima scrittrice. Deve essere divertente avere nemici della taglia di Bolaño o Poniatowska. Isabel Allende ha compiuto settant’anni. La sua morte, perciò, ha cominciato a essere qualcosa di verosimile, anche per lei, sebbene in alcuni dei suoi libri popolati di fantasmi, l’autrice de La casa degli spiriti non vede la morte come un finale.
– Io vivo sempre con l’idea che quello che sto sperimentando è soltanto una particella della realtà –mi disse la mattina nella quale la conobbi in Messico –. Ci sono migliaia di dimensioni alle quali non abbiano accesso.
Isabel Allende crede che tutto sia possibile. [...] Quando appare nell’aeroporto di Città del Messico c’è una cosa che non puoi smettere di pensare, anche se la parte professionale del tuo cervello ci prova: Isabel Allende è più piccola, molto più piccola di quanto pensavi. Veste di nero, ha tacchi altissimi, lunghi orecchini, collane d’oro e una borsa che appesa al suo braccio sembra grande a dismisura. È così civettuola. La sua passione per gli accessori è evidente: adora i foulard al collo, le tuniche indiane, i gioielli. In seguito avrei scoperto che lei stessa crea anelli, braccialetti e collanine per i suoi amici. Aspettare una celebrità letteraria ti divide in due. La parte più professionale del tuo cervello si allinea istintivamente con la critica, con la letteratura sacra. Il resto di te vuole abbandonarsi allo show business. Sono davvero pochi gli scrittori che riescono a diventare delle celebrità. Chiunque voglia essere famoso non dovrebbe considerare l’opzione di scrivere libri. Ma lei lo è, né più né meno di Stephen King, García Márquez o J.K. Rowling. Vedere l’Allende in persona è come sedersi a vedere un film con i popcorn in mano: c’è divertimento. Ci hanno invitato al congresso “L’Esperienza Intellettuale delle Donne nel XXISecolo”. Domani sera c’è il suo intervento. Deve arrivare mezz’ora prima della sua lezione perché devono truccarla.
– Ah no, a me nessuno mi trucca –dice inflessibile –, che poi mi lasciano tutta pitturata.
La seconda cosa che non puoi smettere di pensare quando conosci Isabel Allende è che si comporta come se il mondo fosse un palcoscenico sul quale lei, già montata sui suoi ripidi tacchi, mette uno sgabello per vedersi ancora più alta e farci ridere. Il modo in cui ti fa ridere è, in generale, ridendo di se stessa. Nel giro di alcuni minuti è capace di dichiarare in pubblico cose come «posso ancora sedurre mio marito sempre che lui abbia bevuto almeno tre bicchieri di vino», «ho avuto un sogno erotico nel quale Antonio Banderas era nudo su una tortilla ed era coperto di chile e guacamole», «mi sono sposata con un pene» o, come mi avrebbe poi detto durante il tragitto verso l’hotel: «Per fortuna sono sposata perché se no dovrei mettere annunci sul web del tipo: nonna latina, settant’anni, tappettina, cerca compagno. Che orrore. Non risponderebbe nessuno!». E avverte che non risponderà a nessuna domanda fino a domani.
Dal momento in cui l’auto è partita dall’aeroporto, l’Allende guarda le periferie della città e si ricorda di quello che fece l’ultima volta che venne in Messico. Io guardo il suo profilo contro il finestrino e penso ai posteri. Per una persona che come me ha più paura di sparire che di morire, stare al suo lato è come stare a lato di un immortale o per lo meno di qualcuno che non sparirà dopo una cosa così insignificante come la morte. Penso anche a mia mamma e a quello che dovette pensare quando circolò la bufala che l’Allende era morta. Io non voglio ammetterlo, ma è probabile che addirittura penso che Isabel Allende in qualche modo è mia mamma, con quel carattere così accattivante che non vorrei mai avere. Forse è l’effetto dei foulard al collo, dei lunghi orecchini e dell’aurea sciamanica. O non voglio essere una signora, anche se irrimediabilmente questo è quello che sono o sarò. L’Allende è arrivata in Messico accompagnata da una donna alta, molto magra, pallida e discreta. È Lori Barra, direttore esecutivo di The Isabel Allende Foundation, la moglie di Nicolás Frías, il suo unico figlio, una specie di alter ego americano alla quale racconta in inglese tutto quello che succede.
