Intervista a Susanna Tamaro su Illmitz. Un incontro al confine della scrittura
Un romanzo di Tamaro inedito, o meglio, sedersi sulle spalle del protagonista dell’ultimo romanzo di Susanna Tamaro (Illmitz, Bompiani, 2014) può sembrare molto facile. È giovane, appena partito per un viaggio in solitaria, per un luogo dal nome evocativo che non ha mai visto, ma da cui proviene a causa di una famiglia che quel luogo ha deciso di cancellare. All’inizio il lettore potrebbe pensare al classico romanzo di formazione. Illmitz è la porta che permetterà al protagonista di mettere da parte l’adolescenza, di iniziare a osservare il mondo con quel distacco necessario ad attraversarne un pezzetto. A poter dire (Foster Wallace insegna) che sì, fuori è tutto verde e va bene così. Ma l’abbaglio dura poco. Il protagonista senza nome di questo romanzo sembra portare sulle spalle, anzi nei suoi occhi, infiniti mondi di esperienze già vissute, tanto da cercarne ora altre, nelle crepe dei pensieri che tira fuori dal vento che avanza al riparo dei muri, da un grembiule bianco troppo stretto, dall’«acciottolio delle stoviglie». Più osserva più scorge nuove crepe da mostrarci. E allora iniziamo a capire di essere saliti su una spalla molto più acuminata del previsto. E dobbiamo subito chiederci se siamo disposti a vedere e a cercare.
Partirei proprio da questa domanda per il nostro incontro con Susanna Tamaro. Era questa ricerca che aveva in mente quando ha creato Illmitz?
Sì. Questo è un libro dedicato alla ricerca. Volevo capire cosa volesse dire scrivere sull’inconscio e sul mistero che avvolge la vita. Mistero che il protagonista indaga costantemente, anche nei sogni e negli inserti fantasiosi che percorrono il romanzo.
Nella storia la componente onirica è molto presente. Mi ha fatto pensare ad alcuni testi di Haruki Murakami, che, da sempre, gioca con le differenti dimensioni del reale. Lo sguardo che viene da oltre il nostro mondo, non per giudicarci, ma per scoprirci molto più complessi, interessanti e scomodi rispetto a quello che siamo abituati a pensare. Il sogno per Murakami è luogo di confine e anticamera del cambiamento. Lo è anche per lei?
Sono molto attratta dal fantastico e Murakami mi piace molto. Ho usato questa componente con più libertà in passato (Illmitz è stato scritto negli anni Ottanta [ndr]) rispetto ai miei libri più conosciuti, in cui la componente fantastica è abbastanza limitata. Ciò che mi attrae nell’intrecciare il reale con il fantastico sono la dimensione sospesa che si genera per il lettore e le innumerevoli sfumature che può offrire. Sfumature che lascio all’interpretazione del lettore, che vorrei trovasse in questo libro molti spunti per riflettere su se stesso e la società che lo circonda.
L’attenzione alla parola è fortissima. Leggere i suoi testi mi fa pensare a un abito di Coco Chanel, essenziale e pulito nelle forme del linguaggio, elegante e ricercato nella scelta dei particolari. Come nel caso di Coco Chanel si percepisce subito la peculiarità, anche se ci vuole del tempo per comprenderla a pieno, ma alcune frasi si aggrappano alle ciglia del lettore senza che lui se ne accorga, risalgono la fronte e s’infilano nella sua testa. All’inizio della sua carriera Coco Chanel non era apprezzata in una Francia abituata alla grandeur della forma: troppo essenziale, troppo pulita, troppo decisa e libera nelle sue scelte. La sua strada era la sua strada, anche se tutti le dicevano che non ce l’avrebbe fatta, che non era quello che le persone desideravano. Com’è andata a finire lo sappiamo tutti. I gusti sono cambiati. Pensa che oggi il suo libro possa incontrare di più i gusti dei lettori rispetto ai primi anni '80 quando è stato scritto? E non ha mai avuto la tentazione allora di modificarlo per ottenerne la pubblicazione?
Negli anni '80 Illmitz era un libro impubblicabile, perché difficilmente comprensibile per le persone che vivevano quel tempo. Erano gli anni del socialismo trionfante, del successo facile, della positività e della socializzazione esasperata, intese come uniche chiavi di lettura per interpretare il mondo che ci circondava. Il lettore si sarebbe trovato di fronte a un personaggio che non gli lasciava spazi di manovra, costringendolo a osservarsi in profondità e a mettere in discussione le proprie certezze, senza offrirgli un’altra solida alternativa. Oggi invece questo libro ha una possibilità. Il contesto è cambiato e si avverte il bisogno di trovare in se stessi una chiarezza che fuori manca del tutto. Ho provato a pubblicare Illmitz per anni e non ci sono riuscita, ma non ho voluto cambiarlo. Dietro questo libro c’era un viaggio troppo profondo e rigoroso per pensare di modificarlo. Anche adesso che, finalmente, è stato pubblicato, mantiene lo stesso impianto e lo stesso linguaggio della versione originale.
