Intervista a Michela Murgia
Michela Murgia è una forza della natura. Si fatica a starle dietro, un’esplosione di vitalità. Seduta al tavolino, davanti al caffè, afferma con un grosso sorriso “Io non ho bisogno di essere moderata”, alludendo alla sua spiccata capacità di interagire con il pubblico e, quasi, in un certo senso, al fatto di non avere bisogno di una persona che durante la presentazione del suo ultimo libro “L’incontro”, edito da Einaudi, si occupi di questa mediazione con i lettori. Compito arduo da assolvere per chi vi scrive e che si apprestava ad affrontare quel fatidico momento. Del resto, Michela Murgia è un fiume in piena: alterna citazioni dotte a simpatiche divagazioni sulle sfumature degli accenti del dialetto sardo, suggerimenti di romanzi di fantascienza (di cui è un’esperta e appassionata) a consigli culinari (a chi le suggerisce di scrivere un libro di ricette, confessa candidamente “A fine carriera, forse”). Ciò che sbalordisce è l’assoluta assenza di distanza fra la lingua “murgiana” scritta e quella orale, un universo che si spalanca davanti al lettore che la legge e al pubblico che la ascolta in religioso silenzio, rapito dalla pregnanza e allo stesso tempo dall’efficacia di parole misurate e intelligenti che arrivano al posto giusto e al momento giusto. È una che dice pane al pane, e vino al vino, abile a portarti dove vuole lei.
L’Incontro è un romanzo breve o un racconto lungo?
“Sono definizioni da bibliotecario, che servono solo per dare un’idea per la collocazione (sorride, ndr). Quando scrivi, non puoi prefiggerti una quantità limitata di pagine da riempire. Per me la storia che racconto in questo libro è compiuta così come è stata descritta, non c’era bisogno di aggiungere altro”.
Tra i temi affrontati troviamo il gioco e l’infanzia…
“L’infanzia e il gioco sono intimamente legati. Ritengo il gioco qualcosa di serio. Quando si gioca, ad esempio, si apprendono le dinamiche che ci serviranno per la vita, come la vittoria, la sconfitta, la lealtà, il tradimento, il senso del gruppo. Quando incontro qualcuno che non sa perdere e non sa accettare le sconfitte, ad esempio, mi chiedo sempre che genere di giochi facesse da bambino e con chi giocasse. Il linguaggio del gioco è importante”.
Nel romanzo spicca la questione centrale dell’“appartenenza”, a partire dall’arrivo di un sacerdote nella piccola comunità di Cabras che fonderà una nuova parrocchia: alcune scene, come quella delle due processioni, sono memorabili e richiamano le atmosfere alla “Don Camillo e Peppone” di guareschiana memoria.
“Ci sono diversi modi di intendere l’appartenenza: in primo luogo in base allo ius soli o allo ius sanguinis, ovvero la nascita e la famiglia, il diritto di sangue che dice chi sei. Ma c’è anche lo ius voluntatis di cui spesso non si tiene conto, ma che per me è equipollente agli altri diritti. La volontà dell’appartenere, il diritto di scegliere. L’incontro racconta di quanto accade a questa comunità attraverso lo sguardo di un bambino che per la prima volta nella sua vita realizza le dicotomie sulla vita, prova ad approfondire la questione dei recinti – attraverso la lotta tra parrocchie – e degli steccati partigiani che caratterizzano le nostre vite. Certo, ho raccontato questa storia perché in realtà mi piacerebbe che ci fossero appartenenze più inclusive nella nostra società di oggi. Il registro alla Guareschi è voluto e cercato”.
Infine, una riflessione sull’editoria: il numero di libri venduti è in pesante calo, chiudono le piccole librerie, ma soffrono anche i giganti che non se la passano bene. Qual è la soluzione?
“Non so quale possa essere la soluzione, e so che è davvero un momento difficile da ogni angolo lo si guardi. Io sento una grossa responsabilità su di me da quando una lettrice, durante un incontro pubblico, mi fece riflettere sul ruolo che noi scrittori possiamo avere nella promozione della lettura. Da quel momento, mi impegno come posso, come fanno molti altri colleghi, in tutte le occasioni per suscitare interesse verso la lettura”.
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