“Ironweed”, il rovesciamento del sogno americano nel magico realismo di William Kennedy
Ironweed, pubblicato da minimum fax e tradotto da Luciana Bianciardi, è il quarto romanzo di William Kennedy, romanziere ma anche giornalista, sceneggiatore, commediografo e storico. Il libro, terzo della trilogia dedicata ad Albany, città natale dell’autore e “musa ispiratrice” da cui non prese mai le distanze, è ambientato durante la grande depressione degli anni Trenta, e costituisce l’ideale prosecuzione della storia della famiglia Phelan iniziata con Billy Phelan' s Greatest Game, ma con lo sguardo rivolto al passato perché ha come protagonista Francis, il padre di Billy che abbandonò la famiglia quando questi aveva nove anni. Ironweed fu pubblicato negli Usa nel 1983, solo grazie all’intercessione di Saul Bellow, e a dispetto di ogni previsione fu molto ben accolto da pubblico e critica, ottenendo diversi prestigiosi riconoscimenti, tra cui il Pulitzer Prize e il National Book Critics Award. Il regista Hector Babenco ne realizzò inoltre una trasposizione cinematografica, con Jack Nicolson e Meryl Streep nel ruolo dei due personaggi principali, Francis e Helen.
Il romanzo inizia col protagonista che, ritornato dopo molto tempo nella nativa Albany, dove 22 anni prima aveva lasciato la dolce moglie Annie con i loro figli, attraversando il cimitero della città vede alcuni dei defunti che aveva conosciuto in vita, compresi i suoi genitori, osservarlo e parlargli, e a sua volta sente il bisogno di spiegarsi col figlioletto Gerald, morto a causa sua. Un incipit originale e spiazzante, che ci fa entrare da subito in quello che è il tratto distintivo dell’arte narrativa kennedyana, l’unione di brutale realismo e lirica magia. Scopriamo che Francis Phelan è una “anima perduta” che condivide la sua quotidianità di stenti con altri vagabondi, in particolare l’amante Helen, il rapporto con la quale si è ormai trasformato in legame fraterno. Lunghi flashback ci illuminano sul passato che ha portato entrambi a porsi come solo scopo di vita riuscire a “sopravvivere i prossimi venti minuti".Prima di andarsene da Albany Francis era stato un grande giocatore di football, oltre che realizzato marito e padre, ma i sensi di colpa per due omicidi – uno di un crumiro involontariamente ucciso con un sasso durante uno sciopero, l’altro riguardante il proprio figlioletto di tredici giorni, scivolatogli accidentalmente a terra – lo avevano spinto ad abbandonare la famiglia e a diventare un vagabondo alcolizzato. Helen è a sua volta una persona provvista di grande sensibilità e molto dotata sia come pianista che come cantante, ma fragile e profondamente ferita dalla vita. Maltrattata prima di tutto dalla sua famiglia “perbene” che, dopo il suicidio del padre, non le aveva più permesso di proseguire i suoi studi musicali, preferendo utilizzare il patrimonio ereditato, in contrasto con le volontà paterne, a favore del fratello. In secondo luogo tradita dal primo amore Arthur che, dopo averla assunta come commessa e aver sfruttato le sue doti musicali, l’aveva sedotta, per poi sostituirla con un’amante più giovane. Tradita infine dalla sua stessa passione per la musica che, pur avendole dato delle soddisfazioni, l’aveva illusa di poter diventare una stella. Le scelte finali dei due protagonisti, sempre tese alla reciproca protezione, sono opposte, e quella di Helen capace di offrire a Francis, il “più grande amore della sua vita”, l’opportunità di voltare pagina prima che sia troppo tardi.
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I temi affrontati sono molti, dalla capacità dei sentimenti più nobili, quali senso di fratellanza e solidarietà, di sopravvivere in mezzo all’abiezione ed esserne talora persino rafforzati, al rifiuto sociale dei vagabondi in quanto “diversi”, estremizzato dalla violenza cieca dei “legionari” che li massacrano (s’intuisce) impunemente. Dall’importanza dei primi incontri amorosi nella formazione della personalità – per Francis avvenuti con l’affascinante e un po’folle vicina di casa dei genitori Katrina, moglie del commediografo Edward Daugherty – con il loro emozionante effluvio di tensione erotica, tremori, ritrosia e consapevolezza in divenire del proprio intero sé, alla difficoltà di elaborare l’abbandono genitoriale. Sino al punto, apparentemente marginale ma in realtà perno dell’intera narrazione, della potenza salvifica del vero amore, recante in sé i germi di un perdono così incomprensibile, anche agli occhi di chi ne beneficia, da risultare di fatto sovversivo.
