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Intervista ad Anilda Ibrahimi

Intervista ad Anilda IbrahimiAnilda Ibrahimi fa parte della nuova generazione di “scrittori migranti”, ovvero di quel folto gruppo di autori stranieri che vive in Italia e produce narrativa – spesso – di buona qualità. L’esempio più noto al grande pubblico di questa schiera è Nicolai Lilin, autore di “Educazione Siberiana” (Einaudi), romanzo tradotto per il grande schermo da Gabriele Salvatores, protagonista John Malkovich, proprio in queste settimane nelle sale italiane. Ma Lilin è solo la punta di un fenomeno, in un’Italia sempre più multietnica. Annoverata in questa categoria troviamo Ibrahimi, albanese, che vive in Italia dal 1997.

Ha pubblicato in italiano tre romanzi editi da Einaudi, “Rosso come una sposa” (2009), “L'amore e gli stracci del tempo” (2011), di cui sono stati opzionati i diritti cinematografici, e “Non c'è dolcezza” (2012). Rifiuta con fermezza questa “etichetta” che sembra marginalizzare gli autori ai confini del panorama letterario nazionale. “Vivo la mia quotidianità nella lingua italiana – afferma – che è la lingua dei miei tre figli, per questo mi riesce spontaneo esprimermi in italiano anche – e forse soprattutto – nella stesura dei miei romanzi. Anzi, l’italiano mi ha salvato dalla retorica della madrelingua perché sono riuscita ad asciugare il tempo epico che per me rappresenta l’Albania. Per questo non mi sento una scrittrice migrante”. La sua prosa è asciutta, coinvolgente, appassionante e ci catapulta nell’Albania della sua infanzia.

Pur non rappresentando una vera e propria trilogia, i suoi romanzi hanno diverse cose in comune: ad esempio un certo senso di fatalità dei personaggi e un sapore epico nelle atmosfere evocate, quando descrive il suo paese ai tempi della dittatura, prima del crollo del Muro di Berlino e del regime di Enver Hoxha. Qualcosa che richiama, da lontano, Isabel Allende…

Non credo di avere qualcosa in comune con la Allende, anche se in molti hanno visto nei miei romanzi qualche elemento simile. Siamo due scrittrici forti, volitive, ma io ho seguito il mio percorso, il mio vissuto. Quel sapore epico che contraddistingue i miei romanzi è dovuto alla nostalgia struggente che ho dell’Albania, non del regime certamente, né di ciò che rappresentava, ma delle relazioni interpersonali che c’erano a quei tempi. Erano più umane, più ispirate alla solidarietà, quasi più vere, rispetto al presente. Per quanto riguarda il fatalismo, beh, è tipico del mondo balcanico. Anche io lo sono. Tutti i personaggi concepiscono la vita in questo modo, adeguandosi a ciò che succede, e, dunque, subendo un destino anche tragico.

Intervista ad Anilda IbrahimiCon “Non c’è dolcezza” torna alle atmosfere degli esordi, anche se cambia passo rispetto a “Rosso come una sposa”. Ci spiega la scelta di questo titolo?

Durante la stesura del romanzo – la prima senza collocazione temporale, e la seconda nella quale sono passata a circoscrivere gli eventi e a dare un taglio preciso – ero sempre in contatto con l’editor di Einaudi che stava pensando a un titolo. Una sera, al telefono, mi chiese: “Mi descrivi il senso di questa storia?” e io risposi che era un romanzo in cui non c’era dolcezza per le due protagoniste. Entrambe soffrivano, anche se per ragioni diverse. “Non c’è dolcezza, ecco il titolo!” fu la risposta dell’editor ed io fui contenta perché si adattava alla perfezione.

Diversi sono i temi che si intrecciano nel romanzo, dall’amicizia di Lila ed Eleni, le due protagoniste, alla maternità negata della seconda, dai legami di sangue all’infrangibilità dell’onore della “besa”, la parola data, dall’individualismo alla coralità, nei quali il lettore riconosce un valore di universalità. C’è qualcosa che prevale sugli altri o cui tiene maggiormente?

Con questo terzo romanzo sono tornata alle origini, da dove sono partita. Anche questo è ambientato nel passato, chissà se scriverò un libro legato al presente, ma volevo tornare, come accennavo prima, alle relazioni umane ai tempi del regime e alle atmosfere ancestrali che ho avuto modo di respirare e di conoscere da vicino. Anche se non è un romanzo autobiografico, è inevitabile trasferire ciò che appartiene al tuo retaggio culturale e umano. Qui mi interessava approfondire l’aspetto del cambiamento, sia a livello individuale che sociale. Eleni adotta il bambino di Lila, ad esempio, e l’adozione era una grossa novità, una rivoluzione nella scala dei valori della famiglia, la rottura con il vecchio mondo. Così come l’avvento di una nuova era, con la caduta del regime, ha mutato gli stili di vita e tutti nel piccolo paese hanno iniziato a chiudere le porte. Abbiamo ricevuto la modernità, il progresso, la ricchezza, ma abbiamo perso la vicinanza al prossimo, la solidarietà, la dimensione della vita comunitaria.

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