Intervista a Paolo Rossi
L’incontro con Paolo Rossi avviene allo SpazioArte di Sesto San Giovanni, nella periferia milanese, pochi minuti prima della presentazione del libro “La commedia è finita”, nato dallo spettacolo “Povera gente”, scritto da Carolina De La Calle Casanova e dal funambolico attore.
Mai titolo sembra, oggi, più azzeccato. A chi è rivolto questo libro?
Questo libro è una sorta di manuale per attori e per non addetti ai lavori. Sono stati raccolti una serie di dialoghi e discussioni che si scambiano fra di loro gli attori a fine spettacolo… un modo per raccontare la nostra vita. Non mancano riflessioni personali sulla nascita e l’essenza del Teatro Popolare.
A oggi come definirebbe il suo percorso artistico?
Un percorso di passaggio, di chi ha avuto la fortuna di imparare dai grandi e vuole insegnare ai giovani, coinvolgendoli in progetti di ampio respiro: non solo nella recitazione ma anche nella parte organizzativa.
Il titolo fa riferimento anche al momento di difficoltà che il Paese sta vivendo?
Anche. Indubbiamente è un periodo caratteristico per molte ragioni, tra cui la crisi economica che non salva neanche il Teatro, anche se il flusso degli spettatori è in aumento. Forse perché stanchi della televisione, anche se hanno pochi soldi in tasca, escono. Questa crisi ha trasformato il mondo in palcoscenico, la recitazione si è impossessata della realtà divorandola e noi artisti siamo costretti a riflettere su come ribaltare questo andamento. Personalmente, se penso che c’è chi lotta per salvare il suo lavoro in una catena di montaggio, io mi reputo molto fortunato.
Suggerimenti?
Guardare avanti. La cultura può aiutare ad andare avanti meglio, è necessaria come il pane quotidiano.
Com’è che non la vediamo più tanto spesso in TV?
In passato sono stato anche censurato. Loro non mi chiamano e io non chiamo per sapere perché. La televisione non ha più la forza che aveva anni fa, oggi ci sono altri mezzi per comunicare con il pubblico. Adesso ha più problemi del Teatro e a me fa piacere che ne abbia.
Nel libro si parla anche di cattive amministrazioni
Bisognerebbe costringere i responsabili a leggere altri testi contemporanei, a ingaggiare delle compagnie di giovani che altrimenti non potrebbero uscire, poi si dovrebbero abbassare i prezzi. La sofferenza durerebbe solo pochi mesi iniziali, poi di gente a Teatro ne verrebbe di più. Il vero dialogo con il territorio sarebbe quello di chiedere cosa il pubblico vuole vedere, fermo restando che il Teatro dovrebbe essere gratuito destabilizzando un vecchio sistema e cercando altrove le risorse.
Come ha iniziato?
Io? Mi vanto di essere stato doppiamente cacciato dalla Scuola Drammatica: prima come allievo, poi come insegnante. Però ho avuto tanti maestri di bottega, da Dario Fo a Enzo Jannacci a Strehler. Oggi il sistema è molto cambiato, non ci sono più mecenati né veri impresari ma semplici burocrati, non c’è più nessuno che abbia voglia di rischiare in un progetto ambizioso, si pensa solo a capitalizzare.
E chi osasse iniziare a fare Teatro oggi?
Pare che basti farsi invitare a “certe” cene… no, no scherzo! Prima bisognerebbe chiedersi fino a che punto hai veramente talento e fin dove ti può portare. Cercare di non isolarsi, lavorare sempre in squadra. Fare qualsiasi cosa, l’importante è fare anche Teatro di strada, per crescere insieme ai propri compagni.
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