“Into the Wild Truth” di Carine McCandless, il dolore di dire la verità
Into the Wild Truth (Garzanti, 2015, trad. di Rita Giaccari) nasce dall’esigenza di approfondire il tema trattato in un libro scritto nel 1997 dal giornalista statunitense Jon Krakauer e pubblicato in Italia come Nelle terre estreme (Rizzoli, 1999), poi diventato anche il film del 2007 Into the Wild diretto da Sean Penn: la breve vita avventurosa di Chris McCandless, fratello dell’autrice, che dopo la laurea era partito per un lungo viaggio attraverso le zone più selvagge degli Stati Uniti, trovando accidentalmente la morte nel 1992, poco dopo aver preso la decisione di fare ritorno a casa, per aver ingerito delle bacche velenose.
Il libro di Krakauer si basava anche su numerose conversazioni avute con Carine McCandless, che però lo aveva pregato di omettere i particolari più scabrosi della propria vita familiare, quella da cui Chris aveva evidentemente voluto prendere le distanze con il suo lungo viaggio.
Ora, dopo aver dedicato molto tempo a tenere viva la memoria del fratello, soprattutto incontrando spesso classi di studenti delle numerose scuole americane in cui Nelle terre estreme è divenuto una lettura obbligatoria, Carine McCandless ha deciso di raccontare anche quegli aspetti dell’infanzia e dell’adolescenza condivise con il fratello e omessi da Krakauer.
Il padre Walt, illustre scienziato, era un bigamo che per diversi anni aveva mantenuto due famiglie, prima di divorziare dalla prima moglie Marcia, che gli aveva dato sei figli, per sposare Billie, a sua volta scienziata brillante ma totalmente succube dell’amate e poi marito, impegnatissima a inventare per il mondo esterno un’immagine di famiglia perfetta, costruita su bugie e mistificazioni della realtà.
I genitori non hanno mai ammesso di essere in buona parte responsabili della decisione di Chris di partire per il viaggio in cui avrebbe trovato la morte, così come non hanno accettato che la figlia distruggesse il quadro fittizio di felicità familiare costruito nel corso degli anni, fino a rompere i rapporti non solo con Carine, ma anche con i figli del primo matrimonio di Walt, sempre molto legati ai fratellastri.
Più che l’avventura di Chris, al centro di Into the Wild Truth c’è dunque la storia di una famiglia in cui, dietro al benessere economico, alla bella casa e alle vacanze in giro per gli Stati Uniti, si celano episodi di pesante sopraffazione fisica e psicologica.
Carine McCandless, in Italia per il tour di presentazione del suo libro, ha incontrato un gruppo di blogger nella sede milanese della Garzanti prima di partecipare al Salone del Libro di Torino.
Quanta fatica ha fatto a raccontare la sua vita, che dal libro non appare per nulla facile?
Ho dovuto imparare a convivere con la mia lotta interiore anche prima di scrivere il libro, però devo precisare che la mia vita non è stata poi così difficile: già il fatto di essere nata negli Stati Uniti, ad esempio, mi fa essere più fortunata rispetto ad altri. Sia io, sia Chris capivamo di avere delle difficoltà, ma anche diversi vantaggi dalla nostra famiglia. Ho solo voluto colmare i buchi del racconto di Krakauer, così molti lettori hanno potuto guardare le cose da una prospettiva diversa. Certo, il racconto della morte di Chris e di certi momenti della nostra infanzia è stato doloroso, così come il fatto che mio fratello non è mai diventato adulto.
Leggendo il libro mi è stato difficile capire come due persone colte, benestanti e non di bassa estrazione come i suoi genitori potessero avere una visione così alterata della realtà. Volevo sapere se l’esperienza della morte di un figlio li ha cambiati o no.
