Intervista di Dave Eggers a David Foster Wallace
[Traduzione dell’intervista apparsa su «The Believer»]
DAVID FOSTER WALLACE
[SCRITTORE]
«Il mio piano per i prossimi quattordici mesi è bussare a delle porte e riempire buste. Magari anche indossare la spilletta di qualche partito. Fondermi con gli altri in una massa demograficamente significativa. Provarci da matti a mettere in pratica pazienza, educazione e creatività con coloro con cui mi trovo in disaccordo. Anche usare di più il filo interdentale.»
Elementi di una nuova frontiera di comunicazione lucida e pulita. Romanzieri che descrivono con enfasi dibattiti politici. Informatici svegli e competenti che sanno spiegare quello che stanno facendo in una maniera tale che tu stesso potresti riprodurlo. Una nuova parola per quei geni che possono parlare di cose al di fuori della propria area di competenza.
David Foster viene dall’Illinois centro-orientale, e qui risiede gran parte del suo fascino. In aggiunta, ha scritto un buon numero di libri. Tra di essi figurano la raccolta di racconti La ragazza con i capelli strani, Brevi interviste con uomini schifosi, e i romanzi La scopa del sistema e Infinite jest. C’è anche Una cosa divertente che non farò mai più, e raccolte di articoli e saggi. È giusto dire che Wallace si è dimostrato capace di gestire ogni argomento o genere scelto; la sua versatilità e attenzione per il dettaglio, del mondo fisico e anche delle varie sfumature delle sensazioni e del pensiero, l’hanno reso uno degli scrittori più influenti che gli Stati Uniti abbiano prodotto negli ultimi vent’anni. Dopo aver vissuto vent’anni a Bloomington, Illinois, e aver insegnato all’Illinois State University, diversa dall’University of Illinois di cui era stata una volta la rivale, Wallace accettò, nel 2001, un incarico come professore di scrittura creativa inglese al Pomona College, Sud California. Ottobre segna l’uscita di Tutto e di più. Storia compatta dell’infinto. Sotto c’è uno scambio di mail con Wallace, anche se non è proprio così. Le domande venivano spedite per e-mail a Wallace, che poi se le portava a casa, rispondeva sul suo computer, non connesso a internet, e dopo stampava queste risposte e le metteva nella cassetta della posta. Come potete vedere, quest’intervista avrebbe potuto, e forse dovuto, essere più lunga. Wallace e il suo intervistatore stavano viaggiando molto durante le settimane precedenti all’uscita di questo pezzo, e per questo abbiamo fatto del nostro meglio. Penso siano 6000 parole, suppergiù. È una buona lunghezza.
Dave Eggers
THE BELIEVER [BLVR]:Credo sia abbastanza adeguato iniziare chiedendoti cosa ti ha spinto a scrivere questo libro Tutto e di più. È stata una tua idea o la serie Great Discoveries [W-W. Norton] ti ha chiesto di rivolgerti a questo argomento? E, se puoi rispondere a questo, avevi menzionato al telefono di aver scritto Tutto e di più “due libri fa”, dando ad intendere che ci siano due libri finiti di David Wallace nel cassetto. Puoi parlarci di questi?
DAVID FOSTER WALLACE [DFW]: Te la faccio breve. Praticamente è la stesso programma di pubblicazione della Penguin Lives; stavano facendo una nuova collana in cui non-scienziati scrivevano di robe matematiche e scientifiche importanti, e mi hanno scovato in Texas (lunga storia) e mi sono saltati addosso, penso fosse l’estate del 2000. Avevo fatto una certa quantità di filosofia della matematica a scuola e avevo continuato a leggere roba (in maniera non sistematica) di quel campo come una sorta di hobby dilettantistico, perciò l’idea di fare dei saggi sulla matematica non era totalmente spiacevole. (Ci sono dati tristi e imprevisti riguardo a quanto male stesse andando altro lavoro nell’estate del 2000, e come fosse benvenuta l’idea di fare qualcos’altro per un po’, ma eviterò di parlare di questo). Avevo un ufficio all’Illinois State, giù nel corridoio vicino a un tipo che insegnava Scrittura Tecnica, e, leggendo del materiale delle sue lezioni e origliando le conferenze agli studenti, mi ero interessato a questo genere e alla retorica delle informazione tecniche. All’inizio penso che la gente della collana credeva avrei fatto Gödel e i teoremi dell’incompletezza, ma poi tutto si è mosso verso la teoria degli insiemi di Cantor perché avevo seguito una lezione in classe sulla teoria degli insiemi, e sinceramente pensavo di poter smontarla in quattro o cinque mesi. Tranne che, per tutta una serie di motivi che non trovano spazio in questa spiegazione breve, era venuto fuori che per presentare tutta la cosa in maniera interessante o inedita, bisognava provare a spiegare non solo la teoria degli insiemi di Cantor e come funzionava, ma anche da dove derivava esattamente. Data la natura transitoria della provenienza di tutte le cose, alla fine ciò significava risalire fino a Zeno e Aristotele e tracciare le metodologie per cui la matematica occidentale aveva provato e fallito nel trattare dell’infinito, a partire dall’antica Grecia fino a tutte le analisi del diciannovesimo secolo. Il che, te lo dico, ha fatto sì che mi servissero più di cinque mesi.
