Intervista a Nicolai Lilin: “Il serpente di Dio” e il potere della lettura e della diversità
Nicolai Lilin ha presentato a Mirano, in occasione del festival letterario-musicale MiranoOltre, il suo ultimo lavoro, Il serpente di Dio (Einaudi, Supercoralli, 2014) che racconta le vite di due amici, uno musulmano e l’altro cristiano, stravolte dall’arrivo di criminali e grandi conflitti d’interesse. Ambientato in un piccolo villaggio tra i monti del Caucaso, Il serpente di Dio sembra attuale come non mai dato quello che sta succedendo nel mondo in questi giorni. Abbiamo parlato di letteratura, dei suoi primi approcci alla scrittura, di sceneggiatura, di politica, di Ucraina e di Gaza, e, purtroppo, anche di cose di cui non vorremmo aver mai notizia. Lo scrittore, inoltre, lancia per di più un appello ai giovani: «Leggete!».
Partiamo dal romanzo. Sul suo sito è presentato come la sua prima volta in pura fiction.
In questo romanzo ho dovuto costruire totalmente la trama, a livello letterario-narrativo. È diverso dai miei precedenti libri, che sono basati su esperienze autobiografiche e, nonostante siano sempre romanzi, rappresentano percorsi e personaggi plasmati dalla vita vissuta. Ne Il serpente di Dio uso sempre episodi di vita vissuta – come fanno tutti gli scrittori, anche quelli di fantascienza –, esperienze molto personali da cui parto per raccontare le mie storie; in questo libro però utilizzo queste esperienze come mattoncini con cui costruire una storia che non esiste, del tutto inventata.
Ci racconti della nascita de Il serpente di Dio.
Il romanzo nasce qui in Italia, meno di un anno fa: è una sorta di mia reazione alla situazione geopolitica che si sta vivendo. Vivo con dolore il fatto che oggi le diversità vengano sfruttate da diverse fazioni politiche o geopolitiche come delle armi per manipolare le società. Quella diversità che dovrebbe essere la nostra ricchezza, una delle poche cose che aiuta a conoscere veramente il mondo e a rispecchiarsi in esso, oggi viene riproposta spesso, anche da parte dei mass media, come un elemento di cui dobbiamo avere per forza paura e che dobbiamo fronteggiare con molta attenzione, quasi con sospetto: “Se uno è diverso da me, è uno di cui io non devo e non posso fidarmi”; ecco, questo non va bene. Io sono nato in Unione Sovietica e ho il ricordo di un Paese bellissimo, con 183 etnie che vivevano in pace e armonia, senza mai aver avuto sospetti di questo tipo. In modo particolare non sentivamo questa inevitabile divisione tra mondo islamico e mondo cristiano che oggi viviamo, di cui mi dispiace molto. Il mio fratello minore, Dimitri, si è convertito all’Islam e si è sposato con una bellissima ragazza di Daghestan, paese russo con una maggioranza di etnie di religione musulmana. La mia famiglia vive con molta serenità questa situazione ma spesso dall’esterno, anche da alcuni miei amici, questa differenza è stata vista male: tantissimi vedono la scelta di mio fratello come una cosa molto estrema. Il mio romanzo si basa sul valore della diversità nella religione: i protagonisti sono due ragazzi, uno cristiano e uno musulmano che, nonostante la differenza culturale e religiosa, riescono a sviluppare un rapporto fraterno, come viene suggerito dalla loro stessa comunità, quella caucasica. E il Caucaso è storicamente luogo di una convivenza tra comunità non solo pacifica, ma anche fraterna.
Vite semplici e serene rovinate dall’influenza dei grandi interessi economici, politici e geopolitici quindi. Nicolai Lilin è sempre stato attento e aggiornato sulla situazione ucraina, dimostrandolo sui social con continui appelli, spesso anche direttamente riferiti alle autorità, per esempio Renzi.
