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Intervista a Roberto Ferrucci

Roberto Ferrucci“Sentimenti sovversivi” (Ed. Meet les bilingues)

 

“Se nella tua vita sono tante, di solito, le case che hai abitato, che abiti, e che abiterai, mi sono accorto che fra queste da una parte c’è la casa dello stare, dall’altra la casa dell’essere. Quest’ultima è meglio non coincida con casa tua. È piuttosto un sentimento.” Si potrebbe riassumere in queste poche righe l’essenza più profonda del nuovo romanzo di Roberto Ferrucci. La casa dello stare è, per lui, Venezia, quella dell’essere, Saint-Nazaire.

Ospite del MEET (Maison des Écrivains Étrangers et des Traducteurs), Ferrucci ha la possibilità di riflettere su se stesso e sul proprio paese, senza l’invadenza della quotidianità. Il tempo trascorso lontano dall’Italia, protetto dal calore del suo rifugio di scrittura, si dilata, prendendo forma in ricordi e rabbia. Sentendosi sempre altro, fuori posto, fuori tempo, afono in una nazione di urlatori e commedianti. Annaspando nel protrarsi di giorni sbagliati, inabissato da scelte altrui. Camminando per i viali della memoria, trovando sempre – purtroppo – qualcosa che non va, una nausea che si fatica a tenere sotto controllo. Ferrucci esprime, senza mezze misure, il suo disgusto per la società italiana contemporanea, per la sua classe dirigente e per i suoi stessi connazionali.

Lui e Teresa, la compagna amatissima, sono diversi. Loro soffrono, cercano di urlare il loro disagio, ma poi non possono nulla contro il qualunquismo imperante, e finiscono per chiudersi nell’abbraccio consolatorio del loro amore, per fuggire alla loro stessa rabbia. Ferrucci che parla di politica è un fiume in piena, aspro, straripante, tagliente e distruttore. Nessuna incertezza. Ci sono stati momenti, leggendolo, in cui mi sono arrabbiata, provando io stessa dei “sentimenti sovversivi”. No, non è tutto uno schifo, non siamo tutti rincoglioniti e stupidi, non siamo uno schifo di gente, non tutti. Avrei voluto dirglielo, gridarglielo con gli occhi, sussurrandolo all’orecchio. Ma la passione, politica come amorosa, non contempla le mezze misure. O tutto o niente. O ci credi o non ci credi. E lui ci crede, a ciò che scrive, e questo smorza la mia rabbia.

Poi, voltata la pagina, si scopre lo scrittore di razza, quello preciso, nitido, avvolgente. Saint-Nazaire, l’appartamento al decimo piano del Building, la terrazza sospesa sull’oceano, ti entrano negli occhi, li vedi chiaramente, senti l’odore del mare, il rumore del porto, respiri a fondo e ti trovi accanto a lui, seduto su una sedia da cucina, a guardare l’immensità del mondo da una finestra sconosciuta. Le navi da crociera in costruzione, i paquebot, sono bianche. Il palazzo dei frigoriferi è bianco. Le case sono basse e bianche. Il cielo, oltre l’orizzonte, sopra la testa, è bianco. Le pareti sono bianche. Tutto il bianco percepito (che dà il titolo al primo capitolo) è il cuore di questa storia, che storia non è. Non c’è finzione, struttura narrativa compiacente, né fantasia. È la vita, quella vera, quella che uno scrittore non sa soffocare, cui deve dare voce. Teresa e Venezia. Roberto e Saint-Nazaire. E viceversa. Torna l’irruenza, la forza, la devastazione. L’amore è tutto, per Ferrucci. È passione, tenerezza, dipendenza e lontananza. Nostalgia e desiderio. È Teresa che stempera il suo disgusto, è lei che gli stringe la mano e lo fa sentire completo. È lei la persona da portare nella casa dell’essere, la sola con cui condividerla. A cui regalare, sul finale, le parole più belle.

 

Roberto, come nasce la tua collaborazione con la MEET e il suo direttore Patrick Deville?

 

La Meetè una Fondazione letteraria che invita scrittori di tutto il mondo in residenza a Saint-Nazaire. La residenza consiste in un soggiorno di un mese e mezzo e in una borsa settimanale. Non viene richiesto nulla agli autori, né testi, né conferenze, né incontri nelle scuole. Poi però arrivi lì, in questo appartamento nel quale sai che sono passati decine e decine di scrittori e poeti, vedi i libri bilingue sullo scaffale del soggiorno, libri curatissimi, di autori prestigiosi, come il Premio Nobel del 2000, il cinese Gao Xingijan, e sai che, eventualmente, c’è anche questa possibilità, che un tuo testo venga scelto per la collana “les bilingues”. L’unico editore in Europa, Meet, a pubblicare letteratura contemporanea in volumi bilingue. Ed è noto che la traduzione sia, per ogni editore, un costo faticosamente sostenibile. Mi piaceva quest’idea di un romanzo pubblicato soltanto altrove, quasi inesistente in Italia. Una sorta di fuga della parte creativa del mio cervello, di espatrio intellettuale da un paese in cui la cultura è ormai soltanto un inutile ostacolo a un cammino fatto di vuoto, di arroganza e di superficialità.

