Intervista a Giampaolo Spinato, docente di scrittura creativa
L’appuntamento con i docenti di scrittura creativa questa settimana ci porta a incontrare Giampaolo Spinato. Milanese, autore di cinque romanzi, di opere teatrali e numerose altre pubblicazioni tra le quali studi, reading e allestimenti, Giampaolo Spinato attualmente ricopre anche incarichi di docenza all’Università di Ca’ Foscari di Venezia, allo Iulm e all’Università Cattolica di Milano. Da anni tiene corsi di scrittura, anche creativa, e dal 2005 è tra i fondatori di Bartleby Factory, una vera e propria "casa formativa" permanente a cui attingono o contribuiscono anche allievi o ex-allievi e che collabora con enti pubblici e privati nell’area formativa e in quella artistica progettando interventi pedagogici sui linguaggi espressivi, raccogliendo gli strumenti e le metodologie didattiche cross over messe a punto fin dai tempi della formazione nella pratica e nell'insegnamento dei linguaggi teatrali, nell'esperienza letteraria e nei collaudati laboratori di scrittura creativa.
Ma chiediamo direttamente a Giampaolo Spinato di raccontarci il suo esordio come docente di scrittura creativa.
Dopo Giuseppe Pontiggia e Raffaele Crovi, che già negli anni Ottanta avevano cominciato a tenere a Milano dei corsi di scrittura creativa, ho cominciato io. Le prime esperienze di scuola di scrittura si sono concretizzate nel 1995, dopo la pubblicazione di Pony Express (Einaudi, 1995). È nata cosìl progetto Bartleby – Pratiche della Scrittura e della Lettura, con cui ho dato forma a una passione coltivata fin dal periodo della mia formazione come un'attitudine, anzi, di più, direi come una necessità nient'affatto filantropica. Tutta la mia formazione è costellata di iniziative di conflittualità anche con gli insegnanti e le istituzioni. Questo mi ha portato a sviluppare i corsi che tengo tuttora, come continuazione della mia attività, dapprima come corsi di recitazione, che erano e sono l’altra parte della stessa medaglia. Tutte queste attività, infatti, per me sono il controcanto di una stessa ricerca e di tutto il mio percorso.
Curiosa questa immagine della medaglia, ma in che senso non si tratta di filantropia?
Semplice. Non è che io sento il bisogno di trasmettere, ma è che il luogo della pedagogia è, di per se stesso, il luogo della riflessione. Dover aiutare, dover rispondere, ti costringe a riflettere meglio sulle questioni nelle quali giornalmente sei immerso. Di fatto sei con le spalle al muro. Ecco, per questo lo definisco l’altra faccia della medaglia. Questa attitudine l’ho scoperta presto, verso i vent’anni. Spesso discutevo e mi scontravo con i professori perché davo molto valore al tempo che dedicavo a questa attitudine, a questa scelta. Però desideravo che questo tempo fosse dedicato alla scoperta di tecniche, di traduzioni di alcune pratiche oggettive e di metodologie personali. Da lì sono nate le prime iniziative e ancor oggi tutta la mia attività ruota intorno a interventi, teorie pedagogiche, workshop, seminari e corsi veri e propri legati all’attività teatrale, alla drammaturgia. Bartleby è questo, è un’esperienza di cross over di esperienze e discipline diverse.
C'è stata un’evoluzione dei suoi corsi nel tempo? Nel tempo sono cambiate le tecniche o le tematiche?
