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Come scrivere un romanzo in 100 giorni

Intervista a Mia Mesty

Mia MestyMia Mesty, pescarese, tre figli, medico. Dopo la laurea in medicina passa quasi tre anni a Philadelphia per completare la sua formazione professionale, poi si trasferisce a Roma, dove lavora in un centro per il salvataggio dell’arto inferiore nei pazienti diabetici. Si iscrive alla Facoltà di Scienze Filosofiche ed esordisce in narrativa col romanzo Con il diavolo in paradiso (Dodo) (Carabba, Lanciano, 2013). Il suo vero nome è Cristiana Di Campli.

Perché uno pseudonimo?

Lo pseudonimo è nato con me, da quando ho iniziato a scrivere a 8 anni. Era un'esigenza primordiale, di distinguere l'anima creativa da quella razionale. In realtà, poi l'ho modificato prima della pubblicazione, ma solo per renderlo più funzionale dal lato comunicativo.

È difficile rinunciare alla vanità del proprio nome sulla copertina di un libro?

Per le ragioni esposte sopra, la mia non è stata una rinuncia, ma una scelta dettata dal cuore in un'età in cui i filtri ridondanti dell'essere adulti non ci sono ancora. Non usare uno pseudomino sarebbe stato tradire quell'approccio atavico, embrionale.

In che modo la consapevolezza che avrebbe firmato il romanzo con uno pseudonimo ha influenzato la scrittura del testo?

Mai pensato allo pseudonimo mentre scrivevo. Mi immergevo nei personaggi, mi lasciavo avvolgere dalle situazioni e dagli eventi descritti.

In che misura la sua professione e i suoi studi sono intervenuti nella stesura di Con il diavolo in paradiso (Dodo)?

La protagonista è un medico. Io sono un medico. Ma la sovrapposizione del ruoli è stata solo funzionale a una migliore resa del canovaccio, ricreando ambientazioni e scenografie usuali alla mia persona. Il romanzo non è un diario della mia vita, né intende attingere dalla mia realtà professionale se non, appunto, per la strutturazione narrativa.

Parliamo di scrittura: qual è stato l'aspetto più gratificante nella stesura di questa storia?

La scrittura ti nasce dentro un po' ogni giorno, si deposita a strati come la lava dopo le eruzioni. Certi giorni riempi pagine e pagine, altri giorni aggiungi poche parole, altri ancora hai in testa il vuoto pneumatico. È una creatura che cresce con te, viaggia con te. La sensazione più bella non è pubblicare, non è sentire le persone che parlano del tuo romanzo, ma rileggere "a freddo" certi passaggi e provare le stesse emozioni che proveresti leggendo un libro che non è tuo. Questo lento e progressivo processo di estraniamento come da un figlio è la misura che quello che hai creato non è più tuo e tuo soltanto, ma vive di vita propria e riesce a scatenare stati d'animo ed emozionare, al di là e senza di te. Scoprire per la prima volta tutto questo è stupendo.

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Mia MestyE quali sono secondo lei gli errori in cui si cade nella scrittura del primo romanzo? Come li ha affrontati ed evitati (se li ha evitati, ora che, come sottolinea, può rileggere il suo testo a mente fredda)?

La prima volta scrivi innanzitutto per te, per dare spazio a emozioni inespresse, a vissuti raccolti per caso che ti sono rimasti dentro, a storie immaginifiche o sospese tra sogno e realtà che per qualche ragione ti appartengono. Il libro è un contenitore al tempo stesso catartico ed espansivo, come la memoria esterna di un computer, dove archiviare, provare diversamente, rielaborare, processare, e, perché no, sperimentare vissuti alternativi. Non sempre trovi il necessario distacco per scrivere, non sempre l'istintivo rapporto empatico con la tua creatura riesce in modo ottimale. C'è sempre il rischio di mettere troppo di te nel testo. Questa è una delle difficoltà maggiori. L'altra è quella di scrivere ovunque quando hai l'ispirazione. Soprattutto se sei in mezzo alla gente, con tanta confusione attorno. Per essere sempre pronta porto le cuffiette dell'IPhone, ascolto musica e mi isolo dal mondo per buttare giù quello che mi viene in mente.

Ha dei modelli di scrittura a cui si rivolge, a cui vorrebbe somigliare – o che cerca disperatamente di non imitare?

Sono nata con i libri di Pearl Buck che mi passava mia madre. Mi sono strutturata con Banana Yoshimoto, Arundhati Roy, Carlos Ruiz Zafón, Arthur Golden, Mario Vargas Llosa. L'Oriente, in particolare, si insinua sempre, come un humus, nelle mie creazioni linguistiche e nelle sceneggiature, in qualche sfumatura, in qualche passaggio più o meno evidente. Tra gli italiani, considero Margaret Mazzantini e Paola Mastrocola delle maestre di stile. Non ho catalogati, invece, esempi in negativo. Anche dagli scrittori meno congeniali al mio lato artistico ho assorbito qualcosa, qualche ambientazione, una frase, una singola parola. Sono onnivora, leggo tutto, ma solo ed esclusivamente romanzi.

Quali ostacoli l’hanno più l'hanno spaventata in questa avventura?

L'ostracismo del mondo editoriale, che non lascia permeare i neofiti. E il fatto di pubblicare in Italia, un Paese che amo dal profondo ma dove molti scrivono, pochi leggono e quasi nessuno si accorge dei nuovi.

Ci può raccontare come è arrivata alla pubblicazione, il percorso, le difficoltà, le frustrazioni?

Ho avuto due madrine d'eccezione, Maria Pia Bonanate e Giulia Alberico, che mi hanno guidato nel bosco incantato della scrittura. Con loro ho vissuto alcuni tra gli incontri più fruttuosi e arricchenti di sempre. Mi hanno preso per mano all'inizio, aperto gli occhi in fieri, risollevato lo spirito quando tutto sembrava perduto e hanno gioito con me quando è uscito il libro. Per il resto la storia della mia pubblicazione è una favola con un personaggio magico, il grande Roberto Pazzi, che per uno strano gioco del destino mi ha condotto tra le braccia della Casa Editrice Carabba, la cui sede è a pochi metri dalla mia casa natia. Incredibilmente il giorno della presunta fine del mondo, il 21 Dicembre 2012, si è chiuso un cerchio magico, che mi ha fatto trovare ciò che cercavo nella mia meravigliosa terra, dove ho le mie radici. Insomma, a volte nella vita è necessario avere il coraggio di credere fino in fondo nei propri sogni. Nihil difficile volenti.

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