BLVR: Prima di approfondire l’infinito, torniamo indietro un secondo per parlare di dove questi libri si inseriscono tra la tua altra roba. Finora i tuoi libri sono tutti riconoscibili come tuoi, a prova di errore, d’altro canto non sei mai tornato sullo stesso territorio strutturale più di una volta. Hai scritto due romanzi, ma non sono molto simili, in termini di costruzione complessiva. Allo stesso modo, La ragazza con i capelli strani e Brevi interviste sono entrambi raccolte di racconti, ma sono così selvaggiamente diverse, e hanno una quantità minima e discutibile di DNA in comune. Hai scritto articoli, saggi, e adesso questo nuovo libro sull’infinito. Ma raramente sembri essere tornato a quelle forme che hai già esplorato. Per esempio, non ho più visto articoli tuoi dopo quel pezzo su John McCain (su «Rolling Stone»). Forse la domanda che ho da fare è questa: dopo aver esplorato una forma, come quella del racconto per esempio, raggiungi un punto in cui pensi di aver esaurito tutte le sue possibilità, e perciò senti sia meglio passare ad altro? Oppure stai testando tutte queste forme prima di dover inevitabilmente rivisitarle?
DFW: Ecco l’esempio di una domanda che è molto più profonda e interessante di quanto possa mai essere la mia risposta. So che il motivo non ha niente a che vedere con la sensazione che una forma sia stata esaurita. In realtà, non capisco molto bene quel concetto generale di forma e forme, e nemmeno i vari modi con cui forme e generi vengono distinti e classificati. E nemmeno me ne importa, sul serio. Il mio modus operandi di base è che tendo a iniziare e/o lavorare a un sacco di cose diverse allo stesso tempo, e a un certo punto esse prendono anche vita (per me), oppure no. Beh, più della metà di quelle cose non vede la luce, mi manca quella disciplina/forza d’animo per lavorare a lungo su qualcosa che è morto, perciò vengono abbandonate, o messe in una cassa, o spogliate di alcune parti per altre cose. è tutto piuttosto caotico, o almeno è così che mi sembra. Quello che qualcun altro vedrà di mio, tutti quei manoscritti sapientemente scritti, è il prodotto di una specie di lotta darwiniana in cui solo le cose che sono enfaticamente vive per me meritano di essere finite, corrette, editate, munite di diritti d’autore, ecc. (So che conosci questa routine, e quella spossatezza d’animo nel dover metterti faccia a faccia con la tua merda un sacco di volte per la pubblicazione). E può essere che per essere viva per me una cosa degna di un libro debba essere diversa, essere percepita come diversa, rispetto ad altre robe che ho fatto… Oppure, la mia vera risposta qui potrebbe essere: hey! Il nuovo libro di racconti non è poi così diverso, strutturalmente, dalla RCCS, o altre raccolte.
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BLVR: Hai di nuovo menzionato questo libro di racconti, ma non ne abbiamo ancora discusso. Vuoi parlarne? Io non ne so niente. Decidi tu.
DFW: Certo, parliamone. È un libro di storie. La più corta è di una pagina e mezza, e la più lunga ne ha 100 circa. Doveva uscire lo scorso primo gennaio, ma ero in ritardo di sei mesi. A meno che non avvenga qualche disastro editoriale, dovrebbe uscire la prossima primavera.
BLVR: Hai seguito John McCain per le elezioni del 2000 e l’articolo, che era così fresco, sincero, nudo e crudo, è stato trasformato in una specie di libro su richiesta. Stai dietro alla politica e, se sì, ci sono progetti di scrivere ancora pezzi di politica? E hai dei commenti da fare sul motivo per cui ci siano così pochi giovani scrittori in giro che si esprimano apertamente su questo mondo? Gli scrittori dovrebbero proporre le proprie opinioni riguardo gli affari nazionali, la politica, le nostre guerre attuali e future?