Siamo partiti da un’idea giovanile che si può anche definire iconoclasta (nella protervia giovanile ci si danno, infatti, traguardi ambiziosi), basata sulla convinzione che non ci fosse un metodo buono per insegnare. Poi il convincimento giovanile è diventato una consapevolezza, la consapevolezza che esistono approcci dai quali si può ricavare una forma di metodo, una disciplina, confacente ai propri scopi. Penso sia un buon punto di partenza, per creare un situated workshop che consente la sperimentazione di nuance, di sfumature, del tutto personali. In merito ai temi ho lavorato su più piani. Uno è quello della scrittura tout court, in un viaggio a cavallo tra la scrittura, la scrittura creativa, le dinamiche della creatività e il miglioramento della creatività stessa, intrecciato con l’area della drammaturgia. Quindi ho cercato di proporre delle esperienze interdisciplinari, applicando l’uso di storytelling al design, sperimentando i vincoli di una scrittura in funzione di uno scopo preciso. Ma le tematiche, ovviamente, viaggiano e cambiano anche in base all’utenza, alle persone con cui lavoro, ma ecco, solo da pochissimo ho accettato di chiamarli corsi di scrittura creativa, solo dopo che, anche in termini popolari, la parola “creativa” si è staccata dal concetto di “pubblicità”. Insomma, una scrittura non deve per forza lavorare in termini di persuasione. Ora ho sviluppato un’area che ripropongo da anni, il Progetto e la sorpresa. Nel calendario dell’attività ci sono più percorsi: quello rivolto a chi si iscrive per piacere, quello rivolto a chi insegna e quello per chi vuole capire e mettere assieme un po’ meglio una propria metodologia.
Come sono cambiati, se sono cambiati, gli allievi (età, sesso, professioni...)?
Sto registrando un boom di iscrizioni (a dire il vero dall’inizio degli anni 2000) che riguarda le persone che pensano di scrivere per tornare ad avere un contatto con se stesse. Ci sono sempre meno persone che vengono con la baldanza di voler pubblicare. In ogni caso chiunque deve iniziare da qui, da un lavoro che non bada solo alla tecnica, ma anche all’emozione, al sentimento, all’umore, alle percezioni. Ci sono persone che hanno capito che prima ancora che la scrittura serve la formazione, e che la lingua serve prima di tutto per ricontattare se stessi. Per molto tempo, qui da noi, in tema di scrittura creativa si è viaggiato in termini di mercato, e ho guardato con curiosità la diatriba tra chi dice che non servono a niente. In generale penso che la consapevolezza dell’utenza sia molto migliorata.
Come interpreta il proliferare di corsi di scrittura in Italia? Sicuramente l’offerta crescente di corsi come il vostro nasce da una domanda crescente. Ma da dove viene tutta questa voglia di scrivere? Soprattutto, non si rischia di alimentare soltanto un aspetto narcisistico fine a se stesso?
Col tempo c’è stato un aumento nella richiesta di corsi. Ma la realtà è che stiamo assistendo a un analfabetismo di ritorno. Questa esplosione di richiesta è la spia di un bisogno, che non è soltanto consapevolezza di una carenza di tecnica. Nel nostro Paese c’è una scuola che non riesce più a formare da questo punto di vista. Pensiamo alle grandiose riforme della scuola superiore: per l’esame finale si è data la possibilità di scegliere tra diversi generi, ma tra tutti questi non c’è il racconto, lo storytelling che noi abbiamo di natura, e che utilizziamo fin da piccoli. Insomma, non è stata neppure presa in considerazione questa idea che poteva essere efficientistica, preparando i ragazzi a una modalità di scrittura che viene sempre più spesso richiesta dalle imprese. In quanto ad altre questioni io penso che la scrittura sia anche un luogo di menzogna. Anni fa l’ambizione si risolveva in velleità, adesso è anche capacità di realizzare qualcosa di notevole.
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Probabilmente il successo dei social network viene da qui?
È naturale, i social network, e il web in particolare, hanno affiancato la televisione nel colmare la necessità che abbiamo di comunicare. In questa piccola porzione di comunicazione c’è l’espressione di un’enorme necessità di conferma di essere vivi. Viviamo in un mondo esasperato dal fatto che esiste solo ciò che si vede in immagine. Personalmente non sono contro nulla, ma penso che il boom dei social network sia anche l’espressione della necessità che abbiamo di avere un luogo dove ritrovarci. Di fronte a questa esigenza è ovvio che si è creata anche l’offerta.
C’è qualche allievo, o qualche aneddoto, che ricorda con piacere?
Di esempi ne avrei molti. Penso per primo al poeta Fabiano Alborghetti, che mi ha ringraziato perché 15 anni fa ha fatto molto fatica, scontrandosi spesso con me nell’abbandonare una scrittura a tratti ancora adolescenziale. Quell’attrito che gli ho aiutato a sviluppare gli ha consentito di creare una sua poetica. Ma ci sono anche altri, persone che lavorano in tv, nel cinema, nel mondo della musica, traduttori e critici letterari. Tutte queste persone che mi fa piacere pensare che abbiano poi trovato la loro realizzazione. Tra gli altri mi piace ricordare due esempi che ritengo emblematici.