 

Sentimenti sovversiviè stato scritto tra Venezia e Saint-Nazaire. La casa reale e quella dell’essere. Ti è mai capitato di sovrapporle, o invertirle, per poi tornare a scinderle?

 

Non saprei dire. Forse è capitato, ma senza che io me ne rendessi conto. Del resto, è l’io narrante del romanzo a fare quella distinzione. Posso anche essere d’accordo con lui, ma credo anche che poi, alla fine, quando scrivi, la tua unica casa è la scrittura. Quando scrivo io sono là dentro. È per questo che mi riesce – e mi piace – scrivere anche fuori di casa, nei caffè, in autobus, nei vaporetti. Quando scrivo, sto dentro la pagina e basta, anche se il discorso sulle case che il protagonista fa in apertura del romanzo, be’, sì, lo condivido.

 

Teresa è una figura femminile di spessore, a cui ti aggrappi per sfuggire al disgusto che genera in te questa nostra Italia. L’amore, oggi, è un sentimento sovversivo?

 

Sì, ma soltanto nel nostro paese (che scrivo minuscolo anche nel romanzo, perché oggi l’Italia è un paese piccolo piccolo, rancoroso, volgare). Oggi in Italia è sovversivo tutto ciò che è normale. È sovversivo esigere una scuola che funzioni, che lo studio sia un diritto. È sovversivo pretendere di essere informati sul serio, che la televisione sia anche uno strumento di approfondimento e non soltanto la vetrina del nulla. È sovversivo, oggi, in Italia, rivendicare la cultura come un valore irrinunciabile. È sovversivo che il Presidente della Repubblica sottolinei l’unità d’Italia e l’obbligo e il diritto di riconoscersi nella Costituzione che, a detta di chi ne sa, è la migliore del mondo. È sovversivo scrivere un romanzo che sottolinei tutto questo e sia, alla fine, un canto d’amore per un paese, il mio, che sembra essersi smarrito del tutto.

 

Sentimenti sovversiviVolevi scrivere, iniziando questo romanzo, una storia d’amore. L’hai fatto, seppur in maniera trasversale. Amore per la tua città, per il tuo paese, per la tua donna. Dopo aver scritto – con competenza e abilità – di sport, attualità ed esperienze di vita, pensi sia arrivato il momento dell’invenzione, di un romanzo fatto solo delle tue parole, dei tuoi desideri, delle tue speranze?

 

Questo tipo di lettura, in scala uno a uno, di un libro, mi mette sempre in imbarazzo. Soprattutto perché è una lettura che avviene solo qui. Da noi. I miei tre romanzi Terra Rossa (Transeuropa, 1993), Cosa Cambia (Marsilio, 2007), Sentimenti sovversivi (Meet, 2010), hanno un io narrante che forse è sempre lo stesso. Forse. Un io narrante che mi assomiglia molto, è vero, ma che non significa necessariamente il me stesso che – forse –  conosco io e che gli altri vedono e, a loro volta, forse conoscono. A me piace pensare alla narrativa come una forma completamente aperta e al cui interno c’è spazio per tutto. Nella mia idea di narrazione non c’è differenza alcuna fra l’auto-fiction e il poliziesco, per esempio. Ancora fatico a capire perché qui in Italia tutti, lettori, critici, editori, e anche scrittori (non tutti per fortuna), pratichino una cesura radicale e verticale. Io, dopo un bel po’ (non molti a dire il vero) di libri pubblicati e una vita dedicata esclusivamente alla scrittura, ancora non capisco dove stia il discrimine fra ciò che è fiction e ciò che non lo è. E sinceramente, nemmeno mi interessa capirlo. I miei editori stranieri non si sono mai posti questo tipo di problema. Per loro la narrativa è narrativa. Punto. Il racconto è racconto. Forse dipende dall’assenza di una tradizione narrativa nel nostro paese. Ma è un discorso complicato. Non è un caso, comunque, che qui trionfi la narrativa di genere, il giallo in particolare, o il fantasy. Abbiamo bisogno di strutture chiare, riconoscibili. Abbiamo bisogno, insomma, anche in questo caso, anche come lettori, di uniformarci. Non so però se ho risposto. Posso solo dire che per ora questo è quel che ho raccontato. Per i libri che verranno, vedremo. Credo sia chiaro, però, che per quanto mi riguarda, questo tipo di questione non esiste. Stai a vedere che il mio prossimo romanzo sarà un giallo? In effetti sto leggendo e rileggendo Simenon…

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