DFW: La ragione per cui scrivere di politica è così difficile, è probabilmente anche la ragione per cui la giovane (posso ancora essere incluso in questo genere di predicato nominale?) letteratura dovrebbe occuparsene. Nel 2003, la retorica del fare impresa è tutta a puttane. Il 95% dei commenti politici, sia scritti che orali, è al momento inquinato da quello che si crede dovrebbe essere considerato politica. Il significato è diventato totalmente ideologico e riduttivo: lo scrittore/oratore ha certe convinzioni o affiliazioni politiche, e procede col filtrare tutta la realtà e far girare tutte le proprie affermazioni secondo queste convenzioni e legami. Tutti sono incazzati, esasperati e indifferenti al dibattito da un altro punto di vista. Per opporsi a opinioni che non sono solo scorrette ma spregevoli, corrotte, malvagie. I conservatori hanno una atteggiamento di questo tipo più spavaldo: Limbaugh, Hannity, quell’orrendo O’Reilly, Coulter, Kristol, ecc. Ma anche la sinistra è stata infettata. Hai letto quel nuovo libro di Al Franken? Alcune parti sono divertenti, ma in genere è così astioso (del tipo, come potrebbero reagire gli esperti di destra ai violenti attacchi di Franken se non con ancora più rabbia e veleno?). O dai un’occhiata anche agli ultimi articoli di Lepham su «Harper», o la maggior parte della roba su «Nation», perfino «Rolling Stone». È tutto diventato come Zinn o Chomsky, ma senza quell’immenso corpo di dati concreti a sostegno dei loro sermoni. Non ci sono più dibattiti (o “dialoghi”) complessi, caotici, estesi a un’intera comunità; si tratta adesso di discorsi politici fatti in maniera stereotipata in cui si predica al proprio coretto e si demonizza l’opposizione. Tutto è inesorabilmente bianco o nero. Siccome la verità è molto, molto, più “grigia” e complicata di quanto un’ideologia possa comprendere, tutta la situazione mi sembra non soltanto stupida, ma stupefacente. Guardare O’Reilly contro Franken è come guardare sport violento. Come potrebbe tutto questo aiutare me, il cittadino medio, a riflettere su scegliere chi debba decidere sulla politica macroeconomica del mio Paese, o anche solo per farmi capire a linee generali questa stessa politica, o su come ridurre le possibilità che il Nord Corea butti una bomba atomica sulla linea delimitarizzata e ci tiri dentro una straziante guerra all’estero. O su come fare per bilanciare la sicurezza nazionale con le libertà singole dell’individuo. Questioni come queste sono enormemente complicate, e buona parte di questa complessità non è affatto sexy e, beh, adesso il 90% dei discorsi politici è complice di quella sexy e semplicistica illusione secondo cui una parte è Unica e Giusta e l’altra Sbagliata e Pericolosa. Sicuramente è un’illusione piacevole, così come lo è credere che ogni persona con cui si è in conflitto è stronza, ma non conduce per niente a un pensiero concreto, a un dare e ricevere, al compromesso, o alla capacità che gli adulti hanno di funzionare in qualche maniera come una comunità. Il mio pensiero, forse un po’ utopico, è che siccome di solito gli scrittori di romanzi o di letteratura in genere sono persone con un particolare interesse per l’empatia, per provare a immaginare come sia essere l’altra persona, allora potrebbero giocare un ruolo utile all’interno di una dialettica politica problematica come la nostra. Se questo discorso non sussiste, forse dovremmo almeno elevare quei giornalisti politici di professione per farli diventare (1) educati, (2) desiderosi di prendere in considerazione la possibilità che delle persone intelligenti, ben intenzionate, possano essere in disaccordo con loro, e (3) capaci di tollerare che alcuni problemi vanno semplicemente al di là di quello che un’ideologia può rappresentare in modo accurato. Implicitamente in questa mia risposta, così breve e stridula, c’è l’idea che scrivere di politica dovrebbe essere platonicamente disinteressato, elevarsi al di sopra della massa, ecc.; e nella mia personale situazione questo è impossibile (e quindi sono un ipocrita, potrebbe dire un oppositore ideologico). Scrivendo l’articolo su John McCain che hai citato, ho visto delle cose (più precisamente: credo di aver visto delle cose) sul nostro presidente attuale, sulla sua cerchia, sulle primarie che hanno fatto, che hanno suscitato in me reazioni le quali hanno reso impossibile che mi elevassi al di sopra della massa. Io sono, al momento, un partigiano. Ancora peggio: provo una tale antipatia viscerale e profonda che sembra io non riesca a pensare, parlare o scrivere in maniera equilibrata e dettagliata sulla presente amministrazione. Per dirla in modo educato, credo che questa sia una condizione interiore pericolosa. Quando qualcuno si sente più forte, mosso a livello personale, allora più è tentato di dire la sua (“dire la sua” è l’attuale locuzione verbale per “fare una scelta”, così carica di retorica com’è). Ma è anche quando si è meno efficaci, o almeno così a me sembra. Ci sono un sacco di scrittori e giornalisti che “dicono la propria”, e scrivono di oligarchia, neofascismo e falsità e cecità terrificanti riguardo a quello che definiscono “sicurezza nazionale” e “interesse nazionale” ecc. Pochissimi di questi scrittori mi sembrano generare articoli utili o energici, o essere veramente persuasivi verso chi non condivida già le loro opinioni. Il mio piano per i prossimi 14 mesi è bussare a delle porte e riempire buste. Magari anche indossare la spilletta di qualche partito. Fondermi con gli altri in una massa demograficamente significativa. Provarci da matti per mettere in pratica pazienza, educazione e creatività con coloro con cui mi trovo in disaccordo. Anche usare di più il filo interdentale.
BLVR: Forse c’è un flusso armonioso nel tuo modo di lavorare, che credo cominci ad affascinarmi. Se vuoi parlare di come, quanto spesso, e dove scrivi, credo che la gente ne sarebbe interessata.
DFW: Forse potresti parlare brevemente tu per primo del tuo modo di lavorare. Perché? (a) Così la gente sarebbe interessata tanto a me quanto a te. (b) Perché hai sempre così tante cose in cantiere, a livello di scrittura e gestione. (c) Così avrei un’idea migliore di quello che intendi per “modo di lavorare”.