Recentemente mi ha fatto tanto piacere rincontrare una persona che aveva seguito uno dei miei corsi all’inizio degli anni 2000. Mi ha scritto una mail dicendo di aver aperto un negozio di fitoterapia e mi ringrazia perché trova un legame con il lavoro fatto con me nel mettere a fuoco le parti di sé, nel chiarire. Di un altro allievo, invece, un ragazzo che ricordo proprio per quant’era bravo a scrivere e per le tante volte che gli ho ripetuto che avrebbe dovuto cimentarsi con il romanzo, ho saputo che si è realizzato poi nell’ambito dell’arte. Se ci pensiamo alcune metodologie artistiche sono perfettamente affini alla narrazione scritta.
Il nome di Alborghetti suscita una curiosità: si può dunque insegnare anche a far poesia?
La poesia, al di là del suo genere, è un improvviso insight, un’improvvisa intuizione. Ma ha bisogno di un lavoro sulla narrazione molto profondo. Dietro una poesia c’è più di un romanzo, anche se non scritto. C’è un distillato di materiali attraverso cui la poesia deve passare e incunearsi, facendo sì che, dalla prosa, si possa distillare quella goccia di poesia. Non si può insegnare l’intuizione, no, ma si può aiutare a lavorare sul testo e sulla narrazione.
Qual è il consiglio o la lettura che vi siete trovati più spesso a ripetere, a citare, durante i suoi vostri corsi?
Faccio sempre l’esempio di Dostoevskij, che si sorprende, mentre scrive L’idiota, di come la storia di sviluppa quasi autonomamente. L’esperienza di scrittura ci insegna che la scrittura è viva, e non esiste scrittura senza lettura. Per scrivere quel racconto che stai scrivendo contemporaneamente è necessario che tu lo legga. La scrittura si realizza in una compresenza, una simultaneità e molteplicità di leggere e scrivere. Solo lavorando, scrivendo, impariamo a capire che sorpresa vien fuori da quello che stiamo producendo.
Qual è il suo rapporto con la rete e cosa pensa dei blog letterari?
Penso che siano un bene, e non solo perché anche io vi ho scritto (su Macchia Nera, su Satisfiction). Certo, fatte salve la lealtà e le buone intenzioni di qualcuno, si tratta di capire fino a dove ci si vuole mettere in gioco. Se un’iniziativa è solo alla caccia di clic non è bene. Un altro aspetto, poi, è legato al contenuto. Sono d’accordo che ci sia tutta questa vivacità online, ma c’è apertura all’esterno, c’è un reale confronto? C’è un contenimento del narcisismo? Anche nei blog, poi, si riversa una caratteristica del nostro Paese, quella di essere molto provinciale: si creano in adolescenza gruppi di amici che vanno avanti per una vita aiutandosi solo l’un l’altro, chiusi al resto del mondo. Se avessimo lievemente un concetto di comunità reale, con le potenzialità che abbiamo, penso che saremmo un Paese veramente all’avanguardia.
Le capita di citare o far riferimento a dei blog letterari durante i suoi corsi?
Sì, mi è capitato durante i corsi, qualche volta, quando trattiamo i modelli di comunicazione più diffusa, di far riferimento a esempi di scrittura presa dal web, e in particolare a blog letterari. Il web, nel bene e nel male, l’ho sempre citato.
Qual è il suo prossimo progetto in generale? E in materia di scrittura creativa ha in mente qualcosa di nuovo?
Il prossimo impegno in ordine di tempo è tra qualche settimana, in luglio, quando parteciperò con un mio paper (The project and the surprise: invisible, “sensitive space” and meanings in writing and reading stories) al Congresso internazionale di studi empirici sulla letteratura dell’Università di Torino. In merito alla scrittura proseguo la mia ricerca, come sempre a cavallo tra studio e insegnamento, a cavallo tra letteratura e teatro.
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