È triste dirlo ma purtroppo no, non sono cambiati. Io ho aspettato vent’anni a scrivere il mio libro proprio perché, oltre a dover trovare il momento giusto per me, volevo lasciare a queste persone il tempo per imparare a capire cos’era successo. Parlando con tante persone, soprattutto con gli studenti, mi sono resa conto di fare un cattivo servizio a loro, oltre che a Chris evitando di raccontare la verità. Proprio mio fratello mi aveva insegnato che niente è più importante della verità, e non potevo permettere che i miei genitori continuassero a nascondersi dietro al racconto di Nelle terre estreme dicendo “nel libro non c’è, quindi non è mai successo”. Non potevo più tacere.
Il libro non vuole accusare i nostri genitori, e io non li ritengo responsabili della morte di mio fratello, ma del suo allontanamento da noi.
Rendere narrativa la sua storia personale com’è stato? Le sarebbe mai venuto in mente di scrivere un libro parlando d’altro?
Altre volte mi è stato chiesto, ma io non saprei rispondere: sono stata la sorella di Chris, e anche se faccio altre cose il fatto di raccontare la sua storia è stata la cosa più importante della mia vita, perché mi ha permesso di incontrare tanta gente, di fare esperienze diverse.
Questa per me non è assolutamente una storia triste, è solo triste che mio fratello non sia più qui. Purtroppo la violenza domestica è un tema diffuso, bisognerebbe parlarne molto di più, perciò in questo libro si parla più dei sopravvissuti che di Chris, perché siamo sette fratelli, sei di noi hanno avuto figli, e tutti quanti abbiamo rotto il cerchio della violenza familiare. Il libro sta aiutando delle persone, così come il lavoro che faccio da anni contro la violenza domestica serve ai tanti giovani da cui ho ricevuto risposte consolanti.
Scrivere questo libro è stata una catarsi personale?
Sì, è stato senza dubbio un gesto catartico. Sentivo che era importante fare questa cosa, anche se non oserei dire che ho adempiuto al volere di Chris perché lui era molto riservato, e forse non avrebbe mai voluto un libro e un film su di lui: ma sono stati fatti con un intento puro e il fatto che abbiano aiutato tanta gente è molto positivo.
Nel libro i passi più difficili sono quelli sul seme della violenza. Quanto è stato difficile superarlo?
Diventare madre è stato un dono fantastico! Ho avuto il vantaggio di essere aiutata da mia sorella Shawna che lo era diventata prima di me. Ho due figlie che sono bambine con bisogni particolari: la prima è stata adottata a due anni, era stata abbandonata dalla madre, mentre la seconda ha la sindrome di Down: con loro ho imparato che non è il tuo dna a stabilire chi sei, ma che puoi sicuramente decidere quali effetti queste cose avranno tu di te. Anche se temi che la violenza ti lasci il segno e influenzi la tua vita, è possibile interrompere questo processo.
Diventare madre è stato un fatto naturale, un po’ come scrivere questo libro: quando capisci la tua strada, tiri il fiato e vai avanti.
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Lei sembra aver affrontato le sue difficoltà con un spirito ammirevole e propositivo, con una leggerezza che porta anche il libro a una conclusione positiva. Da dove le viene questa forza d’animo?
Se questa è stata la sua impressione, vuol dire che sono riuscita a ottenere quello che volevo. Mi ha aiutato senza dubbio la fede, ma credo che si possa imparare che il nostro comportamento determina la scelte. Le mie decisioni non sono sempre state le migliori, però alla fine sta a noi scegliere se le avversità ci devono distruggere oppure darci la forza per andare avanti. L’energia prende diverse forme e possiamo usarla come carburante, ma scegliendo noi una direzione positiva o negativa.
In questa famiglia disastrata siete riusciti a costruire un bellissimo rapporto fra fratelli e sorelle, anche di madri diverse. Questo rapporto è stato cambiato in qualche modo, in meglio o in peggio, dall’uscita del libro o no?