BLVR: Proprio adesso sto scrivendo in una piccola biblioteca fuori San Francisco, in un banco di lettura sprofondato tra scaffali di romanzi. Cambio le mie abitudini più o meno ogni quattro mesi, quando il mio bisogno fisiologico di distrarmi soppraffà qualsivoglia strategia abitudinaria messa in atto per consentirmi di lavorare senza distrazioni. Questa è la mia nuova abitudine, iniziata la settimana scorsa, e finora funziona. Dopo aver scritto a casa, in camera di mio fratello, per sei mesi, adesso vengo qui. Ho una piccola scrivania all’826 Valencia, ma non posso veramente scrivere lì, è in mezzo all’ufficio, e serve per insegnare, per parlare allo staff, ai volontari, per incontrare la gente ecc., e siccome succedono un sacco di cose al McSwys/826 diventa difficile, sono sicuro, per chiunque insegni, ritagliarsi una quantità di tempo ininterrotta di cui si ha bisogno se si vuole fare scrittura di qualità. Ho insegnato (ai liceali) ieri sera fino alle 9.30 e dovevo insegnare stamattina (a studenti di quinta elementare) alle 10 e ho dovuto affidare l’escursione didattica di oggi a un altro insegnante di McSwys/826, perché devo insegnare di nuovo stasera e mi sentivo troppo sotto pressione, dato che ho anche quattro scadenze questa settimana. Ma sono una mezza sega. Sono sicuro che ci sono un sacco di scrittori che insegnano molto più di me. Ma credo che, come un sacco di altri scrittori, ho bisogno di isolarmi al punto di non poter usare il telefono, o le e-mail, o il tagliaerba, o la bici, anche se ne avessi bisogno. Occorre prendere le distanze dalle distrazioni. Comunque, mi ricordo che una volta hai risposto al telefono dicendo non «Pronto» ma «Distraimi», il che mi ha colpito in quanto era la maniera più onesta di esprimere tutta la faccenda, che quando tiri su il telefono abbandoni l’apnea di quella concentrazione dedicata alla buona scrittura. Hai anche detto che lavori a diverse cose contemporaneamente. Puoi dirci come trovi il tempo di cui hai bisogno, se scrivi di notte o di giorno, quotidianamente o tutto in una volta, lavori col PC/portatile/Commodore 64, ogni quanto insegni, ecc.
DFW: Non sono ancora sicuro di avere molto da dire a proposito. Sono sicuro che non lavoro mai in tutto ciò che viene definito ufficio, ad esempio l’ufficio nelle scuola lo uso solo per incontrare gli studenti e per mettere via libri che so di non leggere nell’immediato futuro. Una volta di solito lavoravo nei ristoranti, ma masticare tabacco me li ha resi impraticabili in modi che non sono difficili da immaginare. Perciò per un po’ ho lavorato soprattutto nelle biblioteche. Per “lavorare” intendo fare un po’ di bozze e revisioni, che scrivo a mano. Le ho sempre battute a macchina a casa, ma non ho mai considerato quest’operazione come “lavorare”, veramente. Comunque, dopo ho iniziato a tenere dei cani. Se vivi da solo e tieni dei cani, le cose diventano strane. So di non essere l’unica persona che proietta delle distorte nevrosi genitoriali sui propri animali domestici, o amici animali, o roba del genere. Io la prendo piuttosto male: questo fa ridere i miei amici. All’inizio, ho iniziato ad avvertire la forte sensazione che sarebbe stato traumatico lasciarli da soli per più di un paio d’ore. Non è così psicolabile come potrebbe sembrare, perché sono sempre finito con l’avere cani che avevano avuto, per così dire, un’infanzia piuttosto difficile, tra cui un proprietario che era andato in galera… ma non c’entra molto. Il punto è che ero riluttante a lasciarli incustoditi a lungo, quindi dopo un po’ ho avuto bisogno di uno o più cani attorno a me per sentirmi abbastanza a mio agio come se stessi lavorando. E questo mi ha chiuso verso l’atto di scrivere fuori di casa, un cambiamento che guardando indietro non mi ha fatto bene perché (a) ho delle tendenze agorafobiche, e (b) una casa è ovviamente colma di tutti quei tipi di distrazioni che i banchi della biblioteca non hanno. Il punto è che lavoro per la maggior parte a casa adesso, anche se so che lavorerei meglio, più velocemente, più concentrato, se andassi da qualche altra parte. Se il lavoro sta andando di merda, cerco di assicurarmi almeno un paio d’ore al mattino per questa cosa di disciplina chiamata “Lavoro”. Se sta andando bene, spesso lavoro in aggiunta nel pomeriggio, anche se ovviamente se sta andando bene non si percepisce quel senso di disciplina, come un Lavoro con la l maiuscola, perché è quello che vorrei fare in ogni caso. Quello che capita spesso è che se il lavoro sta andando bene tutte le mie abitudini e la disciplina vanno fuori dalla finestra semplicemente perché non ho bisogno di loro. Poi, quando comincia ad andare male, mi agito in giro cercando di ricostruire discipline da rispettare e abitudini da seguire. Questo è una parte di quello che intendevo quando ho detto che il mio modo di creare sembra caotico, almeno confrontato al processo creativo di altre persone che conosco (tra cui adesso ci sei tu).
