Intervista a Wu Ming: la rivoluzione secondo “L’Armata dei Sonnambuli”
Abbiamo incontrato il collettivo Wu Ming, precisamente Wu Ming 2 e Wu Ming 5, proprio il 14 luglio, nel 225° anniversario della presa della Bastiglia, un evento che anticipa il periodo trattato dai quattro scrittori nel loro nuovo romanzo, L’Armata dei Sonnambuli, edito pochi mesi fa da Einaudi.
«Questa data è importante perché dimostra che a volte si può anche vincere» dicono. Ospiti allo Sherwood Festival di Padova, una delle molte tappe del Revolution Tour in giro per l’Italia, hanno presentato la nuova uscita esibendosi, tra l’altro, in un concerto.
Tra eroi mascherati, cospiratori, controrivoluzioni, pseudoscienze e un popolo affamato (forse soprattutto di giustizia) si snoda l’ultima opera di uno dei collettivi più famosi al mondo. Marat, Robespierre, Madame Ghigliottina: ci sono tutti.
Abbiamo parlato molto del passato, così come del presente e del futuro, del loro futuro, che sembra già chiaro, a guardarli negli occhi.
225 anni fa il popolo di Francia conquistava la Bastiglia. Uno dei tanti grandi eventi che anticipano il periodo del Terrore e tutto l’arco temporale in cui si sviluppa il vostro libro.
Sì, c’è stato un festeggiamento a Parigi, non ci riferiamo a quello ufficiale, ma uno organizzato da Giapster – i lettori del nostro blog e del romanzo – che si sono dati appuntamento sulle scalinate dell’Opéra Bastille, dove un tempo si trovava la Bastiglia, e hanno fatto una lettura di brani e capitoli del romanzo, mandandoci alcune foto. È interessante che il romanzo abbia prodotto queste forme di festeggiamento alternativo. In ogni caso è sempre il 14 luglio, noi siamo qui a presentare il romanzo pure per questo: è il ricorso di una data che dimostra che si può anche vincere.
Iniziamo da una domanda più che classica per un romanzo: dove, quando e come nasce L’Armata dei Sonnambuli?
Noi spesso imbocchiamo vicoli ciechi, nella definizione del tipo di lavoro che dobbiamo fare o anche del tipo di storia che dobbiamo raccontare. I vicoli ciechi però sono molto fecondi: la seconda parte del Trittico Atlantico avrebbe dovuto essere un altro romanzo. Avevamo iniziato a scriverlo, per poi accorgerci che non era la storia che volevamo raccontare, stavamo girando attorno a un punto: volevamo iniziare a parlare della rivoluzione americana a partire da uno strumento tecnico, il fucile, e le evoluzioni che quell’arma attraversa proprio in quel periodo storico, proprio in America e proprio sul campo di battaglia. Sembrava una cosa molto interessante, ma ci siamo resi conto che non lo era. Diventava un romanzo a tesi, allegorico, il tipo di cose che non c’interessa: alla base della democrazia americana c’è il fucile, tutto troppo trasparente. C’erano però delle suggestioni importanti: il dato tecnico, l’irruzione di una nuova macchina dentro la società umana e ci siamo accorti di esserci sempre occupati di rivoluzione senza mai affrontare quella centrale, quella in cui davvero si è vinto, almeno in una certa misura. L’elemento tecnico della rivoluzione francese è la ghigliottina, un altro tipo di “equalizzatore”. C’è quel modo di dire «Dio ha creato gli uomini diversi, Colt li ha resi uguali». Era sorta in noi la necessità di mettere i piedi nel piatto, perché avevamo sempre girato attorno a ciò. Come? Abbiamo capito che volevamo parlare non tanto della rivoluzione, ma del modo che hanno determinati tipi umani, provenienti da determinati strati sociali, di affrontare una rivoluzione dall’interno. La nostra è stata la ricerca di un romanzo dentro la rivoluzione, ma non sulla rivoluzione, ponendo la rivoluzione francese come ambiente, scenario. Per questo, vengono dette molte cose, e da un punto di vista molto focalizzato, ossia quello di un autore collettivo di parte, il che non è mai un limite ma un punto di forza, l’osservare la realtà da un focus molto preciso, a volte molto angolato.