I libri non sono per la gente per la quale i critici letterari dicono che siano. Credo di non essere l’unica che ha letto l’Allende per colpa della propria madre. Vidi i libri sul suo comodino e, non me li prestò, glieli rubai (l’unico che non riuscì a leggere fu Paula perché mia mamma me lo proibì, anche se la vidi leggerlo mentre fiumi di lacrime coprivano il suo volto, la storia di una madre a cui muore una figlia). Invece García Márquez me lo diede mio padre da leggere affinché apprezzassi la grande letteratura. Nessuna di queste due correnti di pensiero annullò l’altra. Capii sempre molto bene quello che rappresentava ognuno di loro, e sono state separate per tutto questo tempo in questi distinti spazi dell’immaginazione e dell’affettività. Come facevo a non relazionare le mie letture con le esperienze che vivevo in quei momenti? Naturalmente, quando entrai nella Facoltà di Lettere, anche io dissi: «Isabel Allende è paraletteratura», e così mi sentii più intelligente. Divagare accanto a lei mentre l’auto arriva all’hotel fa crescere in me una certa tensione. Come rompere il ghiaccio quando mi ha chiesto che stia zitta? Mentre superiamo lentamente il traffico di Città del Messico, la parte professionale del mio cervello ascolta quello che le domando.
– Quanto sei alta?
– Uno e cinquanta–risponde –. Ora tutti sono molto più alti. Ma quando ero giovane io la gente era più bassa.
E subito l’Isabel Allende,attrice e showgirl, aggiunge: «L’unico luogo dove mi trovo bene è in Tailandia perché negli Stati Uniti, dove vivo, tutti sono enormi. I miei nipoti sono altissimi». Lo dice con il suo accento cileno intatto, e questa musica acuta di certe parole che ordina una dietro l’altra con la stessa velocità incontenibile della sua prosa brillante. «Abbiamo gli stessi geni ma, non so, deve essere il cibo. Se io sto in un cocktail, l’unica cosa che vedo sono i peli del naso della gente, perché sto molto in basso, e mi cadono addosso tutti i gamberetti che cadono dai piatti. È molto difficile essere bassa in quest’epoca». Adesso mi parla e mi chiede lei. Non ha un fare da sciocca: il miglior modo di non rispondere a una domanda è facendone. Mi chiede se ho figli. Mi chiede di mostrarle una foto di mia figlia sul telefono. Cose che fanno le signore mentre vanno in macchina. Che bella, dice. Ma lei non mi fa vedere nulla.
[...]
Isabel Allende è per la letteratura spagnola quello che Shakira è per il pop latino: entrambe hanno alcune hits divertenti e appiccicose, con qualche messaggio più o meno dogmatico, e hanno fans che riempiono stadi. Il pop, questa espressione dell’effimero, rende l’Allende paradossalmente sempreverde. Le sono successe disgrazie, ma lei dà l’impressione di prendere molto seriamente la sua missione di divertire. Sembra vivere nell’impunità che solamente possono permettersi quelli che, sia come sia, sono nati con il dono di divertire moltissima gente. Perché l’Allende non solo fa parte della grande industria del divertimento ma ne vive di conseguenza. Quando qualcuno si avvicina alla sua dimora in California, dove scrive con viste spettacolari sulla Baia di San Francisco, e a chi le chiede cosa pensa di fare nei suoi ultimi anni di vita, lei sempre risponde la stessa cosa: «Continuerò a scrivere libri». Non è assurdo pensare che quando morirà, Isabel Allende continuerà a scrivere anche dall’aldilà.
[...]
L’Allende è un facile bersaglio per i canonizzatori del romanzo. Non molti critici dell’autrice sono però disposti ad ammettere che la virulenza dei loro attacchi contro di lei si basa su pregiudizi: la sua è la biografia di una donna di origine borghese che scrive una colonna femminista in una rivista di moda nel 1970 e, senza formazione accademica e con una limitata cultura letteraria, inizia a pubblicare romanzi a quarant’anni, fa dell’autobiografico il suo marchio e le sue opere finiscono nei supermercati. In un mondo nel quale le cose più idiote di solito sono le più popolari, cinquanta milioni di esemplari venduti possono solo aumentare il sospetto.
Ma mettiti al suo posto: prova a pensare di chiamarti Allende in Cile, esiliati, divorzia, cresci i tuoi figli, vivi una doppia vita, dedicati al giornalismo e a scrivere romanzi, fai parte di quella generazione di donne latino-americane che fece tutto questo e trionfa, sotto l’ancora allungata ombra del Boom, un movimento dove non c’era una sola vera scrittrice, dove c’erano solo mogli amatissime che facevano tutto e bene, affinché i loro mariti potessero finire i loro libri e vincere un giorno il Premio Nobel. Prova a scrivere nell’estremo sud del continente su emozioni e sesso invece di gallerie e labirinti. E quindi richiedi l’eternità.