Cosa ha provato rileggendolo a distanza di tanti anni?
L’ho lasciato nel cassetto per anni e l’ho ripresto in mano solo nel 2013. Mi ha sorpreso. Ha una lingua straordinaria. Immagini folgoranti, limpide, con un’intensità poetica che colpisce, se si pensa che ero davvero molto giovane quando l’ho scritto. L’ho riletto e mi ci sono ancora ritrovata, sia nella storia, sia nella tensione della scrittura; tensione e essenzialità che dipendono anche dalla lingua tedesca e dai suoi autori, cui devo molta della mia formazione. Il tedesco è una lingua pulita e precisa e chi, come me, è nato in quella tradizione letteraria, tenderà a scrivere in modo molto diverso da chi si è formato nella cultura italiana classica, caratterizzata da una forte musicalità e ricchezza, ma anche da una tendenza al barocco. Questo ha fatto scambiare spesso l’essenzialità strutturata dei miei testi per povertà, la semplicità per banalità. Ma la vera difficoltà dello scrivere sta proprio nella ricerca della perfetta semplicità.
La diversità e i suoi effetti sono molto presenti in questo libro. Il protagonista sembra nuotare nel lago Neusiedl (su cui si affaccia Illmitz). Un lago senza immissari, che rimugina su se stesso, preda della condizioni climatiche che lo fanno ora crescere ora svuotarsi. Allo stesso modo, il protagonista si alimenta solo delle sue realtà, senza poter attingere alla vista altrui. Nuota in se stesso, ancora e ancora, andando sempre più a fondo. Lo fa perché differente dagli altri, che sia una reale diversità o la sua percezione, poco importa. Il risultato è l’isolamento emotivo. Ma è proprio da questo isolamento che nasce la sua speciale capacità di osservazione. È davvero necessario sentirsi “sbagliato” per poter immaginare un altro tipo di “giusto”?
All’inizio sì, è necessario un elevatissimo livello di concentrazione per attivare questo processo, quasi un autismo. Poi si entra in una dimensione più aperta, con occhi diversi e più liberi. Occhi che riescono così a fotografare frammenti di emozioni che sfuggirebbero a un’osservazione normale.
Il suo protagonista ama le domande. Se ne pone tante e ne offre altrettante al lettore. E sebbene la risposta arrivi prontamente, tramutandosi spesso in inadeguatezza mista a senso di colpa, essa serve a innescare un’altra domanda, in un gioco che mi ha ricordato l’autobiografico John protagonista del romanzo Gioventù di John Maxwell Coetzee (Einaudi, 2007): domande a grappolo, attorcigliate al protagonista come un'edera ghiotta di dubbi. Quante domande deve porre un romanzo? Ed è vero che il lettore oggi vuole sentirsene porre sempre di meno, spossato dall’incertezza che lo inonda dalla realtà?
Il senso dei libri è porre domande. Tutti i libri degni di questo nome sono stracolmi di domande. Io cerco di farmi molte nuove domande ogni giorno. È un’abitudine che ho fin da bambina e la trovo un’ottima abitudine. Mi è stata molto utile. Penso invece che la gente non voglia porsi delle domande. Vuole essere intrattenuta, blandita e rassicurata. Ma il libro non è nulla di tutto questo, non può esserlo. È un percorso di conoscenza, di approfondimento della vita e, come tale, implica inquietudine, perché porta verso nuovi orizzonti e nuove incertezze da sorvolare e ridimensionare con la successiva lettura, in un flusso continuo che non ci renderà più sereni, ma forse più consapevoli.
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Illmitz è scritto in prosa, ma sento un sottostrato di poesia molto forte. In alcuni passi, quelli relegati al mondo del sogno, mi ha ricordato un racconto di Elizabeth Bishop, Il mare e la sua sponda, la storia di un raccoglitore di cartaccia e pensatore eccelso, che vive su una spiaggia isolato dal mondo, leggendo e catalogando i suoi ritrovamenti, per poi incendiarli e ricominciare daccapo. Quanto è importante la poesia per lei ed esiste un confine necessario fra le due forme di scrittura? Portare un po’ di poesia nella prosa potrebbe far nascere, qua e là, qualche inatteso lettore di versi?
Io mi sono nutrita molto di poesia. Al tempo in cui scrissi Illmitz la poesia era predominante sulla prosa e si vede. Ma questo non è un male. La poesia è il fondamento della prosa, di una buona prosa. Come lettrice io voglio trovare poesia nella prosa. Se mi trovo a sottolineare un passaggio e a fermare il flusso della lettura per farlo mio, allora ho trovato l’inafferrabile, e questa è poesia. Oggi purtroppo questa possibilità emotiva è molto appiattita. Sono troppi i libri che presentano il mondo soltanto per quello che è e non per quello che potrebbe diventare. La letteratura deve costruire qualcosa di nuovo, in modo che quella novità si sposti poi nella nostra realtà, altrimenti non serve.