Ci siamo così ritrovati dentro quell’ambiente, pieni di suggestioni e pieni di idee, che hanno iniziato a concretizzarsi 4-5 anni fa, dopo una prima fase di scambio di mail e ancora durante la stesura del romanzo abbiamo incontrato diversi vicoli ciechi, tutti fecondi perché dimostravano quello che non avevamo il coraggio di dire: è stato un romanzo, da un certo punto di vista, liberante e crediamo che nella pagina si colga, assieme al grande divertimento, la goduria intellettuale, quasi fisica, nel rendere quel mondo percettivo.
Tutti noi, durante la nostra adolescenza, in rapporto alla nostra società e al nostro Paese, abbiamo vissuto delle temperie microrivoluzionarie, che portano alla conoscenza di se stessi. Per noi era importante raccontare una storia in un contesto che vede una rivoluzione dispiegata. Forse è il caso di chiederci perché non ci abbiamo pensato tanti anni fa. Perché non eravamo in grado di farlo, la risposta è già data.
Una rivoluzione francese come sfondo, dite: uno sfondo nitidissimo, da cui traspare in modo chiaro il vostro ennesimo, monumentale lavoro di ricerca e documentazione. Questo è però il primo romanzo senza personaggi storici tra i protagonisti.
Questa è una differenza molto importante. Di solito per costruire i nostri protagonisti c’eravamo appoggiati a biografie reali che avevamo poi in qualche modo reinterpretato, come nel caso di Q: il protagonista di quel romanzo non esiste in quanto tale, ma sono esistite le varie identità che lo stesso individuo assume; nella realtà storica erano individui diversi, mentre noi ne abbiamo fatto uno stesso individuo. Poi attorno a questi protagonisti reali magari costruivamo i protagonisti immaginari: in Manituana, per esempio, Molly Brant, Joseph Brant, i vari membri della famiglia Johnson sono tutti personaggi reali, ai quali abbiamo accostato Philip Lacroix Ronaterihonte che è un personaggio inventato.
Nell’ultimo romanzo, invece, siamo proprio partiti da quattro protagonisti d’invenzione perché avevamo bisogno di quattro punti di vista diversi sulla rivoluzione per raccontarla in una maniera diversa da come è già stata raccontata, con il senno di poi. Non avevamo, però, punti di vista così precisi nel nostro “archivio”, non c’erano personaggi così netti che ci permettessero di tagliare la prospettiva della rivoluzione in modo chirurgico come volevamo e che li dovevamo costruire, metterci dentro le questioni che volevamo affrontare e vedere che effetto faceva alla rivoluzione infilarci dentro come spade dei personaggi d’invenzione che avessero queste caratteristiche. È quindi questo romanzo una specie di ipotesi fantastica, narrativa: che cosa sarebbe stata la rivoluzione francese se quattro personaggi così l’avessero attraversata. Il quinto protagonista, se vogliamo, è la plebe di Parigi, esistita realmente ma non così come noi la raccontiamo, dato che la rappresentiamo con una serie di escamotage, di costruzioni linguistiche per renderne la voce; è una personaggio collettivo, una specie di coro greco ubriaco che sta dalla parte opposta a quella del potere.
C’è però poi un gioco, nell’ultima parte del romanzo, per cercare di dar conto anche di questi personaggi fittizi come se fossero personaggi reali.
Dei personaggi reali, quelli realmente esistiti e che fanno da sfondo al romanzo, riportate nel dettaglio discorsi e comportamenti, dando però l’impressione di ritrattare invece le loro personalità, di smitizzarle. Penso per esempio a Marat.
