«Io SONO quei dischi». “Anni luce” di Andrea Pomella
A cinque anni dall’uscita di La misura del danno, Andrea Pomella – giornalista – torna alla narrativa con Anni luce, romanzo autobiografico pubblicato da Add Editore. Grazie a una scrittura viva, vibrante ed emotivamente coinvolgente, Pomella ripercorre la stagione della sua giovinezza romana al ritmo del grunge anni Novanta, sotto il segno dei Pearl Jam e del loro leader, Eddie Vedder.
«C’era una volta il mondo. Nel mondo c’era una città, in cui pioveva trecento giorni l’anno. La città si chiamava Seattle, estremo occidente degli Stati Uniti d’America. In questa città arrivò un surfista che veniva da San Diego, un fan scatenato degli Who e dei Ramones. In questo surfista, c’era un’anima. In quest’anima, c’era lo spirito di un’epoca…»
Chi però pensa che il libro di Pomella sia la semplice infornata di ricordi di un fan nostalgico è fuori strada. Anni luce è molto di più:
«È la storia di un’amicizia, e riguarda, certo, anche i Pearl Jam. Ma non solo i Pearl Jam. Riguarda tutto ciò che si metteva in moto quando dalle casse dello stereo usciva una loro canzone, il vortice di angosce, divertimenti, memorie, furori, gioie, inquietudini che si incanalava attraverso la loro musica.»
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Q è il nome di questo amico. Un nome che di una persona non dice niente o troppo poco, ma che è abbastanza per ribattezzare una stagione. Dalla parte di Q è infatti il titolo del lungo capitolo in cui l’autore rievoca le avventure vissute in compagnia dell’amico, in un sodalizio girovago e sconclusionato che trova i suoi echi naturali nella Beat Generation spesso richiamata nelle pagine del romanzo.
Ma, accanto ai fan nostalgici, c’è un’altra categoria di lettori che si ritroverebbe spiazzata dalla lettura del libro, e non è quella dei profani del grunge alla quale chi scrive appartiene: penso al contrario a chi, in Anni luce, si aspetta di trovare la mera cronaca di nottate di sballo trascorse fra musica, alcol, droghe e atti di vandalismo gratuiti. C’è anche tutto questo, ovviamente, e anche in dosi piuttosto abbondanti, eppure non si tratta dell’elemento che la scrittura di Pomella – dinamica e al tempo stesso introspettiva – a mio avviso privilegia. La riflessione occupa infatti uno spazio molto importante e, sebbene non sia sufficiente aprire il libro a caso per imbattersi in perle di saggezza (penso per esempio a passi come l’elogio dell’ubriachezza all’inizio del secondo paragrafo di pagina 34), è senz’altro vero che il romanzo esprime una propria, particolarissima visione del mondo e della vita. Visione che il grunge stesso, attraverso la sua musica, ha sempre cercato di comunicare:
«Il grunge è stato il primo genere musicale fondato sul disturbo depressivo. Il punk era fondato sulla rivolta, il rock’n’roll sulla trasgressione, l’hard rock sull’aggressività, il dark rock sull’introspezione, il blues sulla malinconia. Tutti questi generi si basavano su un sentimento umano, a volte anche esasperato, ma nessuno su una patologia psichiatrica, come invece ha fatto il grunge con il disturbo depressivo».
L’adesione al grunge di Q e del protagonista è dunque la manifestazione di un disagio che al contempo si impone come rimedio. La storia è ambientata a Roma nei primi anni Novanta, momento storico di passaggio epocale, dove le disgrazie private si scontrano con quelle universali con effetti devastanti soprattutto sui più giovani. Pomella ha parole poco lusinghiere per quel periodo, l’unica positività che conserva ai suoi occhi è quella di aver coinciso con i suoi vent’anni. Così, se il grunge e il suo corollario di abitudini autolesionistiche era uno dei pochi surrogati su cui l’allora generazione di ventenni poteva contare, nemmeno chi lo rappresentava poteva essere qualcosa di più rispetto a un momentaneo coperchio da chiudere sopra il vuoto che quei ragazzi sentivano allargarsi dentro l’anima:
«Non mi importava dunque il nome dei Pearl Jam in sé, mi importavano alcune cose che esso mi evocava e che ogni loro lavoro diventasse al primo ascolto l’intermediario obbligatorio per l’acquisizione della mia consapevolezza del mondo, che portasse a galla i sintomi della mia costernazione, dei miei traumi, della mia angoscia, che fosse il grimaldello capace di forzare la scatola magica del mio gusto, e che abbellisse, accanto alla coscienza del dolore, i momenti più cupi della mia gioventù».
Come gli anelli di una catena, gli elementi di questa storia sono tutti collegati: basta che ne salti uno perché saltino anche gli altri. L’amicizia fra il protagonista e Q, iniziata una sera sulle note di Once dei Pearl Jam, non poteva essere per sempre e, come la cassetta di Ten sulla quale rimane impresso l’istante esatto dell’incidente automobilistico in cui i due amici vengono coinvolti una sera di settembre del 1995, si arresta senza alcun preavviso, bruscamente. Pomella riprende in mano la propria vita scegliendo ciò che sceglie la maggior parte delle persone – la famiglia, la carriera e perfino «un maxitelevisore del cazzo» –, ma non Q. Q è l’impenitente, l’esule eterno che proprio come Dean Moriarty nel finale di On the Road rimane appiedato mentre gli altri si rimettono in moto verso altre destinazioni:
«Ho pensato di frequente ai motivi per cui l’amicizia tra me e Q si concluse in quel modo, per quali ragioni non siamo diventati nel tempo come reduci che si incontrano due volte l’anno, che escono a cena con le rispettive famiglie rimembrando i tempi eroici che furono. Credo che non ci siano buoni motivi, e credo che in fondo sia meglio così. Forse la nostra non era una vera amicizia. Forse abbiamo fatto semplicemente un pezzo di cammino insieme, ci siamo trovati nello stesso posto e nello stesso tempo, un tempo in cui le strade notturne riecheggiavano delle nostre voci e delle nostre chitarre, e i giorni e le notti trascorrevano nella malinconia giovanile e nello sprezzo della morte. O forse, nel nostro piatto della bilancia, non avevamo posto la giusta quantità di granelli di torto».
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La lucida emotività che Andrea Pomella raggiunge in questo come in altri brani è uno dei motivi che rende Anni luce il libro che è, ossia una lettura vera, palpitante e con tante cose da dire. Il viaggio che l’autore propone non dura che pochi anni, dei quali peraltro ripercorre solo le tappe più significative, tuttavia le riflessioni personali che egli mette davanti al lettore dicono molto anche riguardo un altro tipo di percorso: quello compiuto da Pomella per mettere finalmente nero su bianco un pezzo essenziale della sua vita, dove la consapevolezza e la maturazione nel frattempo acquisite hanno giocato un ruolo importante, ma che probabilmente non sarebbero mai arrivate senza che Q e i dischi dei Pearl Jam non avessero inciso così profondamente sulla formazione della sua attuale identità. E io oggi – questo è certo – avrei parlato di un altro libro.
Per la prima foto, copyright: Stephen Arnold.
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