I personaggi di Ironweed, come ha detto Saul Bellow, sono “di una straordinaria intensità umana”, antieroi in fuga prima di tutto da se stessi, come i protagonisti dell’Ulisse joyciano. Spendono il poco che riescono a ottenere per ubriacarsi, spesso mendicano, muoiono “per una manciata di spiccioli”, fanno a loro volta del male agli altri con disinvoltura e sono disposti a usare il sesso per tirare avanti, ma sonodotati di fierezza e di un loro codice morale, sebbene per molti aspetti diverso da quello comune. Francis, sospeso tra sensi di colpa/spinta autodistruttiva e voglia di riscatto/redenzione, conserva uno spirito indomito e generoso ma è un fuggitivo, divenuto tale per non aver saputo affrontare le conseguenze delle sue azioni, un uomo dotato di scarsissimo autocontrollo, perseguitato dalla fame e da cicatrici dell’anima – allegoricamente rappresentate da fantasmi– legate al suo passato violento e alla spietata autoconsapevolezza. Il protagonista di Ironweed si era a lungo riconosciuto nella romantica immagine di “guerriero illuminato da socialismo” che col suo gesto “aveva liberato gli scioperanti dai pezzenti capitalisti” dipinta per lui dal commediografo Daugherty, per giungere però, col tempo, alla conclusione di essere solo un combattente “ai ferri corti con se stesso”, consapevole di non poter fare a meno del proprio senso di colpa: “è tutto quel che mi resta. Se lo perdo […] non sarò stato niente”. Senso di colpa unito a divorante rimpianto:
«Era così bello. Sentì un potente impulso di confessare tutte le sue trasgressioni in modo da mettersi in pari con quella bellezza che lui aveva rifiutato, e tuttavia provava un forte torpore alla lingua […]. Avrebbe significato ricapitolare non solo tutti i suoi peccati ma tutti i sogni fuggitivi e perduti, tutti gli spostamenti a casaccio su e giù per il paese, tutti i ritorni in quella città solo per ripartire senza andare mai a trovarla […]. Tutto era più semplice che tornare a casa, anche ridursi al livello di una larva sociale».
Helen è gravemente malata e a sua volta afflitta dal rimpianto per come avrebbe potuto essere la sua vita, ma rifiuta di farsi bollare come “vecchia ciabatta ubriacona”. È romantica, ancora capace di emozionarsi sentendo una delle canzoni che un tempo facevano parte del suo repertorio, e sa proteggere chi ama con la generosità di cui sono capaci solo le anime nobili.
«Helen abdica per l’uomo che ha amato in modo che sia libero come lei lo vuole, libero come lo è stata lei a modo suo, libero come loro due erano liberi anche quando erano legati strettamente l’uno all’altra.»
Ironweed è un romanzo potentissimo e straziante, che mette in scena l’altra faccia del sogno americano, quella di coloro che quel sogno non l’hanno mai neppure sfiorato o che, come i suoi protagonisti, sono arrivati a toccarlo per poi perdere tutto. È un romanzo intriso di una pietas profonda ma composta, che evita di giudicare i suoi personaggi, tenendosi alla larga sia da una “normalizzazione” banalizzante sia da qualunque retorica sentimentale.
Un romanzo la cuiintensa prosa risulta a tratti sublime, psicologicamente penetrante come un dramma di Ibsen e aspramente realista come una pagina di Steinbeck, ma anche allucinatamente immaginifica come un racconto di Hoffmann e musicalmente struggente come una poesia di Keats, con qualche pennellata d’ironia («I denti?», disse Francis. «Abbiamo smesso di frequentarci, perlomeno con molti di loro. Me n’è rimasto soltanto qualcuno...»).
Lo sfondo surreale dovuto ai frequenti incontri coi morti e il riemergere dei ricordi sotto forma di reiterati flashback accrescono il coinvolgimento emotivo e la tensione del ritmo narrativo, senza spezzarne la fluidità ed eliminando i rischi di eccessiva pesantezza insiti nella descrizione della squallida quotidianità dei protagonisti. Una sorta di realismo magico sospeso tra spietata riproduzione della realtà – con una forte attenzione alle contraddizioni sociali dell’America degli anni Trenta e al degenerare dei sogni di molti in incubi, che ricorda da un lato l’inferno urbano di Dos Passos, dall’altro il mondo degli emarginati di Steinbeck – e una personalissima, intrisa di spiritualità, tensione magico-visionaria. Una tensione basata sulla scelta tecnico-narrativa di restituire ai defunti voce, visibilità e possibilità di ricucire legami brutalmente interrotti, permettendo a vivi e morti di chiudere conti rimasti sospesi e, se possibile, aprirsi reciprocamente la via verso la pace interiore (esemplare l’emozionante nonché profetico dialogo tra Francis e Gerald).
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L’epilogo, di una straordinaria potenza visionaria e poetica, col suo continuo sovrapporsi di assi temporali e registri narrativi riassume in sé, portandoli al diapason, i capisaldi dell’arte kennedyana. E il ritorno a casa di Francis è metafora, ancora una volta magicamente sospesa tra sogno e realtà, di una tensione di riscatto finalmente aperta alla speranza.
«[…] vide solo la splendida bocca di Katrina pronunciare parole che erano poco più di forme silenziose; e allora capì che si stava lasciando alle spalle molto più di una città e di una vita piena di cadaveri. […] Il segreto era vivere».
Ironweed di William Kennedy: la capacità della grande letteratura di trasformare, senza edulcorare nulla, la crudezza della realtà in poesia, la pietà e il fastidio in meraviglia.
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