“Io non mi chiamo Miriam” di Majgull Axelsson. La storia di un’identità rubata
É arrivato anche in Italia l’ultimo romanzo della svedese Majgull Axelsson: Io non mi chiamo Miriam. Edito da Iperborea e tradotto da Laura Cangemi, questo testo si aggiunge con fierezza alle raccolte dedite alla storia e alle dure testimonianze sulla tragedia della Shoah ma, allo stesso tempo, se ne discosta per stile e tematiche.
In questo caso la storia non è tratta da una particolare testimonianza, né sono memorie tracciate nero su bianco da un reale sopravvissuto. Io non sono Miriam non è nient’altro che un romanzo, un vero e proprio racconto nato da una finzione narrativa e dalla volontà dell’autrice di dar voce ad alcuni aspetti della Shoahfinora trascurati, o narrati solo in parte.
Ci sono voluti due anni e mezzo di studi su fonti biografiche e testimonianze orali, ricerche approfondite riguardanti i campi di concentramento di Auschwitz e Ravensbrück per dar vita alla realtà narrata dalla protagonista. Uno sforzo culturale non indifferente ma che innalza Majgull Axelsson a un gradino superiore rispetto alla sua già fiorente carriera.
La storia di Miriam (o forse sarebbe meglio chiamarla Malika) comincia dal giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, nel momento in cui, di fronte a un bracciale con inciso sopra il suo nome, Miriam afferma che quel nome non le appartiene.
A sopraffarla è una verità della quale lei stessa si è quasi dimenticata, un’epifania che la raggiunge dopo circa settant’anni di vita trascorsi sotto un’identità che le circostanze l’hanno costretta a rubare pur di sopravvivere.
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Ad ascoltare le sue parole e a investigare su quella strana affermazione è la nipote, Camilla, la quale invita Miriam a fare una passeggiata al parco che segnerà la fine di un fantasma vivente e la riscoperta di una ragazzina divenuta ormai anziana, ma con una lunga storia da raccontare.
Sono un susseguirsi di flash, frammenti e immagini sconnesse quelle che vengono narrate, un alternarsi di passato e presente che catapultano Camilla, il lettore e la stessa protagonista diversi anni nel passato, al tempo dell’Olocausto, al tempo dei campi di concentramento, al tempo in cui la cultura Rom era odiata da tutti, persino dagli ebrei.
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Rom, è questa la vera origine di Miriam e il suo vero nome è Malika, una zingara trasferita in un convento e poi ad Auschwitz assieme al fratellino Didi e la cuginetta Anuscha, morti, l’uno dopo l’altra.
A tramutarla in ebrea è un avvenimento banale e fortuito, durante lo spostamento da Auschwitz a Ravensbrück: senza volerlo Malika scatena una rissa causata da un pezzo di pane che teneva in tasca e per non farsi fucilare indossa istintivamente le vesti da ebrea di una ragazzina della sua stessa età ma già morta: Miriam.
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Per un tozzo di pane Malika indossa la stella di David e cambia nome, sopravvive ai campi di concentramento e si ritrova in Svezia negli anni Cinquanta. Racconta a Camilla tutta la sua vita: della società del tempo e dell’incapacità di comprendere le barbarie subite nei lager, del matrimonio con Olof, il nonno che non ha mai conosciuto la sua vera identità e tutto il resto di quella vita che in fondo è come se non le appartenesse affatto.
Attraverso Io non mi chiamo Miriam, Majgull Axelsson dà corpo e voce a una donna Rom che ha vissuto sulla sua pelle l’Olocausto e che si è salvata, ironicamente, assumendo l’identità di un’ebrea.
Come è possibile? Quali sono le motivazioni che l’hanno spinta a credere di salvarsi indossando la stella di David? É questa la chiave e il perno di tutta la storia, il tema centrale che l’autrice ha scelto di approfondire dando la possibilità alla cultura Rom di riscattarsi e di emergere da una serie di testimonianze e racconti visti e vissuti da occhi quasi esclusivamente ebrei.
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L’etnia Rom emerge da questo romanzo con giusta insistenza, una minoranza considerata dai tedeschi alla stregua di una massa di criminali, ladri la cui morte sta bene persino agli stessi ebrei.
A terrorizzare la protagonista per tutta la vita è la costante paura di essere scoperta, è il dramma derivante da una vita di menzogne, ricordi e la costante ricerca di una sopravvivenza dolorosa nella quale è la solitudine a fare da padrona.
Malgrado sia sopravvissuta, Malika ha perso tutto, non solo la famiglia ma anche le sue origini e la sua stessa identità.
«Potrei dire di averlo fatto solo perché desideravo tanto sopravvivere, ma non è vero. In realtà non volevo vivere. Didi era appena morto e Anuscha lo era da tempo. Però volevo essere un cadavere intatto, non volevo morire fucilata o fustigata o uccisa a calci… Non so perché. Ma era così. Volevo essere un cadavere intatto».
Attraverso Io non mi chiamo Miriam e grazie alla sapiente abilità narrativa dell’autrice, il lettore si ritrova nei panni di una ragazzina che tenta di sfuggire alla morte per mezzo della morte stessa, ma di altro tipo.
Malika finisce infatti per rinnegare il passato, la famiglia e la storia della sua stessa cultura pur di sopravvivere. Nel farlo segue gli insegnamenti del padre il quale le ripeteva che «dimenticare e andare avanti» è l’unica alternativa possibile.
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Arrivata a ottantacinque anni però Malika non riesce più a dimenticare e lo sforzo ora diventa quello di ricordare, ricordare a sé stessa un’identità quasi del tutto cancellata, ricordare attraverso un racconto doloroso le sue origini e dare finalmente voce al suo popolo.
La narrazione scorre leggera malgrado gli argomenti trattati, il lettore riesce perfettamente a identificarsi con la protagonista, soffre assieme a lei per il dolore del ricordo e dell’alienazione.
Con Io non mi chiamo Miriam Majgull Axelsson parla del Bene e del Male e di quanto a volte si nasconda fra il sottile confine che separa verità e menzogna.
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