Certo. Viviamo oggi un momento molto drammatico della nostra storia: ci stiamo lasciando sconfiggere da quella parte malata e nociva del sistema capitalista. Non dico che il sistema capitalista in sé sia un male, ma come tutti i sistemi ha il suo lato distruttivo e noi oggi viviamo, purtroppo, la prevalenza di questa parte. Ci stanno privando di diritti primari, di sicurezze sociali nel nome di interessi privati, fanno delle scelte terribili a livello politico e io non mi sento di poter rimanere in disparte, specie in un momento storico come questo in cui viene fatta una guerra in Ucraina e si uccidono persone solo perché una certa cricca di politici corrotti degli Stati Uniti deve in qualche modo risanare il terribile debito del suo Paese (17 trilioni di dollari). Ho combattuto cinque guerre, come militare, e prima di queste cinque, all’età di dieci anni, aiutavo la gente a combattere, da mio padre ai miei zii, e per questo so che non c’è niente di più infame e brutto della guerra, che non risolve mai nessun problema. Chi propone l’intervento militare come soluzione di un problema rappresenta il male perché con la guerra non si risolve niente: non esiste che noi, nel 2014, umani dotati di parola e senso della ragione, non si possarisolvere attraverso un dialogo. Usare bombe, minacciare con armi, massacrare i civili (come succede ora a Gaza e in Ucraina) non serve a nulla, ci riporta solo indietro alle nostre radici primitive, rendendoci di nuovo legati a quelle basi animalesche di cui dovremo oramai esserci già liberati, visto che siamo una società sviluppata e moderna. È per questo che io cerco in qualche modo di comunicare le verità; non faccio gioco politico e questo semplicemente perché non sono un politico: sono una persona in grado di fare delle analisi politiche e geopolitiche e da qui mi permetto di dare dei consigli ad alcuni esponenti, anche della nostra politica nazionale, come Renzi, che secondo me non sta facendo un buon lavoro per il quale, da cittadino, non mi sento per niente contento.
Queste sono belle parole. Lei rappresenta anche l’ennesimo paradosso sociale, in quanto personaggio pubblico: un intellettuale che si espone con appelli continui di pace e che proprio per questo suo impegno è vittima di pesanti minacce.
Una situazione avviene nel 2014, non dimentichiamolo, visto che prima parlavamo di un ritorno al primitivo: una persona che richiama alla ragione e solo per questo viene minacciata brutalmente. Queste persone sono estremisti, nazionalisti, nazisti, che si trovano oggi anche sul nostro territorio: ragazzi che hanno subìto un lavaggio del cervello da parte delle forze politiche interessate e che credono di combattere l’ennesima crociata contro un nemico, un Male perfetto. Questo Male oggi, per loro, è rappresentato da me e anche dalle mie due figlie evidentemente, visto che, tra altre minacce, hanno promesso di sgozzarle (una ha sette anni e l’altra ha compiuto pochi giorni fa cinque mesi). È inutile continuare a elencare tutte le altre idiozie di queste minacce. Confido molto nello Stato italiano, sono un patriota: grazie a Dio la polizia in questa fase mi aiuta molto, non sono per niente solo; anzi, sono molto assistito dalla Digos di Milano e da quella di altri paesi; anche questa sera avrò due agenti che mi faranno da scorta. Non ho paura, anche se mi indigno perché nel 2014 ci sono ancora situazioni del genere, se non peggiori. Non incolpo le persone che mi hanno minacciato, io incolpo il sistema politico, sociale e culturale che ha portato questi giovani ragazzi, che potrebbero fare tante cose buone, utili, al livello delle bestie. E questo perché a qualcuno fa comodo che questi ragazzi siano bestie.
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Nicolai Lilin è un autore di madrelingua russa, ma scrive in italiano. Quali sono stati i suoi primi approcci con la scrittura?
In Russia una cosa che mi ha aiutato moltissimo e che forma la base della mia espressione narrativa è la narrazione orale, su cui si è formata la cultura siberiana nella quale io sono cresciuto. Mio nonno mi raccontava tantissime fiabe e questo per me è stato fondamentale. D’altra parte ho avuto anche un’educazione sovietica: nelle scuole russe si leggeva molto, moltissimo, tanti classici, russi e stranieri e questo mi ha aiutato ovviamente a elaborare una forma espressiva tutta mia ma che si basa sui libri che ho letto. Tolstoj, Bulgakov, Dostoevskij, Cechov, Turgenev: per me questi autori sono le fondamenta della mia visione letteraria. Ovviamente non copio le loro opere, ma senza di essi io non saprei come esprimermi. I miei primi tentativi di scrittura sono stati in lingua italiana: non ho mai scritto nulla in russo se non lettere o cose per qualche amico. I primi racconti li ho scritti a Torino. Penso che la barriera linguistica sia più un impedimento tecnico che stilistico: se uno ha un proprio stile espressivo lo esprime in qualsiasi lingua.
Il suo romanzo più famoso, Educazione siberiana è diventato un film, diretto da un maestro come Gabriele Salvatores. Cosa si prova a vedere il proprio lavoro diventare una sequenza di immagini?