BLVR: Lo hai detto meglio di come l’ho detto io. Devo dire che è lo stesso per me, le abitudini servono quando si è meno ispirati o, nel mio caso, quando sto cercando di fare le ultime parti di qualcosa, che sono sempre le più toste. Ma siccome hai citato il tabacco nella tua risposta, ti volevo fare una domanda. La prima volta che ti ho incontrato, a New York circa cinque anni fa, stavi traendo piacere dal masticare del tabacco seduto in un ristorante, cioè avevi una tazzina proprio sotto il tavolo, in cui depositavi gli sputi a intervalli regolari. Ti va di parlare della tua storia con le svariate forme di tabacco?
DFW: Per prima cosa confessiamo che in realtà questa domanda precedeva quest’ultima, e che hai inserito un’astuta frasetta connettiva nel testo della domanda per suggerire altrimenti. So che ti interessi di tabacco, e del nascosto suicidio graduale che il suo uso abituale comporta. La mia condizione non è così diversa da quella di Tom Bissell, che ha scritto un articolo sul masticare tabacco in «Tumescent Male Monthly», o qualcosa l’anno scorso, con cui mi sono trovato d’accordo su molti aspetti. Ho iniziato a fumare a ventitré anni, dopo essermi cimentato un po’ per due anni con le sigarette aromatizzate (che erano di moda all’inizio degli anni Ottanta). Mi piacevano le sigarette, un sacco, ma non mi piaceva quanto fortemente agivano sui polmoni e sul fiato, in termini di sport, salire le scale, coito, ecc. Alcuni dei miei amici che lavoravano sui tetti del mio paese mi fecero iniziare a masticare tabacco, credo all’età di ventotto anni. Masticare non fa male ai polmoni (ovviamente), ma ha un’enorme, enorme, quantità di nicotina, almeno confrontato con le Marlboro Lights. (anche questo è abbastanza sintetizzato e ridotto all’osso; scusa se è laconico) Ho provato forse dieci volte seriamente a smettere di masticare tabacco nell’ultima decade. Non ci sono mai riuscito nemmeno per un anno. Al di là di tutte le ricadute psichiche ben documentate, la cosa più difficile per me nello smettere di masticare tabacco, è che mi rende stupido. Molto stupido. Come del tipo entrare in una stanza e dimenticarmi perché sono lì, perdermi nel bel mezzo di una frase, sentire del fresco sul mento e scoprire che mi stavo sbavando addosso. Senza masticare, ho il margine di attenzione di un lattante. Sghignazzo e tiro su con il naso in maniere inappropriate. E tutto sembra molto, molto lontano. Essenzialmente, è come essere sempre sgradevolmente sballato… e per quanto posso dire, non è un sintomo temporaneo da astinenza. Ho smesso per 11 mesi una volta, e sono stato così tutto il tempo. D’altro canto, masticare tabacco ti uccide, o comunque dopo un po’ ti fanno male i denti, assumono colori spiacevoli e in ultima cadono. In aggiunta, è disgustoso, e stupido, e causa di autocommiserazione. Quindi, una volta ancora, ho smesso. Fino adesso fanno circa tre mesi. In questo momento ho in bocca una gomma, una mentina, e tre stuzzicadenti fatti con l’albero del tè australiano in cui un amico della religione Wicca crede ciecamente. Una delle ragioni per cui io e te stiamo dialogando via carta stampata invece che in tempo reale è che ho avuto bisogno di venti minuti per formulare e comporre in modo appropriato le giuste combinazioni di tastiera per il precedente paragrafo. In realtà parlare con me sarebbe come fare visita a un demente in una casa di cura. Non solo mi perdo in una frase, ma inizio a canticchiare, senza una precisa melodia, senza rendermi conto. Inoltre, per tua informazione, la mia palpebra sinistra ha iniziato a sbattere anormalmente dal 18 agosto. Non è bello. Ma preferisco vivere oltre i cinquant’anni. Questa è la mia storia con il tabacco.
BLVR: Un altro passaggio armonioso riguardo i cervelli (dico questo mentre incollo insieme l’intervista, che in realtà non è stata condotta in nessuna maniera simile a come viene adesso presentata. Ma continuo a trovare questi passaggi, e volevo condividere la mia contentezza con te, lettore del «BLVR»). Alludi in Tutto e di più al fatto che i matematici hanno assunto una specie di ruolo sexy nella mitologia popolare, con esempi di A beautiful mind tra gli altri, contribuendo ad affidar loro un posto in cui , secondo la saggezza popolare, potrebbero soppiantare gli artisti come presunti vittime di una sindrome da “genio pazzo”. L’idea è che spingono i limiti del proprio lavoro così al di là, che la vita normale, e alla fine la loro salute, cade a pezzi. Per prima cosa, potresti dare un tuo commento su questo presupposto secondo cui per raggiungere, ad esempio, la grandezza nella matematica occorra sacrificare la propria salute? (mi rendo conto che è un’argomentazione fittizia). Secondo, la citazione di G.K. Chesterton che riporti: «I poeti non diventano matti, i giocatori di scacchi invece si…» fa da eco a quello che il mio professore di Evoluzione diceva all’Università dell’Illinois (dove insegnava tuo padre). Parlava di qualcosa chiamato involucro omeostatico. Genericamente definito (credo) come i limiti dell’esperienza normale del singolo. Per rappresentare il transito dalla gioia alla depressione, ha disegnato un lungo rettangolo e ci ha messo dentro una linea a zig zag, stile macchina della verità, e l’idea era che l’uomo sta all’interno di quest’involucro, evitando le linee più estreme verso l’eccessiva gioia o tristezza. Comunque, il punto a cui era arrivato, era che gli artisti tendono a stare più dentro a quest’involucro a causa, credo lui intendesse, di tutti gli sfoghi e sollievi nelle loro opere, mentre tutti i cassieri del mondo non poterebbero averli. (oh amico, mi chiedo se tutto questo abbia un senso!). Credo che vorrei chiederti se potessi commentare direttamente la citazione di Chesterton, e anche la percezione distorta della salute mentale di Cantor, o relativa mancanza, e possibilmente se potessi raccontare i tuoi viaggi mentali con le tue opere. Dico ai miei studenti che dovrebbero provare a scrivere un romanzo a un certo punto della vita, dato che la loro mente si espanderà in maniera così irrevocabile durante il processo. Visto che hai scritto un romanzo da 1100 pagine e adesso Tutto e di più, puoi parlarci della tua personale espansione/scoperta/incursione nella “pazzia” temporanea?
