Intervista a Tullio Avoledo, dal Nord-Est a “La crociata dei bambini”
Tullio Avoledo e il racconto del Nord-Est. Condivide l'opinione di molti, secondo cui il Nord-Est possa rappresentare l'anima sporca dell'Italia? Perché ha scelto di raccontarlo con una cifra che, solo in apparenza, non è realistica?
Credo che l’anima del Paese sia ormai sporca dappertutto. Non ha più molta importanza dove comincia il Male: la cosa terribile è quanto in fretta attecchisce su ogni terreno, anche su quelli apparentemente più duri e puri. Nato in una regione arretrata e di confine, mi trovo a vivere da adulto nello stesso posto, ma incredibilmente cambiato. È come se il Nord-Est si fosse evoluto di mille anni in pochi decenni. È cresciuto assurdamente in fretta, strappando i vestiti ormai troppo stretti e logori del cristianesimo e della cultura contadina. Il cosiddetto progresso ha avuto su di noi lo stesso effetto della ferrovia per gli indiani delle Grandi Pianure. Devastante, orribile. Finché c’era la crescita economica, finché dalla Grande Torta che veniva spartita cadevano briciole grandi e piccole per tutti, il modello di sviluppo nordestino è proseguito d’abbrivio. Solo pochi, pochissimi, criticavano il “Modello Nord-Est” e ne indicavano le debolezze. Ricordo con affetto un grande intellettuale friulano, Elio Bartolini, che ho avuto il privilegio di frequentare, anche se nel suo autunno. Elio guardava, con la saggezza di un vecchio capo indiano e con aristocratica indignazione, la trasformazione gogoliana del Friuli, il suo apparente arricchirsi e il contemporaneo svuotarsi di senso e di valori delle nostre vite. Ora il motore è fermo e la barca fa acqua da tutte le parti. E ci troviamo a vivere in un ambiente degradato, dove le strade extraurbane sono circondate da capannoni abbandonati e negozi in crisi, e il culto del superfluo, almeno finché durano i soldi messi da parte per generazioni e consumati in pochi anni, ottunde le nostre paure e le nostre debolezze. Ho cercato di descrivere ciò che vedevo accadere, la mutazione genetica di una cultura, lo stupro infame di ogni dignità, il lavoro che diventava servitù. L’ho descritto, credo, senza moralismi o altezzosità, da uomo che sa che nessuno è veramente estraneo al Male. E ho scritto, con la fantasia, romanzi in realtà realistici. Ho immaginato riunioni che poi, anni dopo, ho saputo essersi svolte come le avevo descritte, per dire. Perché il Male è estremamente prevedibile. Purtroppo ha dalla sua un alleato potente: la mancanza di memoria della maggior parte di noi. Descrivere dinamiche credibili in contesti apparentemente di fantasia è il mio modo di vaccinare il lettore contro pericoli reali.
Lei ha raccontato il mondo delle banche in tempi non sospetti, descrivendolo anche in maniera molto critica, quasi cinica. Penso a L'elenco telefonico di Atlantide del 2003. È cambiato qualcosa dopo gli accadimenti degli ultimi anni, o crede che l'universo bancario sia raccontabile ancora da quella prospettiva?
Diciamo che le banche hanno perso molte delle particolarità lavorative che avevano un tempo, per rendersi sempre più omologhe a una qualsiasi realtà aziendale dominata dai manager. Se parlo con amici che lavorano per altre grandi società industriali mi espongono le stesse dinamiche irrazionali che ispirano le banche. Nel 2000, quando ho scritto il mio primo romanzo, ho colto in quello che sembrava un universo vincente e in espansione i segni dell’entropia e del collasso. Oggi, se dovessi scrivere una storia ambientata in banca, sarebbe una storia di soprusi individuali, dell’opprimente rapporto tra management e impiegati, e non certo una storia di complotti internazionali. Le banche italiane, oggi, sono grandi predatori invecchiati e malati, che possono divorare solo le proprie cellule, contaminando, nel processo, l’ambiente in cui vivono. Ovviamente ci sono le eccezioni: ma chi ha voglia di leggere una storia dove vince il bene o regna la normalità…?
L'ipotesi di una dittatura, come quella presentata ne La ragazza di Vajont, è solo un'ucronia?
No. È un’opzione pratica. È quello che potrebbe accadere da un momento all’altro. Dentro ognuno di noi c’è il richiamo dell’ordine, dell’autorità. Sentiamo un vuoto nelle nostre vite, proviamo orrore per il disordine che ci circonda e che abbiamo dentro. Ho sempre studiato con un misto di orrore e di fascino i meccanismi delle dittature. Sono una soluzione molto più semplice ed efficace della democrazia, ammesso che per le società moderne si possa ancora parlare di democrazia.