Cosa sta leggendo ora Susanna Tamaro e cosa non si stanca mai di leggere? Se dovesse far innamorare della lettura un ragazzo, quale libro gli consiglierebbe? Oltre alle scuole di scrittura, stanno nascendo pian piano anche delle scuole di lettura, luoghi dove un autore o un semplice lettore può condividere il suo entusiasmo con chi non ha ancora provato le immaginifiche sensazioni che può regalare un libro. Pensa possa essere un’iniziativa utile?
Leggo in maniera ossessiva. È una virtù necessaria per scrivere. Leggo di mineralogia, di botanica e di scienze in generale. Ma leggo anche i testi per bambini, è un mondo che mi affascina. Certo, leggo anche la narrativa contemporanea. Sono curiosa, gliel’ho detto, ma spesso rimango delusa. Non riesco più a trovare testi che mi emozionino, non trovo più la poesia. Come un qualsiasi lettore ho bisogno di scoprire un mondo diverso da quello che ho intorno, un diverso punto di vista, così poi lo faccio mio, personalizzandolo. Da ragazza aspettavo con ansia l’uscita del nuovo libro di Levi o di Calvino, perché sapevo che nessun altro mi avrebbe potuto dare quella particolare emozione. Oggi è molto difficile trovare uno stile particolare, un guizzo di diversità. C’è stata una standardizzazione della scrittura, anche a seguito del dilagare delle scuole di scritture ed è passata l’idea che la scrittura è solo tecnica, strumenti specifici da usare in momenti specifici della narrazione. Ma dietro ci deve essere prima una necessità, un’idea, un punto di vista. Ultimamente ho trovato interessante Alessandro De Roma con La mia maledizione, soprattutto per l’uso sapiente della lingua. A un ragazzo consiglierei Martin Eden di Jack London e poi tutta la poesia di Hesse. Da leggere a diciassette anni, per non lasciarla più. Delle scuole di lettura so poco. Le posso dire che, nel paese vicino al mio, ogni settimana si incontrano in una libreria le casalinghe a sferruzzare, mentre una di loro, a turno, legge un romanzo ad alta voce per le altre. L’uomo ha un bisogno naturale della narrazione.
Prima ha parlato di ossessività. Quanto è importante per uno scrittore?
Bisogna essere ossessivi per scrivere. E questo vuol dire essere dei maniaci della perfezione, come un cacciatore sulle tracce della sua storia. Ogni giorno batte le sue piste, ancora e ancora, anche quando l’animale sembra essergli sfuggito. Non mollare mai. E poi essere pronti a soffrire, farsi coinvolgere emotivamente, assumere il dolore dei protagonisti.
Ho letto che vuole potenziare nei suoi prossimi lavori l’utilizzo del fantastico, spostando il focus da temi quali la gestione del dolore, la messa in discussione e la fragilità che esse comportano, alla ricerca e la narrazione del bene. Cosa devono aspettarsi i suoi lettori?
Ho chiuso un ciclo di narrativa con questo libro. Ora sono pronta per una fase diversa. Il fantastico avrà una parte importante in questo cambiamento. Sono abbastanza esperta per dedicarmi di nuovo alla narrativa per bambini, che per me è una delle sfide più complesse che può affrontare uno scrittore. A me ha dato una grandissima soddisfazione Cuore di ciccia, testo che ha oramai ben ventidue anni e ancora oggi mi capita di incontrare signori con la barba che lo hanno letto alle elementari e lo ricordano. È lì che formiamo i nostri futuri lettori, perché le emozioni che leghiamo a un libro nella nostra fanciullezza sono vette difficilmente raggiungibili negli anni della maturità.
Prima di lasciarla vorrei chiederle cosa pensa di esperienze come Masterpiece.
Ho partecipato come tutor alla finale e le posso dire che non sarei stata in grado di superare nessuna delle prove che si sono trovati ad affrontare i partecipanti. Io li comprendo. Sperano di trovare visibilità e con essa un editore. Ma non è per la visibilità che si deve scrivere. Si può scrivere un libro per la visibilità, ma l’esperienza mi dice che il primo libro difficilmente va bene e nemmeno il secondo o il terzo o il quarto. Bisogna insistere. Se si è un vero scrittore, si continua a insistere fino a che non ti pubblicano, perché non se ne può fare a meno. Le storie si presentano e bisogna accoglierle e svilupparle. In alcuni testi dei partecipanti a Masterpiece che ho letto, c’era qualche barlume di un possibile scrittore, ma necessitava di lavoro e lavoro e dedizione. Anch’io ho dei libri che non sono mai riuscita a pubblicare. Eppure ho continuato. Ma non so, le prove a tempo, le prove con un limite di battute, mi lasciano perplessa. Io impiego una settimana anche per scrivere una cartolina se mi interessa offrire un’emozione a chi la leggerà. Il discorso è questo: la scrittura ha bisogno di tempo e di approfondimento e non si può fare con un sms. Bisogna offrire al lettore la vita racchiusa in una frase.
Grazie per il tempo che ci ha dedicato.
Grazie a voi.
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