Adesso prova a sostenere una carriera letteraria per trent’anni con una simile produttività e successo. Provalo, inoltre, con alcuni romanzi che sono ben fatti. Perché quelli di Isabel Allende lo sono: ci sono una voce e un’immaginazione che si nutrono di esperienze per nulla libresche. Isabel Allende costruisce il suo racconto intorno alla semplicità e a volte soccombe alla lacrima facile, ai pizzi e ai merletti, in cambio la sua espressione si appoggia sulla ricchezza dei racconti familiari, sulla commedia e sul dramma quotidiani, e sulla conoscenza di un lato dell’universo femminile, con intenzione a volte umoristica e demistificatrice, come succede ne La casa degli spiriti. Altre volte, come in Eva Luna o Il piano infinito, il colloquiale e l’ingegno della sua prosa la rendono più vicina e confessionale. Nei suoi libri la storia è stata dispensata dalla memoria, e alla fine sembra che il sesso faccia parte della casa e non solo del regno dei poeti del corpo. In Paula, la cronaca delle settimane che aspettò affinché sua figlia di svegliasse dal coma, forse il migliore dei suoi libri, descrive la sofferenza di un marito, in presenza del corpo amato ma irrecuperabile di sua figlia. In Isabel Allende la coscienza dell’umano arriva a quote alle quali il suo stesso linguaggio non arriva. Il risultato della sua avventura lo conosciamo già: pochi come lei hanno creato una relazione così solida con i suoi milioni di lettori, basata su qualcosa di misterioso e che crea dipendenza che loro trovano nelle sue pagine e che il mercato si è incaricato di convertire in necessario anno dopo anno, qualcosa che deride qualsiasi logica che non sia quella che governa questo stretto e indistruttibile legame. Isabel Allende non è Virginia Woolf, non è Clarice Lispector, non è Alice Munro, e, nonostante ciò, non è neanche un best seller dello stile di Dan Brown – e la sua semplicistica visione esoterica del giallo –, al quale non arrivano neanche la metà delle frecciate che tirano a lei. Ma Dan Brown quasi già non esiste. Isabel Allende, al contrario, passerà alla storia, anche se non sarà eterna.
[...]
Quale è la data di scadenza di uno scrittore popolare dopo la pubblicazione del suo ultimo hit? In questo congresso-solo-per-donne sono tornata a sentire nomi che non sentivo da anni: quelli delle messicane Laura Esquivel e Ángeles Mastretta, per esempio. E la prima cosa che ho pensato è stata: sono ancora vive? Ieri vidi passare per i corridoi del Palazzo delle Belle Arti l’autrice di vere bombe commerciali come Strappami la vita e Male d’amore (con il quale Mastretta vinse anche il Rómulo Gallegos) con il suo viso dagli zigomi pronunciati, la sua curata acconciatura da parrucchiere e i suoi movimenti fragili, ed è stato come tornare agli anni Ottanta. Su Wikipedia uno si rende conto del fatto che hanno continuato a pubblicare libri. Negli ultimi vent’anni del XX secolo i nomi delle tre risuonarono all’interno di quella che si etichettò come “letteratura femminile” – una sorta di derivazione della vera letteratura con tendenza all’escalation del kitsch e al maligno lacrimoso – e della quale l’Allende sarebbe stata la massima esponente. Dopo questi anni d’oro, sembra, la tendenza morì di successo, e solamente lei ha continuato nei primi posti di vendita. Dopo il boom di Dolce come il cioccolato, Esquivel si rifugiò in una palazzina in un paesino alla periferia di Città del Messico, si lanciò come deputata e ora dà lezioni e pubblica libri come 12 Passi per essere felici. Anni dopo quella enorme ingestione di cacao, anche l’Allende fece il suo libro sul sesso e la cucina: Afrodita, un ricettario per incontrare l’amante ideale o, che è la stessa cosa, un libro di quelli che decretano istantaneamente il tuo esilio dalla letteratura con la L maiuscola.
[...]