Senza le dittature, poi, non ci sarebbero le rivoluzioni, che sono la cosa che m’interessa davvero. Diciamo che attualmente viviamo sotto la dittatura della stupidità e dello spreco infelice. Personalmente mi sento oppresso, ma pochi, davvero pochi, intorno a me sembrano condividere questo senso di oppressione. Attendo una rivoluzione, e guardo con fiducia alla Grecia e ad Alexis Tsipras, la cui lista supporto. Voglio un’Europa libera dalla dittatura dei mercati, dei burocrati e dei ladri: che è, in fondo, la dittatura di cui ho parlato più spesso, nei miei libri.
[I servizi di Sul Romanzo Agenzia Letteraria: Editoriali, Web ed Eventi.
Seguiteci su Facebook, Twitter, Google+, Issuu e Pinterest]
Tra dittature e pulizie etniche sembra quasi che lei abbia una visione pessimistica dell'umanità. Oppure cerca soltanto di raccontare gli elementi residuali del processo di civilizzazione, quegli elementi che esistono almeno in potenza, perché intrinseci all'animo umano?
Non mi ha mai convinto Rousseau. Non rimpiango quindi il passato, o il “Buon Selvaggio”. Secondo me la bontà, la giustizia, la tolleranza e la bellezza sono un portato della civiltà, fiori rari e fragili che vanno coltivati con amore nelle urne elettorali come nella vita di ogni giorno. L’immagine della civiltà che ho in mente è Rosa Luxemburg che in carcere, ammalata, scrive una lettera commossa sulle sofferenze di un cavallo da tiro. La civiltà è qualcosa che richiede fatica, impegno costante. È un’arte difficile. Io cerco di affrontare ogni giorno con un senso di finalità. Ogni giorno è importante, e non soltanto un altro grumo di ore da passare. Cerco di prestare alle cose che faccio e che penso l’attenzione dovuta. Così come non concepisco l’idea di una pagina sciatta, o non necessaria. Un rito a cui mi dedico ogni giorno da anni, ad esempio, è la composizione di un haiku, una forma poetica che viene dalla tradizione giapponese. Ogni sera compongo un haiku, che poi strappo e dimentico. Qualche volta ho ceduto alla tentazione di postarli su Twitter, ma perlopiù cerco di resistere. Comporre un haiku è una grande scuola di stile e di civiltà: devi condensare una sensazione, un paesaggio, un moto dell’animo, in soli tre versi, rispettivamente di 5, 7 e 5 sillabe. I grandi guerrieri giapponesi componevano un ultimo haiku prima di andare in battaglia. È un esercizio meraviglioso, un modo di esorcizzare il caos che preme ai confini del nostro mondo, dentro e fuori di noi.
Ne Le radici del cielo (edito da Multiplayer) a un certo punto scrive: «Nel nostro nuovo mondo non si butta via nulla. Né i corpi né le idee». È una sorta di denuncia dell'incapacità contemporanea a discernere ciò che è degno di rimanere da quello che può essere buttato via? La confusione da eccesso di informazione?
Certo. Viviamo immersi in un flusso d’informazione continuo, che esclude qualsiasi approfondimento, qualsiasi riflessione. Le nostre stesse vite sono diventate inutili. Certi funerali sembrano una formalità da sbrigare come la raccolta differenziata delle immondizie. Sul lavoro, ognuno di noi sa che potrebbe essere sostituito senza problemi. Sappiamo tutti di non essere indispensabili. E questo ci rende cinici nei confronti, ad esempio, della morte, o dei valori dimostrati da altri. Non siamo diversi dalla gente che guardava i cristiani sbranati dai leoni nel Circo Massimo. Godiamo nel vedere i nostri miti musicali o del cinema crollare nella polvere. Godiamo nel sentire che tutti sono corrotti, che nessuno si salva. Perché ci consola pensare che tutto il mondo passa, che tutto decade e viene dimenticato. Che la nostra morte è parte di una morte collettiva. In realtà dovremmo guardare alle cose che restano: ai figli, ad esempio, che consegniamo al futuro come agnelli legati. Dovremmo cercare le cose belle, le cose che ambiscono alla perfezione, e farle nostre, metabolizzarle, assumerle come una medicina. Dobbiamo uscire dal quotidiano e pensare a un’altra misura del tempo. Puntare al nocciolo delle cose e imparare a non farci instupidire dal chiacchiericcio stupido dei giorni.