Sono sempre sentimenti sicuramente positivi, molto forti, spesso anche contraddittori. Bisogna dire che il film non è e non sarà mai – e sono pronto ad affrontare qualsiasi dibattito su questo con qualsiasi collega – in grado di rappresentare a pieno quello che lo scrittore scrive. Nel mio caso, io sono partito fin da subito con l’idea che Educazione siberiana di Gabriele Salvatores sarebbe stata “Educazione siberiana di Gabriele Salvatores”, la sua visione alla quale io ho partecipato con grande entusiasmo. Io amo quest’uomo, a mio avviso è uno dei più importanti e talentuosi registi italiani che hanno fatto la storia del cinema italiano, e mi sento orgoglioso che un personaggio di questo livello abbia amato il mio libro, si sia sentito profondamente all’interno di una mia storia e che abbia voluto interpretarla sullo schermo. Gli ho dato tutto il mio sostegno: abbiamo scritto assieme la sceneggiatura, l’ho seguito in quasi un anno e mezzo di lavoro molto duro, assieme ai due sceneggiatori, ma nonostante ciò ho preferito non essere inserito tra chi si è occupato della sceneggiatura, dato che volevo preservare il ruolo di scrittore. Il film è sicuramente bellissimo ma già dall’inizio si capisce di trovarsi davanti a una storia parallela: non è un tentativo di ripetere il libro sullo schermo, ma ricrearne la storia prendendone spunto.
Sceneggiatura e scrittura sono due cose molto diverse, non dev’essere facile.
Molto diverse, com’è molto difficile vedere il proprio libro diventare film: io sono solito dire – estremizzando – che, in modo particolare all’inizio, per uno scrittore che non ha mai avuto approcci con la sceneggiatura è come vedere un proprio figlio durante un’autopsia, è quasi drammatico a volte. Andando avanti però si capisce che proprio questa forma di trasposizione – il fare a pezzi una narrazione letteraria, creandone una cinematografica – è l’unico modo per realizzare un film. Cosa che io ho imparato strada facendo: all’inizio ero molto spaventato e preoccupato leggendo le prime versioni della sceneggiatura. Noi scrittori vogliamo molto bene ai nostri libri ed è giusto che sia così: uno scrittore che non ama il proprio libro non è uno scrittore. Sono come i nostri figli, se non li abbiamo fatti con amore significa che non abbiamo scritto una cosa con l’anima. È normale che molti di noi si sentano preoccupati quando vengono a contatto con la trasposizione cinematografica: tantissimi miei colleghi scrittori, quando avevo iniziato a scrivere i primi pezzi con Gabriele, mi dicevano «Nico ma cosa fai? Attenzione! Guarda che col mio libro hanno fatto una cosa terribile, l’hanno trasformato, io non lo riconoscevo». Questo è dovuto al fatto che noi scrittori tendiamo a essere un po’ arroganti nei confronti del mondo cinematografico, perché pretendiamo che la nostra visione, che non sa nessuno dato che ognuno di noi ne ha una diversa, sia condivisa da tutti: quando ho scritto il mio libro lo immaginavo in un modo, ma so che ogni lettore che lo legge ne ha uno differente, dai protagonisti alle azioni.
Vuole fare un appello pubblico tramite Sul Romanzo?
Sì, ma preferisco evitare il tema politico. Voglio fare un appello, come faccio anche tramite Facebook e Twitter o durante le presentazioni che mi portano in tutta Italia, ai giovani: li invito a pensare e leggere, dato che il pensiero nasce dalla rielaborazione dell’informazione percepita. Informazione percepita che oggi non è la visione storica che ci propongono i cartoni di Walt Disney. Io sostengo che la più autentica percezione della vita risieda nella letteratura, come sempre è stato e sempre sarà: solo attraverso la dimensione letteraria possiamo entrare all’interno delle situazioni, dato che la letteratura dà la possibilità di fermarsi e riflettere. Il cinema e altre forme d’espressione simili sono tutte bellissime ma non hanno questa “capacità”: in un’ora e mezza sono proposte delle immagini senza dare la possibilità di fermarsi e riflettere all’interno della storia come si può fare con i libri. Le nostre idee, la nostra coscienza – sia politica che sociale – nasce dalla lettura. Il mio unico appello ai giovani è Leggete! Tutti libri, tutto quello che c’è (basta, ovviamente, che non siano libri di Bruno Vespa). I classici! Qualsiasi cosa che ha formato la ricchezza dell’umanità: bisogna entrarci dentro, capire come gli autori pensavano perché attraverso la percezione dei pensieri altrui sviluppiamo i nostri pensieri e in questo modo possiamo diventare grandi uomini del domani. E quando nel domani i grandi uomini saranno abbastanza sono sicuro non ci sarà nessuna guerra, nessuna violenza e non ci sarà bisogno di fare nessun appello politico, perché quando ci sono persone intelligenti e istruite, che conoscono il mondo e riescono a rispecchiarsi in questo mondo in modo dignitoso e onesto, allora non c’è nessun bisogno di fare le guerre.
Facciamo nostro questo appello e ringraziamo Nicolai Lilin per questa piacevole e intensa conversazione.
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