Il giorno dopo il suo arrivo a Città del Messico, Isabel Allende mi sta già aspettando, perfettamente truccata come ieri quando arrivò in aereo. In pochi minuti siamo a nostro agio nel salotto con wifi e colazione all’americana di frutta fresca, chiacchierando sulle ragioni per cui le donne si identificano così tanto con le sue storie e con quella visione del mondo ottimista nella quale le relazioni e le emozioni dei personaggi sono la cosa più importante. Lei sta ripetendo quello che le abbiamo già sentito dire tante volte su come l’aggettivo “femminile” finisca per sminuire la produzione letteraria delle donne, che da anni lottano contro la segregazione, quando le tiro fuori il tema dei suoi odiatori professionali. Soprattutto mi interessa sapere come si sente a essere giudicata non da un critico, che è qualcosa di facilmente sopportabile, ma da altri scrittori o scrittrici, a maggior ragione se questi autori godono di prestigio.
– Sopporto la critica come sopporto il successo – mi dice in un tono che da abitudinario e indifferente inizia a trasformarsi in energico e orgoglioso –. E sono consapevole del fatto che,curiosamente, Elena Poniatowska non si pronuncia su altri scrittori. Perché si pronuncia su di me? Perché vendo libri.
I dirigenti che si riuniscono in questo hotel potrebbero confondere il nome di Poniatowska con quello di una tennista russa.
– Pronunciarsi su di me la rende più visibile – contrattacca l’Allende –. Nessuno domanderebbe alla Poniatowska che cosa pensa dei miei libri se non fosse perché si stanno vendendo. Bolaño? Non parlò mai bene di nessuno. Era un ottimo scrittore e una persona odiosa. Bolaño la chiamò «scribacchina», per essere esatti. Prendere in giro Isabel Allende non è un segno di intelligenza, ma fa parte del folclore letterario latino-americano.
– C’è gente che dice che sono un genio, gli credo? Io ho un lavoro da fare. Fino a lì arriva la mia responsabilità..
In questo momento della conversazione Isabel Allende diventa seria. Ma neanche troppo.
[...]
È vero: Isabel Allende non accetta che nessuno la trucchi. Lo disse ieri all’aeroporto e mi è rimasto impresso come la prova di qualcosa. Ma questo dettaglio di ribellione non è espressione del suo impegno contro la schiavitù della bellezza, indurito nel femminismo, quanto più della sua vanità femminile: l’Allende si trucca da sola perché così si distingue di più. La vedo darsi alcuni ritocchi davanti a uno specchietto. Tra alcune ore terrà una lezione magistrale nel Palazzo delle Belle Arti davanti a centinaia di persone, tra le quali ci saranno il presidente del Messico e sua moglie. Tra mezz’ora sarà in onda con un’intervista speciale per un notiziario in questa stessa sala, e per questo si incipria il naso. È vestita con una camicia arancione, una gonna e un cardigan nero aperto. Si prepara. Le dico – sinceramente – che è perfetta.
– Nonostante l’età mi vedo molto bene e costa una fortuna! Ma non sono schiava della moda –puntualizza –. Mi irrita la stupidità del fatto che ci siano donne che credono che la loro vita cambierà perché cambiano il colore dei capelli. Lei ha i capelli tinti di un castano rossiccio e dà alcuni colpi alle punte per creare lievi onde. Le sistema dietro le orecchie. Oggi, tra l’altro, si festeggia il Giorno della Donna, e essere con Isabel Allende è una forma logica di festeggiarlo. La sua fondazione, i suoi progetti di solidarietà e di protesta a favore delle donne, la tengono occupata con conferenze per metà dell’anno.
– Avendo così tanto potere e risorse –termina –. Invece di aiutarle a migliorare le condizioni della donna, le schiacciano con condizionamenti estetici.
L’Allende lo dice convinta. Ma questa convinzione non le impedì di fare un intervento chirurgico alcuni anni fa. Si lisciò il viso per eliminare alcune rughe.
– Sí, e con questo? Certo che mi sono fatta la chirurgia plastica. E se non avessi giurato a mio figlio che non l’avrei mai più rifatto, l’avrei fatta un’altra volta.
Isabel Allende parla del suo unico e adorato figlio come se parlasse di un marito geloso e controllore.
– A mio figlio non piace che mi trucchi – dice –. Ma faccio in modo che la sua influenza arrivi fino a qui.
La romanziera è, dopo tutto, una donna classica che hanno cresciuto come una signorina, ma che lavorò per liberarsi attraverso la letteratura. Adesso sente la fretta di giustificare suo figlio e la sua avversione al trucco.