Scrivere due romanzi ambientati nell’universo di Metro 2033 mi ha consentito, credo, di parlare di speranza e di bellezza in un contesto impossibile. Vorrei che molti, che tutti, cercassimo di farlo anche oggi. Prima che sia troppo tardi.
Tra qualche giorno, sempre per Multiplayer, sarà pubblicato La crociata dei bambini. Qui, John Daniels, già protagonista di Le radici del cielo, dovrà vedersela con i Figli dell'Ira, per sconfiggere i quali organizzerà una crociata di bambini. Perché la scelta di questo tema? È un riferimento alla "Crociata dei fanciulli"? Può rappresentare la speranza nella fanciullezza o un ulteriore elemento di riflessione su quello che si nasconde dietro la patina della civiltà?
I bambini del titolo sono i guerrieri che John recluterà per espugnare la fortezza della Stazione Centrale, il covo dei Figli dell’Ira nel cuore di Milano. Sono giovani che erano bambini, gli ospiti di un asilo, all’epoca in cui il mondo è finito nell’olocausto nucleare. Bambini cresciuti senza guida, senza riferimenti adulti. Mi è piaciuto immaginare come si sarebbe evoluta una comunità di orfani, che tipo di subcultura avrebbe sviluppato. I guerrieri che John arruola nella sua Crociata sono diventati adulti leggendo libri da bambini come Peter Pan o Winnie the Pooh.
Ma la vera chiave del romanzo è in una parola ebraica: Tsimtsum. Nel libro spiego, o cerco di spiegare, di cosa si tratta. È un concetto talmudico affascinante, quello dello “svuotamento di Dio”, che fornisce una chiave potente di lettura per la presenza del Male nel mondo e per la fede che in ogni caso deve guidarci nelle nostre piccole o grandi Crociate. Quando dieci anni fa incontrai Yann Martel, l’autore di Vita di Pi (un altro romanzo, per inciso, in cui appare lo Tsimtsum), gli chiesi come fosse riuscito a scrivere un libro così straordinario. Lui sorrise e disse «Non era poi così difficile: mi è bastato ibridare la zoologia e la teologia». Allo stesso modo, nei miei due romanzi del ciclo Metro 2033, ma soprattutto nella Crociata dei bambini, ho cercato di unire il romanzo d’avventura con la teologia. Saranno i lettori a dirmi se ho fatto centro. Spero di sì.
Speciali
- Corso online di Scrittura Creativa
- Corso online di Editing
- Corso SEC online (Scrittura Editoria Coaching)
- Lezioni di scrittura creativa
- Conoscere l'editing
- Scrivere un romanzo in 100 giorni
- Interviste a scrittori
- Curiosità grammaticali
- Case editrici
- La bellezza nascosta
- Gli influencer dei libri su Instagram – #InstaBooks
- Puglia infelice – Reportage sulle mafie pugliesi
- Letture di scrittura creativa
- Consigli di lettura
- L'Islam spiegato ai figli
- Interviste a editor e redattori
- Interviste a blog letterari
- Interviste a giornalisti culturali
- Interviste a docenti
- Come scrivere una sceneggiatura
- Premio Strega: interviste e ultimi aggiornamenti
- Premio Campiello: interviste e ultime novità
- Premio Galileo: interviste
- I nuovi schiavi. Reportage tra i lavoratori agricoli
- La Webzine di Sul Romanzo
Archivio Post
Più cercati
- Quanto fa vendere il Premio Strega? I dati reali
- Che tipo di lettore sei?
- I 20 consigli di scrittura di Stephen King
- Test di grammatica italiana, qual è la risposta giusta?
- Classifica dei libri più venduti di tutti i tempi nel mondo
- Come scrivere un romanzo: 15 modi utili
- 11 consigli per trovare la tua writing zone
- 13 cose che gli amanti dei libri sanno fare meglio di tutti
- 7 posti che tutti gli scrittori dovrebbero visitare almeno una volta
- Carlos Ruiz Zafòn ci racconta il suo Cimitero dei libri dimenticati
- I 10 film più divertenti di tutti i tempi
- I consigli di scrittura di 11 scrittori
- La reazione di Cesare Pavese quando vinse il Premio Strega
- Le 10 biblioteche più grandi del mondo
- Marcel Proust pagò per le prime recensioni di “Alla ricerca del tempo perduto”
- Perché uscire con uno scrittore? 10 motivi validi