DFW: Beh, mmm… Credo che quello che farò sarà indicare esattamente i contesti in cui questa cosa di genio e pazzia viene menzionata nel mio libro. Sarebbe troppo specifico fornire quel tipo di risposta che la tua domanda sembra incitare. La vera risposta è troppo pesante da venire messa giù così genericamente in questo tipo di situazione, anche se ne ho gli strumenti (sospetto che in una discussione generale quello che farei sarebbe spruzzare in giro un po’ di prolissità per finire col dire che nessuno mai è riuscito a dire qualcosa di meglio rispetto alle robe di Nietzsche sull’interazione tra Apollo vs Dioniso come modo di concepire sia la storia del genio contro la pazzia, sia il fascino che l’Occidente ne ha subito). Ci sono due motivi per cui ho menzionato questa storia di genio e pazzia all’inizio di Tutto e di più. Il primo è quello di presentare l’idea dell’astrazione sia come un elemento matematico sia come uno dei motori delle nevrosi, e quest’introduzione rende possibile tutta quella lunga tirata del primo paragrafo su cos’è l’astrazione e sul perché è così importante parlare di matematica. Non rammento se sia stata tagliata durante una delle miriadi delle varie rielaborazioni, o vari casini editoriali, ma a un certo punto c’era un pezzetto breve, 100% vero, del tipo nel paragrafo 5, su come il simbolismo matematico possa spaventare la maggior parte della gente, non perché sia difficile da capire in sé (non lo è per niente), ma perché si tratta di una compressione perfettamente astratta di massicce dosi di informazioni. Comunque… l’altro motivo richiede un po’ di tatto da parte mia. Così succede che proprio mentre iniziava la lavorazione di Tutto e di più, uscì un certo libro, una biografia commerciale di Cantor da parte di un certo autore che non nominerò, tranne per quanto riguarda le sue iniziali, le stesse di una nota compagnia aerea. Per un editore il cui nome suona come la descrizione che un autista potrebbe fare di una stanza. Questo libro innominabile sosteneva due tesi principali sul lavoro di Cantor sull’infinito: una sul suo legame intimo con il giudaismo mistico e la metafisica della Cabala, l’altra sul fatto che l’infinito era un concetto matematico talmente strabiliante che l’affrontarlo aveva fatto impazzire Cantor, e sui sintomi di questa pazzia, i ricoveri, ecc. ci si sofferma in seguito, descrivendoli in dettaglio e soffermandosi ulteriormente fornendo aneddoti e foto. La storia della Cabala era abbastanza interessante, anche se non sussisteva un’argomentazione sufficiente per le connessioni che il libro asseriva. Ma la storia dell’infinito che fa impazzire Cantor era spazzatura, il peggior tipo di ricorso a una versione pop, flaccida e sconsiderata, di quella che adesso si chiama la “sindrome del genio pazzo”. L’origine, il motivo e il contesto di tutti i risultati di Cantor vengono trattati in maniera poco seria in questo libro innominabile, perché penso che praticamente Iniziali di compagnia aerea e/o Descrizione autistica della stanza avevano la sensazione che la matematica fosse troppo noiosa per il pubblico di massa. Quello che di matematico c’è in questo libro è stato tirato a lustro facendo sembrare l’infinito come un territorio proibito trascendentale in cui Cantor ha perso la testa nel tentativo di percorrerlo. Mentre i fatti sono che non era per niente certo che Cantor fosse bipolare. Le sue insicurezze professionali, assieme ai suoi calvari, aggravarono la malattia ma non ne furono la causa, e tutti i peggior episodi della sua vita e i vari ricoveri capitarono quando era più vecchio, e i suoi lavori migliori erano un bel pezzo alle spalle, ecc. ecc. Si parla un po’ di tutta questa verità per niente sexy in Tutto e di più. Ma la cosa più irritante di questo libro innominabile è l’apparente idea dell’autore/editore che le teorie di Cantor non fossero abbastanza belle, o accessibili, o importanti di per sé da generare un libro di interesse collettivo (come invece queste teorie potrebbero), e così la matematica dell’infinito doveva essere riscritta come una specie di arca perduta intellettuale da far sciogliere la faccia di Cantor quando ci guardava dentro. Spero di aver ancora tatto. La verità è che questo libro innominabile mi ha veramente rotto: è riuscito in un sol colpo a insultare Cantor e il suo lavoro, il lettore, e la possibilità di scrivere in maniera onesta di cose tecniche per il pubblico. Comunque, per quel poco che Tutto e di più si rifà alla storia del genio pazzo, tutti quei riferimenti devono essere intesi come dirette, enfatiche repliche a quel libro non identificabile.