Qui ci ha aiutato un modo di lavorare che ci è stato consentito dal fatto che tutti i documenti dell’epoca, dai giornali ai verbali di sezione, ai resoconti quotidiani delle sedute della Convenzione, tutto è maturato con grandissima precisione, così da bypassare con facilità tanto la critica storiografica quanto le varie immagini letterarie dei grandi della rivoluzione francese, che poi finiscono per formare una vulgata: Robespierre come un proto-Stalin, Saint-Just come il giovane sanguinario e così via. Noi invece abbiamo notato che questi politici, in realtà, agivano come elementi di moderazione rispetto alle spinte dal basso, la pressione dei bassi ceti culturali, focalizzata in quegli anni su questioni importantissime che concernevano soprattutto il sostentamento quotidiano e un senso di giustizia verso chi si accolla le responsabilità più gravi nel difendere la rivoluzione, ossia chi manda i propri figli al fronte; la pressione che ha portato al terrore non ha nulla a che fare con la vulgata che vuole dei sanguinari alla guida di una fazione di pazzi. C’era la pressione di tutta la Parigi popolare, sobborgo per sobborgo. Alla fine abbiamo capito che benché Marat fosse realmente amato dal popolo, come in fondo lo stesso Robespierre, anche se principalmente da giacobini e sanculotti, non venivano loro risparmiate critiche perché era chiaro che dovessero essere un’interfaccia che agiva da calmiere rispetto alle istanze vere, il che è stato molto sorprendente da scoprire, nonostante sia la realtà dei fatti. In tutte gli aspetti che concernono una questione di genere o una di classe, dentro il romanzo si nota bene questa funzione di freno, almeno rispetto alle pressioni dal basso.
Il nostro lavoro è quello di dettagliare, di andare oltre lo stereotipo, di dividere ciò che è stato trasformato in uno e lo facciamo allo stesso modo con l’individuo, che in fondo è molteplice nonostante ce ne venga restituita un’immagine unitaria quando in realtà anche Marat o Robespierre hanno fatto discorsi più reazionari e altri più rivoluzionari, discorsi più vicini alle istanze popolari e altri che le frenavano. Se si traccia un’immagine a distanza, magari si propende o per una o per l’altra, mentre se ci si avvicina, come abbiamo fatto noi visto che in ottocento pagine raccontiamo 2 anni di rivoluzione, tutte le contraddizioni interne alla stessa figura emergono. La rivoluzione è il momento delle contraddizioni e i rivoluzionari abitano contraddizioni, e quella francese, in modo particolare, ha messo all’ordine del giorno contraddizioni per la prima volta nell’agenda dell’umanità. Era una novità assoluta, una prima nel vero senso della parola.
[I servizi di Sul Romanzo Agenzia Letteraria: Editoriali, Web ed Eventi.
Seguiteci su Facebook, Twitter, Google+, Issuu e Pinterest]
Una prima dite. Ne L’Armata dei Sonnambuli appaiono Molière, il folle Molière di Bicêtre, Goldoni; uno dei protagonisti è un attore che si converte a un Nuovo Teatro. Il romanzo stesso è strutturato in atti e scene. Quanto teatro, in quest’armata.
