Intervista a Emilia Lodigiani, fondatrice di Iperborea
Nel 1987 si avventurò in un settore che conosceva poco, se torna con la mente al primo anno di attività, che cosa ricorda con più piacere?
In realtà, il primo anno di attività è stato il più tranquillo di tutta la mia vita editoriale, perché all’inizio, quando è nato il progetto, ho studiato come diventare editrice e poi mi sono presentata alla fiera di Francoforte chiedendo agli editori del nord i loro più grandi scrittori, aspettandomi che mi ridessero in faccia e che mi lasciassero tornare a casa con le pive nel sacco, invece con mia enorme sorpresa mi hanno accolto a braccia aperte, stendendo tappeti rossi e dicendo “finalmente qualcuno in Italia si interessa a noi”. Questa è stata la prima gradevolissima sorpresa, poi non si era nei tempi di internet, della velocità delle email, in cui tutto arriva appena richiesto. Dal momento in cui ho chiesto gli autori al momento in cui i libri mi sono arrivati e li ho passati ai traduttori, c’è stato un tempo di circa un mese e mezzo, io nel frattempo iniziavo a essere preoccupata e pensavo che mi avessero preso in giro. Forse il periodo più tranquillo di 28 anni di lavoro fu in quei mesi di attesa durante i quali ho potuto leggere, continuare ad approfondire la mia conoscenza della letteratura nordica e fare tutte le cose che non ho quasi più fatto dopo, se non in modo mirato. Non sapevo assolutamente a quale vita sarei andata incontro altrimenti con probabilità non avrei avuto il coraggio di farlo.
Addirittura?
Sul serio, Morgan, ho incontrato vari editori all’epoca, era il momento d’oro della “piccola editoria indipendente”: negli anni Ottanta continuavano a nascere nuovi marchi, di cui molti sono poi diventati noti, come Edizioni e/o o Marcos y Marcos, l’epoca in cui l’editoria di progetto sembrava divenire un fenomeno pieno di fervore, di iniziative anche collettive, e farne parte è stato come entrare in un’onda ricca di stimoli nella quale appartenere al gruppo dava anche energia.
Quali sono stati i momenti più formativi negli anni di Iperborea?
Tutta la mia formazione è stata fatta sul campo, mentre adesso ci sono ottime scuole di editoria. È molto più difficile oggi cominciare da dilettanti come feci io, la competizione è agguerrita e la formazione è in qualche modo più scientifica rispetto ai miei inizi, però ciò che ho imparato e che tuttora rimane utilissimo è incontrare il maggior numero di persone possibile ascoltando le loro esperienze per tentare di evitare gli errori, ammesso che l’esperienza altrui possa bastare. Non solo errori, anche le illusioni da levarsi, però non troppe altrimenti non si parte nemmeno. La tendenza generale, quando si ha in mente un nuovo progetto editoriale, è cercare di scoraggiarlo. E con cognizione di causa!
Immagino che ci fossero pure i rischi da considerare.
I rischi di smettere e di essere costretti a chiudere dopo tre o quattro anni ci sono, bisogna metterlo in conto, per questo bisogna essere consapevoli e preparati per affrontarli. Mi dicevano, allora, che per pensare di sopravvivere, bisogna superare il fatidico settimo anno che per noi ha coinciso con il primo vero best-seller). Adesso non basta neanche più quello: la precarietà è continua.
Come scopre nuovi testi da far conoscere ai lettori italiani e quali sono i parametri che nel tempo ha fatto suoi per decidere se pubblicare o meno un libro?
Non li ho molto cambiati dall’inizio, e nonostante adesso io continui a valutare testi, sono Pietro Biancardi e Cristina Gerosa che hanno la responsabilità decisionale, c’è stato il passaggio generazionale proprio nel 2014, ma ugualmente i criteri non sono cambiati. Va detto, in primo luogo, come arriviamo ai testi. All’inizio avevo letto molti degli autori nordici soprattutto in francese perché in Francia erano tradotti e un po’ di moda e anche alcuni in inglese, ma molti meno, a quel tempo, a parte la Germania con cui il rapporto è sempre stato strettissimo, era appunto la Francia il paese più attento al nord Europa. I primi venti titoli li avevo scelti perché li avevo letti di persona, poi invece si è un po’ esaurita la serie di quelli che potevo pubblicare avendoli letti in un’altra lingua, perciò ho cominciato a usare, come tutti gli editori fanno, la cerchia di lettori che sono i nostri traduttori e che leggono direttamente nelle lingue originali. A quel punto gli editori nordici conoscevano Iperborea e dei loro titoli che ritenevano più esportabili, ci proponevano quelli con più alto livello letterario e con i temi che da sempre corrispondono ai nostri criteri di scelta. Su tutto quello che esce negli otto paesi di cui ci occupiamo, c’è già quindi una loro selezione che è di circa cento-centotrentatitoli all’anno: noi ne pubblichiamo 18 in dodici mesi (fino a cinque anni fa una decina), inclusi parecchi classici, quindi la selezione è strettissima. Le fonti per sapere cosa esce sono, in sostanza, gli editori o gli agenti nordici che ci mandano i libri, a volte i traduttori stessi che magari hanno letto un libro interessante e decidono di segnalarcelo. Negli anni ci è successo addirittura di ricevere traduzioni già fatte da traduttori talmente appassionati del loro lavoro da aver tradotto un libro senza avere alcuna garanzia che venisse pubblicato e abbiamo deciso di premiare la passione:titoli che forse non avremmo fatto tradurre ma trovandocelo già tradotto abbiamo deciso di pubblicare proprio perché riteniamo che la passione, se possibile, vada premiata. Oltre l’alto livello letterario, gli altri criteri sono quelli di contenuto: ci capita che a volte di un titolo ci interessa il tema o la storia, ma se la scrittura è piatta finisce che ci annoia e lasciamo perdere.