BLVR: Secondo una delle persone più interessate di scienza qui al «Believer», c’è un’ondata di nuovi libri di matematica “pop”. Quali pensi siano utili? Ti piacciono Flatland, Gödel, Escher, Bach? Penso che hai detto di apprezzare L’apologia di un matematico…
DFW: Ovviamente dipende da quello che intendi come “pop”. L’Apologia di Hardy è “pop” nel senso di essere totalmente accessibile a chiunque con un vocabolario da scuola superiore, ma non è “pop” nel senso che solo quelle persone provviste di abbastanza conoscenze matematiche da poter atteggiarsi come brillanti tromboni dal sangue blu sulla psicologia e l’estetica della matematica pura si possono interessare all’argomento del libro. Quindi, mmm…Gödel, Escher, Bach è un gran libro, ma è difficile: personalmente penso che Hofstadter non spiega abbastanza dei concetti base per infondere vita ai suoi incisi e dialoghi per quelle persone che non hanno fatto tanta logica e teorema della ricorsione all’università. (in realtà, ho sostenuto con eccitazione questo libro con quella gente che negli anni Ottanta pensava fosse una menata; è saltato fuori che non avevano la preparazione necessaria). E così via. Il tuo tipo di scienza dovrebbe chiedermi libro per libro, più o meno. In genere, le cose che vendono bene, sono una merda, come quelle di Aczel. In realtà, la maggior parte della roba tecnica “pop” della Four Walls Eight Windows fa schifo. Sono bravi solo a promuovere molto bene le loro schifezze. Ma non tutta la roba delle grandi case editrici è male. Il libro di Seife sullo zero nei Vichinghi, uscito un po’ di anni fa, era buono, sebbene fosse dannatamente accessibile. In genere, penso che tutto il genere “pop” matematico sia confuso e confonda, perché nessuno è totalmente certo su chi sarà il suo pubblico, su come mettere in risalto l’argomento di discussione.
BLVR: Ecco una grossa domanda, di quel tipo che genera vaste implicazioni, da parte di Gideon, un nostro revisore di testi e assistente editor. Hai notato che in tutta la storia della matematica (e, per esteso, nella storia matematico-filosofica, o filo-matematica, o roba del genere) si considerava il concetto dell’infinito non solamente elusivo, confuso, e contraddittorio, in termini di varie tassonomie matematiche, ma addirittura totalmente pericoloso? La cosa più vicina al concetto che gli antichi greci avevano dell’infinito era essenzialmente l’idea della confusione totale, del caotico disordine dionisiaco. Quindi, l’infinito metteva in discussione le loro idee rigorosamente sostenute della legge della logica, dell’ordine, ecc. I cristiani e gli scolastici temevano l’infinito in matematica perché sfidava in qualche modo l’onnipotenza e l’unicità di dio, solo ed unico. Ma dopo, quando facciamo alla fine un tentativo realizzabile, interessante, coraggioso per capire e definire il concetto dell’infinito, nella seconda metà del XIX secolo, il risultato è un concetto affascinante, perspicace, e rivoluzionario sul piano matematico, un risultato tremendamente poetico ma, per quanto possa dirne io, non ha avuto una grande rilevanza al di fuori del mondo circoscritto dei matematici, e non è stato davvero pericoloso, o almeno se è stato rilevante e/o pericoloso, non si approfondiscono quelle tematiche extra-matematiche che invece lo sono state. C’è qualcosa da dire su questi argomenti? Esistono interessanti implicazioni extra-matematiche sull’infinito riguardo a Cantor e le sue scoperte?