Noi abbiamo la tendenza a confondere causa-effetto quando andiamo a rintracciare i motivi primari. Ora verrebbe da dire che, studiando le fonti, abbiamo compreso che rappresentazione e rappresentanza, in quel momento storico e in Francia, tendevano a coincidere: chi rappresentava il popolo lo faceva dal punto di vista politico ma anche da quello teatrale, fornendo una rappresentazione appunto. La conoscenza dell’arte di proporre il discorso in termini teatrali, scenici era vitale proprio perché si era sviluppata una politica basata sui discorsi pubblici, quando prima di allora era una questione di esclusiva pertinenza degli uomini di potere, la facevano i ministri; nessuno sapeva bene cosa dicessero nelle loro riunioni quelle persone. Con la rivoluzione francese c’è il mondo a guardare ed è un dato di fatto che tutti i suoi protagonisti, i rappresentanti del popolo, molto spesso avevano un attore o un ex attore come trainer che insegnava loro come comportarsi davanti alla gente. Abbiamo poi capito che la differenza tra rappresentanza e rappresentazione, ossia tra il termine teatrale e il termine politico, esiste solo in italiano e in poche altre lingue: in inglese è la stessa parola per esempio. Eravamo quindi sulla pista giusta, ma su quale istanza? La nostra era una necessità di carattere narrativo, volevamo avere un personaggio che attraversasse la rivoluzione come un potenziale jolly, che ci consentisse la massima libertà d’espressione, e un attore con evidenti problemi psichici faceva al caso nostro, oltre a essere un veicolo di identificazione preciso in certi momenti di scrittura, di profonda identificazione, com’è con gli altri protagonisti, come Marie o l’antagonista del romanzo. Se si vanno a ricostruire i motivi intellettuali che ci spingono verso una direzione, spesso ci accorgiamo che diventano motivi veri, anche perché quando si ha una necessità esclusivamente intellettuale si scrive un saggio. Crediamo che la forza del romanzo sia di essere partiti dai personaggi, per poi arrivare a chiederci cosa stavano dicendo, cosa stavano facendo sulla pagina, lasciandoli agire secondo il tipo di psicologia che avevamo costruito. Alla fine abbiamo visto che tutto tornava, anche rispetto alla documentazione storiografica presa in esame: si formava un tutto coerente, è stata una strada fortunata.
Si parlava di Leo, il personaggio che nel romanzo dà vita, indossando il costume di scena di Scaramouche (la cui maschera è nella copertina del romanzo), all’Ammazzaincredibili, una sorta di supereroe rivoluzionario. Il paragone con V di V per Vendetta sorge spontaneo.
Il paragone viene spontaneo, anche e soprattutto per l’utilizzo che viene fatto della maschera. Se vogliamo andare a vedere le differenze, Scaramouche ha un rapporto abbastanza diretto con le richieste popolari nonostante il suo egotismo: ama stare al centro dell’attenzione, stare su un palcoscenico, e cerca un teatro più grande, più efficace rispetto a quello che ha sempre calcato, così da diventare un attore famoso. D’altra parte odia, non può sopportare un certo tipo di individui, che già a Bologna lo vessavano: i “bulli” della classe sociale nobile, aristocratica, o i loro sostenitori. Nonostante ciò, però, non perde mai il contatto con quel popolo che lui vuole rappresentare: si accorge che c’è un modo di rappresentare il popolo alla Convenzione, ossia di tipo politico, come ce n’è uno attoriale, teatrale, che consiste nell’interpretare i desideri del popolo per strada; un popolo che vorrebbe che gli accaparratori di beni di prima necessità fossero puniti e trova un attore che rappresenti questa sua istanza, colpendo gli accaparratori come un sol uomo, in un modo che il popolo intero non potrebbe fare. Ci sono scene in cui lo vediamo farsi passare la lista dei personaggi da punire, non è un giustiziere che decide da solo chi colpire; tanto che in un passaggio del libro lo vediamo mentre gli viene sbattuta in faccia la realtà: una persona da sola non basta, e non è un caso che sia la protagonista femminile, Marie, a farglielo notare. Scaramouche alla fine sceglierà di stare all’interno di una squadra e non è lui il personaggio risolutivo di tutte le azioni, o almeno lo è fino ad un certo punto.
Nel romanzo è centrale il magnetismo, che facilmente si può avvicinare, inteso come controllo della mente, al leaderismo degli ultimi cent’anni.