Walt e Billie hanno commesso tanti errori, ma hanno fatto anche delle cose positive: noi non abbiamo certo avuto la peggiore infanzia del mondo, e a loro va il merito di averci fatto conoscere gli altri fratelli e sorelle, nonostante tutte le loro bugie, le manipolazioni della realtà e la tendenza a incolpare qualcun altro dei loro errori. Marcia invece (la prima moglie del padre, ndr) avrebbe potuto raccontarci una storia diversa, ma è sempre stata molto onesta e a lei va gran parte del merito se oggi siamo una famiglia unita. Lei non ci ha mai allontanati dai suoi figli e non ha insegnato loro a tenere a distanza me e Chris. Oggi mia figlia Cristiana, che ha nove anni, chiama Marcia “nonna” e non riconoscerebbe mai come tale mia madre Billie.
Sono stati forse proprio gli errori dei miei genitori a rafforzare la famiglia e a tenerci uniti tra noi fratelli.
Scrivendo Into the Wild Truth ho cercato di essere più rispettosa possibile dei miei familiari: ognuno di loro ha avuto un ruolo, alcuni appaiono di più, altri di meno, ma tutti volevano che apparisse il loro punto di vista. Mi hanno aiutato a parlare dei fatti avvenuti prima della nascita, e anche se non tutti sono sempre stati d’accordo al cento per cento, tutti loro hanno capito che la mia intenzione era solo quella di fare del bene. Con alcuni si parla molto di questo libro, con altri meno: nessuno, in fondo, ama vivere nel passato, ma io penso che non sia possibile andare avanti senza elaborare il nostro passato.
Ha mai avuto la preoccupazione che Chris venisse giudicato negativamente per le scelte compiute?
In effetti, questi fatti sono stati interpretati in modo diverso, ma a me non importava chiarire le ragioni delle scelte di Chris, perché sapevo che lui non era mai stato interessato a cosa pensassero gli altri di lui: voleva solo essere onesto con se stesso. Non ho scritto in sua difesa, quindi, ma per correggere le interpretazioni dei fatti, perché c’era gente che doveva imparare qualcosa dalla sua storia e trarne degli insegnamenti.
È stata colpa mia se certe cose mancavano nel libro di Jon Krakauer, perché ero stata io a chiedergli di non scriverle e dovevo in qualche modo rimediare. So che i giovani non imparano tanto dalle prediche quanto dalla condivisione di una storia, e amano ascoltare ciò che io ho da dire in proposito. Da ogni libro scritto con uno scopo preciso il lettore impara qualcosa solo identificandosi col personaggio. In Nelle terre estreme Chris è stato descritto dal punto di vista di Jon, come un giovane maschio avventuroso, io invece ho provato a raccontarlo dal mio punto di vista più personale, come un essere umano e non come una leggenda letteraria: un figlio, un fratello, un ragazzo. I due libri insieme ne danno un’immagine più completa.
Non pensa che troppo spesso la storia di Chris venga interpretata solo come una ricerca sterile?
Questa storia parla di consapevolezza. C’è un cliché per cui sarebbe partito alla ricerca di se stesso, ma non è stato così. Chris era un po’ troppo sicuro di sé ma non aveva poi un grande ego. Sapeva chi era, cosa voleva e dove voleva arrivare, desiderava una vita normale e non aveva intenzione di ferire nessuno, ma solo allontanarsi dal dolore provocato dai nostri genitori. Se fosse stato un pochino più preparato, e non avesse mangiato quei frutti velenosi, sarebbe tornato senza dubbio indietro. La conclusione è triste, ma la sua vita non è stata una tragedia.
Vorrebbe cambiare qualcosa dei suoi errori oppure pensa che tutto ciò che ha fatto è servito per farla diventare la persona che è oggi?
Cambierei qualcosa se potessi avere ancora Chris con me, ma per il resto credo di aver imparato qualcosa anche dai miei errori, come i miei matrimoni falliti, che mi hanno comunque portato le mie figlie, e a loro non rinuncerei mai.
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