– Non gli piace che uno si sottometta fino a questo punto alla vanità. Mia nuora non si trucca, guarda come è bella – dice indicando un punto nella sala –. Va dal parrucchiere solo due volte all’anno. Questo è mio figlio: gli piace semplice e naturale. Io le dico: «Lori, saresti molto più carina con un po’ di rossetto». Ma a lui non piace.
L’Allende è una nonna ribelle che torna a essere adolescente davanti all’autorità di suo figlio.
– E ti opererai un’altra volta?
– Adesso come adesso no, ma forse tra cinque anni un’altra volta il viso. Bisogna stare attenti con la chirurgia plastica perché cosa ti serve avere il viso senza rughe se le mani non si possono operare, se cammini come una vecchietta.
Quando dice queste parole, sta parlando di se stessa o di ciò che teme le possa succedere, o di quello che prima o poi le succederà. Se mantiene la promessa che ha fatto a suo figlio, a partire da adesso, solo il tempo modellerà le sue forme.
– Non c’è niente di più ridicolo di queste donne che si vedono a Los Angeles tirate come se le avessere stirate e che si vede sono anziane – proclama –. Bisogna avere buon senso.
Dice l’Allende che la sua filosofia di vita la partorì ai tempi in cui lavorava per «Paula», una rivista femminile che aveva trovato come poche un equilibrio tra la frivolezza e la profondità, la moda e i problemi delle donne.
– Da quel tempo non ho mai smesso di essere femminile, sexy, femminista. Sì, si può.
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[...]
Epilogo: il crimine imperfetto
Sono passati quasi due anni da quando annunciarono via Twitter la morte di Isabel Allende. A settantuno anni non solo continua a scrivere per i posteri ma fa anche alcune cose per la prima volta. Se il primo romanzo che scrisse più di trent’anni fa trattava di spiriti, l’ultimo che ha scritto tratta di cadaveri. Se prima chiedeva cose ai fantasmi dei suoi nonni, nel suo debutto nel giallo l’Allende chiede a Google quanto ci mette un corpo a entrare nel rigor mortis.
Sono le sei di sera di un giovedì di gennaio a Madrid, e il lungo giorno che ha dedicato a rispondere a interviste sul suo nuovo romanzo sta per finire. A quest’ora è molto probabile che la signora Allende sia stanca di ascoltare giornalisti. O, per me ancora peggio, a quest’ora è molto probabile che la signora Allende sia stanca di ascoltare se stessa. Ma non è stanca di nessuna delle due cose. Come in un romanzo giallo, l’incontro si svolge nella suite di un hotel secolare di centocinquanta stanze. Dietro la porta si svolgono contemporaneamente due scene che sembrano di due tempi diversi: Lori, sua nuora e collaboratrice di fiducia, lavora silenziosa nella stanza con il computer, sdraiata sul letto, mentre sua suocera aspetta nel salone circondata da questo lusso a la Belle Epoque caratteristico del Ritz di Madrid. Dove un giorno Ernest Hemingway scrisse in mutande e Grace Kelly e Ranieri celebrarono la loro luna di miele, Isabel Allende serve tè e biscotti assortiti.
– Ti conosco. Ci siamo viste a… – lascia in sospeso la frase sperando in un po’ di aiuto per completarla –. Sí, al congresso di donne in Messico, giusto?
Un anno e mezzo fa Isabel Allende era a questo incontro femminista, seduta su un palco dal quale sembrava dominare il mondo con le sue stupidaggini su quello che vogliono le donne. Adesso siamo in un luogo nel quale fino al 1975, anno della morte del dittatore Francisco Franco, non si permetteva alla donne di entrare con i pantaloni. Questo, che avrebbe infastidito molto la giovane Allende, e anche la matura, è impensabile ora che nel suo Paese governa una donna, la sua ammirata Bachelet.
– Farebbe il ministro per lei? –le chiedo incuriosita come parte di un’intervista più politica che letteraria che faccio per un giornale del Perù.
– Non sono in grado. È come se mi chiedessero di stirare una camicia. Non ho idea di come si faccia.
Le ricordo cheVargas Llosa, nel discorso del Premio Nobel, raccontò che sua moglie era solita dirgli «Mario, tu servi solo per scrivere».
– Un uomo può permettersi il lusso di servire solo per scrivere. A me piace scrivere ma devo fare molte altre cose.