Beh sì. Uno dei temi centrali del romanzo è quello del rapporto tra rivoluzione e mezzo tecnico, assieme all’eccessiva fiducia che alcuni utopisti investono in questioni che sono meramente tecniche. Uno dei personaggi principali del romanzo è un magnetista, un terapista che utilizzava questa pseudoscienza, come la definiremmo oggi, molto in voga nella Parigi degli anni Ottanta del 1700, importata in Francia da un medico tedesco carismatico, Franz Anton Mesmer, che da Vienna è passato a Parigi e in pochissimo tempo è diventato il beniamino dei salotti della città, perché lui operava su una teoria che cercava di spiegare tutti i fenomeni che la nuova scienza non riusciva a spiegare: Mesmer sosteneva che esistesse un flusso universale che avvolgeva e pervadeva ogni cosa e che i problemi di salute, individuali ma anche sociali, derivassero da interruzioni di questo fluido. Questa pseudoscienza fu bollata come tale da una commissione regia e noi, in modo troppo semplicistico, potremmo dire che la commissione regia aveva ragione; in realtà i mesmeristi stavano andando a incontrare un problema centrale: cosa c’è sotto la scorza della coscienza. Una difesa classica dei mesmeristi consisteva nel sottolineare come, nonostante i buchi delle loro teorie, qualcosa nei pazienti accadesse, ci fossero dei miglioramenti. Si stava scoprendo il ruolo del terapeuta in una terapia, cosa che ora noi diamo per acclarata. Il nostro protagonista fa parte di una corrente democratica, che sostiene che chiunque sia in grado di mesmerizzare un'altra persona, rifiutando un catalizzatore, una figura carismatica a cui demandare questo ruolo; in una scena troviamo il suo maestro, Puysegur, in una comunità utopistica di luminari, che sostiene d’aver compiuto la rivoluzione senza la rivoluzione, magnetizzando le persone, creando una società armonica. Quindi il lettore contemporaneo può pensare al tipo di fiducia che molti ripongono, in questo momento, nei ritrovati tecnologici di oggi: il culto della rete, il plebiscito digitale, quindi sì, c’è questa corrispondenza, questo gioco di specchi che però non è preventivamente calcolato, fa parte dei tanti snodi che la storia che stiamo scrivendo assume. Noi siamo facilitati dal lavorare in quattro, dal confrontare in tempo reale quello che scriviamo, avendo così una visione più ampia del lavoro che procede, però da qui a dire che tutto questo era voluto già prima dell’inizio del romanzo sarebbe troppo: non è così, anche perché se l’avessimo già saputo prima con molta probabilità non l’avremmo nemmeno scritto, sarebbe stato tutto troppo noioso.
“Sorbe”, “varda”, “te lo si dice noi”: la vostra è una Parigi italiana. Ancor più lo diventa a pensare «Manopolatori, cospiratori, politici corrotti, un despota che ha perso da poco il potere, il popolo che stenta, tumulti»: questa è l’Italia o la visione del proprio Paese di ogni cittadino del mondo in un momento come questo?
Non c’era un intento allegorico così diretto e così mirato: è un tipo di lettura-chiave che cerchiamo d’evitare sempre. Abbiamo fatto parlare il popolo in un certo modo perché volevamo rendere attraverso l’italiano, o comunque una lingua inventata basata sull’italiano, il fatto che il popolo di Parigi parlava una lingua molto diversa dagli oratori della Convenzione. Utilizzando il francese sarebbe stato possibile farlo solo in maniera filologica.