DFW: Forse la maniera più rapida ed efficace per rispondere è dire che questa domanda conduce dolcemente all’intera questione del motivo per cui i libri “pop” tecnici potrebbero avere una specie di utilità speciale nella cultura odierna. La grande differenza è che le cose vengono molto più divise per categorie adesso che, diciamo, nel Rinascimento. E più specializzate e cariche di un contesto speciale. Non ci aspetteremo per niente che un matematico all’avanguardia di prima classe sia anche un filosofo all’avanguardia di prima classe, un teologo., ecc. Non era così per i Greci, forse solo perché filosofia, matematica e teologia non erano distinguibili con coerenza. Lo stesso per i neoplatonici e gli scolastici, ecc. ecc. (questa è una risposta molto molto semplice, forse il massimo del semplicismo) Quando Cantor è intervenuto sull’infinito nel 1870, esso faceva parte di una disciplina tecnica estremamente specializzata, per la quale occorrevano decadi per poterne avere la padronanza e compiere dei lavori d’avanguardia. Per Cantor e R. Dedekind (e adesso condenso tutto questo dritto dal libro (così com’è condensata la domanda)) la matematica dell’infinto deriva dal metodo per risolvere certe questioni spinose dell’analisi post-calculus (cioè rispettivamente l’espansione delle funzioni trigonometriche e la rigorosa definizione dei numeri irrazionali), i cui problemi derivano dalle soluzioni di K. Weierstrass a certi problemi precedenti, e così via. È tutto così astratto e specialistico, che alla fine molte parti di Tutto e di più le dedico a disfare questi problemi in maniera abbastanza chiara così che il lettore medio possa farsi un’idea più o meno realistica a proposito dell’origine della teoria degli insiemi e della localizzazione della linea dei numeri reali, matematicamente parlando. Il punto vero credo abbia a che fare con tutt’altra cosa che viene menzionata solo di sfuggita nella versione finale del libro. Oggi viviamo in un mondo dove la maggior parte degli sviluppi in tutto, dalla matematica alla fisica, dall’astronomia per finire alle politiche pubbliche, alla psicologia, e alla musica classica, sono talmente astratti, tecnicamente complessi e così dipendenti dal proprio ambito, che è quasi impossibile per il cittadino medio sentire che essi (gli sviluppi) possano avere qualche importanza nella sua vita vera. Anche persone specializzate in due ambiti simili fanno fatica a comunicare tra di loro poiché la loro specializzazione richiede formazione e conoscenze talmente specifiche. E così via. Il che rappresenta une delle ragioni per cui la letteratura “pop” tecnica potrebbe avere un valore (al di là del normale valore monetario all’interno del mercato del libro) in quanto parte di una frontiera più ampia di una forma di comunicazione tecnica non sussiegosa. Potrebbe essere che uno dei problemi più significativi della cultura odierna riguardi il trovare dei metodi con cui le persone istruite possano comunicare tra di loro in maniera proficua, attraverso le differenze tra specializzazioni agli estremi. Potrebbe sembrare un po’ melenso, ma credo che ci sia un po’ di verità. E non riguarda solo il chimico polimero che parla con lo studioso di semiotica, ma gente con una specifica specializzazione capace di parlare efficacemente a noi, intendo dire noi poveri cretini. Esempi pratici: pensa che emozione trovare un tecnico informatico, intelligente e competente, in grado di spiegarti anche quello che sta facendo in un modo che ti fa capire che problema ha avuto il tuo computer, e come potresti addirittura aggiustartelo da solo se il problema si ripresentasse. O un oncologo che possa comunicare, con chiarezza e umanità, a te e a tua moglie, i trattamenti contro la sua neoplasia al secondo stadio, come funzionano i due diversi trattamenti, e quali siano esattamente i vantaggi e gli svantaggi di ognuno. Se sei uno come me praticamente ti lasci cadere a terra e gli abbracci le caviglie, quando trovi uno specialista così. Al momento, sono rari. Hanno un tipo particolare di genio, che non appartiene a un ambito di specializzazione come viene normalmente definito ed insegnato. Non esiste nemmeno un’unica parola adatta per questo tipo di genio, il che potrebbe voler dire qualcosa. Forse dovrebbe esserci una parola; forse dovrebbero insegnare, parlare di come si possa comunicare con le persone al di fuori della propria specializzazione, e questo dovrebbe essere considerato un requisito per possedere una vera specializzazione… comunque questa è roba che la tua domanda ha affrontato un pezzetto alla volta, ed è molto interessante.
BLVR: Noto proprio adesso che non siamo arrivati a parlare molto della tua attività di insegnante. Ho incontrato un po’ di studenti che hanno frequentato la Pomona soprattutto perché tu ci insegnavi. Come si chiama il tuo corso? Cosa c’è nella tua lista di letture? Usi il gessetto o i pennarelli cancellabili?
DFW: Questa domanda contiene anche quello di cui parlavo quando mi riferivo a persone che comunicano tra loro attraverso le varie specializzazioni. È la base di come diventare anche degli insegnanti migliori, ma non sono sicuro di aver detto proprio questo. Insegnare è diverso, credo, visto che gli studenti sono lì volontariamente, e sono per definizione giovani, instabili, privi ancora di nozioni specialistiche. Comunque, so che non stai chiedendo questo. Stare alla Pomona è come se avessi vinto alla lotteria: i miei doveri formali sono lievi, tutti gli studenti hanno ottenuto punteggi migliori del mio al test d’ingresso, e faccio più o meno quello che voglio. Sto facendo Introduzione alla Narrativa adesso, ed è divertente perché prendi questi ragazzini che hanno fatto un sacco di critica letteraria e hanno scritto un sacco di relazioni, e mostri loro che c’è un modo diametralmente opposto di leggere e scrivere. E ci vorrebbe un sacco di tempo per parlarne, ma per la maggior parte è divertente, e adesso che non mi fermo e sputo catarro in un barattolo di caffè ogni due minuti, la mia credibilità con loro se ne è andata da un pezzo; e a meno che non faccia qualcosa di veramente eccezionale, penso resterò lì quanto mi pare.
[n.d.t.] David Foster Wallace afferma nell’intervista di aver dovuto interrompere a malincuore la sua abitudine di masticare tabacco perché “preferisco vivere dopo i cinquanta”. Ciononostante, smentisce questo proposito togliendosi la vita a quarantasei anni, in seguito all’abbandono volontario di antidepressivi, nell’estate del 2008.
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