Anche se si dedica ad altre cose, non manca mai al suo appuntamento con un nuovo romanzo. E sempre si ingegna per essere “alla moda”. Alcuni potrebbero dire che sale sul carro in corsa dei libri del momento o che è un’intuitiva cacciatrice di tendenze letterarie a proprio vantaggio. L’Allende, in cambio, crede di avere il talento, come altri scrittori, di usmare quello che c’è nell’aria e percepire quello che alcuni chiamano l’incosciente collettivo per restituirlo sotto forma di libro. Lo fece con il realismo magico, con i romanzi sulle didatture, con le storie d’amore e di cucina, con la saga di Harry Potter qundo si avventurò nel genere per l’infanzia, e adesso è tornata a farlo con il romanzo noir. L’Allende mi giura che non sapeva che i gialli erano di moda; però, prima di scrivere il suo, si preparò divorando la saga Millenium di Stieg Larsson – come negli anni Ottanta avrà divorato Cent’anni di solitudine? –e terminandola seppe che non avrebbe mai potuto scrivere niente del genere, anche provando. Che sarebbe stato inutile.
– È troppo brutale, troppo scuro, non è il mio modo di vivere. Mi dissi che dovevo scrivere un giallo ma a modo mio.
Così nasce Il gioco di Ripper– un romanzo «che prende in giro i romanzi noir», secondo l’autrice –, la storia di una giovane superdotata, fantasiosa e appassionata a questo gioco di ruolo virtuale – ispirata da Andrea, la sua unica nipotina– che dovrà seguire piste per scoprire chi si nasconde dietro la reincarnazione di Jack lo Squartatore, il responsabile di una serie di crimini. Per questo la ragazza potrà contare sull’aiuto e la complicità di suo nonno.
– Il nonno sono io – confessa. Cioè la nonna che sono stata. Perché i miei nipoti sono già grandi e non abbiamo più la stessa complicità.
Quando parla così l’Allende è come quelle nonnine che si lamentano di essere state abbandonate.Che si lamentano un po’ di tutto. Dice che se a lei fosse toccato crescere con internet, come alla sua nipotina, non sarebbe mai uscita dalla sua tana, non avrebbe mai vinto la timidezza e scoperto il femminismo, né sarebbe diventata una scrittrice. La colpa di tutto, chiaramente, ce l’ha internet.
– So che gli assassini in serie sono qualcosa di terribile e detestabile –esclama improvvisamente – di cui uno non dovrebbe ridere, ma la fiction è la fiction.
Isabel Allende non sapeva che i morti erano di moda perché a casa sua lo sono sempre stati. Questo sì per colpa di suo marito, il gringo Willy C. Gordon, lettore e scrittore di romanzi gialli, che le insegnò l’abc del genere.
– Gli stavo raccontando che pensavo di cominciare il libro descrivendo l’atmosferma, scrivendo sul quartiere di San Francisco dove si sarebbe svolta la storia, e Willy gridò con orrore: «No! Un romanzo giallo inizia con un morto! Devi iniziare uccidendo qualcuno». A me non sarebbe mai venuto in mente.
Mi domando se la bufala sulla sua morte che circolò nel 2012 in internet non fu anche l’inizio di un romanzo. Un romanzo che abbiamo scritto tutti e al centro del quale c’è Isabel Allende. Per decenni è stata una vittima propiziatoria per molti dei suoi colleghi, così che non sarebbe strano se veramente fosse morta e che adesso, in questo momento, sia un fantasma quello che cammina per il Ritz parlandomi di crimini e corpi.
– Quando ci mette un corpo a entrare in rigormortis? – le chiedo per controllare che la novellina che scrive da trent’anni abbia appreso la lezione.
– Dipende dalla temperatura, assolutamente. Grazie a questo si può conoscere addirittura l’ora della morte. E ci sono molte cose che cercai in Google sui veleni e le armi per il libro e che cinque minuti dopo dimenticai. Io non credo che debba andare per la vita caricando cadaveri in rigor mortis. Quando avrò bisogno di un altro cadavere lo cercherò di nuovo su internet.
L’Allende cercava un cadavere e le abbiamo dato il suo proprio via Twitter.E lei morì dalle risate. Perché per la sfortuna dei suoi critici e squartatori di una rigidità cadaverica, a lei la vita e la morte sorridono.
Quella che è qui nella stanza accanto in una suite del Ritz de Madrid potrà essere una signora, ma mai un fantasma.
Quanto durerà Isabel Allende a questo mondo o nell’altro?
Dipenderà dalla temperatura.
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