Inevitabilmente il romanzo storico si dimostra sempre metastorico: in qualche modo, qualunque sia l’oggi in cui lo si legge e in qualunque contesto, finisce sempre per parlarci proprio di quell’oggi. Da questo punto di vista, quindi, il romanzo riesce a farlo quanto più libertà di farlo gli concede il lettore, anche diverse da quelle che l’autore aveva in mente. Se lo si rende troppo corrispondente all’oggi in cui si scrive, lo si impoverisce, se invece lo si lascia libero di significare, probabilmente fra dieci anni chi lo leggerà troverà sempre delle corrispondenze. C’è da dire che noi l’abbiamo scritto qui ed ora, per cui parte dell’interesse per la rivoluzione che ci guidava nello scrivere il romanzo derivava dalle risonanze del nostro momento rispetto a una classe politica immobile come poteva essere quella dell’Ancien Régime, rispetto a istanze popolari che non riescono a esprimersi e rispetto a un desiderio di cambiamento che sentiamo anche oggi. Questo è importante perché ci permette di raccontare la storia in modo non-freddo, facendola diventare un racconto che ci parla davvero: quando raccontiamo del desiderio d’uguaglianza del popolo di Parigi non lo facciamo soltanto rinvenendo i documenti e i testi che lo riportano ma lo riusciamo a rendere perché noi stessi in primis abbiamo provato quelle sensazioni. Nel romanzo storico non ci si confronta con la storia solo in quanto testo, documento, archivio ma anche con emozioni che attraversano qualunque periodo storico.
Il retro di copertina de L’Armata dei Sonnambuli recita: «L’opera più ambiziosa, punto d’arrivo di un percorso ventennale». È realmente la fine di un ciclo per voi?
Di certo non è come l’ultimo concerto dei Grateful Dead.
Noi crediamo di aver portato questa forma di romanzo storico, per quanto riguarda le nostre capacità, e che sia difficile per noi andare più in là di così senza ripeterci. Abbiamo esaurito questo modo di stare dentro la storia, dando una torsione in realtà nuova rispetto a tutto il resto della nostra produzione. Ci fermiamo qui: non smetteremo di scrivere romanzi, e nemmeno romanzi complessi, ma il nostro focus si sposterà sulla contemporaneità o sulla costruzione di mondo in genere. Molte delle nostre opere soliste hanno esplorato territori che non sono propriamente fiction, né saggio, un nuovo modo di narrare che può essere orchestrato in maniera ancora più ambiziosa. Questa sarà la direzione che intraprenderemo, anche se per il momento stiamo scrivendo racconti per bambini tra i 6 e gli 8 anni.
Speciali
- Corso online di Scrittura Creativa
- Corso online di Editing
- Corso SEC online (Scrittura Editoria Coaching)
- Lezioni di scrittura creativa
- Conoscere l'editing
- Scrivere un romanzo in 100 giorni
- Interviste a scrittori
- Curiosità grammaticali
- Case editrici
- La bellezza nascosta
- Gli influencer dei libri su Instagram – #InstaBooks
- Puglia infelice – Reportage sulle mafie pugliesi
- Letture di scrittura creativa
- Consigli di lettura
- L'Islam spiegato ai figli
- Interviste a editor e redattori
- Interviste a blog letterari
- Interviste a giornalisti culturali
- Interviste a docenti
- Come scrivere una sceneggiatura
- Premio Strega: interviste e ultimi aggiornamenti
- Premio Campiello: interviste e ultime novità
- Premio Galileo: interviste
- I nuovi schiavi. Reportage tra i lavoratori agricoli
- La Webzine di Sul Romanzo
Archivio Post
Più cercati
- Quanto fa vendere il Premio Strega? I dati reali
- Che tipo di lettore sei?
- I 20 consigli di scrittura di Stephen King
- Test di grammatica italiana, qual è la risposta giusta?
- Classifica dei libri più venduti di tutti i tempi nel mondo
- Come scrivere un romanzo: 15 modi utili
- 11 consigli per trovare la tua writing zone
- 13 cose che gli amanti dei libri sanno fare meglio di tutti
- 7 posti che tutti gli scrittori dovrebbero visitare almeno una volta
- Carlos Ruiz Zafòn ci racconta il suo Cimitero dei libri dimenticati
- I 10 film più divertenti di tutti i tempi
- I consigli di scrittura di 11 scrittori
- La reazione di Cesare Pavese quando vinse il Premio Strega
- Le 10 biblioteche più grandi del mondo
- Marcel Proust pagò per le prime recensioni di “Alla ricerca del tempo perduto”
- Perché uscire con uno scrittore? 10 motivi validi