Sembra un ottimo parametro.
Sì, lo è, l’optimum per noi sono libri in cui si trova alta letteratura, belle storie, temi politici o sociali o esistenziali, i grandi temi, ci interessano meno quelli che trattano i problemi quotidiani. Mi trovo spesso di fronte alla considerazione che ci sono poche donne nel nostro catalogo, anche se di recente stanno decisamente aumentando, il punto è che c’è tutta una letteratura femminile, non femminista, ma femminile al nord, in cui si parla dei problemi della vita quotidiana delle donne e io dico la quotidianità la vivo già…
E non occorre portarla in letteratura?
Ho il massimo rispetto per quella letteratura, però preferisco leggere altro, leggere delle vite che non vivo io ogni giorno, alla ricerca di mondi che non conosco.
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Che cosa pensa di Björn Larsson, il giallista che uccide i poeti, che sta avendo un discreto se non buon successo in Italia?
Un buon successo, vero, e a parte l’ultimo libro, collettivamente di tutti i suoi titoli abbiamo venduto quasi 300 000 copie.
Numeri notevoli…
Sì, non solo per un piccolo editore, sono tanti in assoluto e da quando lo abbiamo pubblicato nel 1998 con La vera storia del pirata Long John Silver, che rimane il suo bestseller,trovo che è uno di quegli autori che ha proprio l’arte nordica di raccontare storie, sa tenere la suspense e sa raccontare storie che non sono per niente banali, e hanno sempre dietro un tema di fondo importante e anche spesso premonitore, penso a L’occhio del male sull’attentato nella metropolitana di Parigi da parte di un fondamentalista islamico, storia che aveva scritto alcuni anni prima della tragedia delle torri gemelle, quando me ne aveva parlato io addirittura gli avevo detto “ma cosa ti salta in mente, figurati se una storia del genere può succedere”…
E invece…
Mi ricordo che avevo molto tentennato, mi piaceva il tema che non era il fondamentalismo, ma era il tema del male vero, perché l’uomo arriva a essere, diciamo, cattivo, malvagio, perché disumanizza il nemico, gli interessava molto il processo di totale disumanizzazione che ti porta a non considerare più l’altro come uomo bensì come una cosa che puoi ammazzare o torturare perché non ti appartiene. Raccontò a quel tempo una storia avveniristica divenuta poi realtà. Oppure penso al Segreto di Inga, adesso si parla moltissimo dell’importanza della trasparenza totale o della necessità comunque di un segreto nei rapporti umani, è il tema dell’ultimo libro di Claudio Magris per esempio. Björn Larsson tratta sempre temi forti e ha le antenne che captano i fenomeni della contemporaneità.
Iperborea è una casa editrice con un catalogo variegato, basato su una ricerca di qualità e che gode di numeri importanti. Qual è la speranza per il vostro futuro, soprattutto pensando alla distribuzione omologante che, gestita dai grandi gruppi editoriali, genera sempre più una bestsellerizzazione, perdoni il termine, del mercato e che ahimè condiziona i piccoli editori?
Io sono ottimista di natura e ho fiducia che la qualità, alla lunga, venga riconosciuta portando buoni risultati, anche dal punto di vista economico. Abbiamo a che fare con paesi, quelli nordici, in cui questo è più che dimostrato, se prende i paesi che hanno più investito nella cultura e nella scuola, hanno tante università popolari che mettono al primo posto una continua formazione, con numeri di iscritti incredibili, perfino negli angoli più sperduti della nazione. Hanno biblioteche eccezionali ed eccezionali tassi di lettura, e adesso, a distanza di anni, si vede che sono nella top list di tutte le statistiche legate al benessere delle persone. Io credo che nel lungo termine la qualità resta premiata.
Mi sta dicendo che se si investe in istruzione e in cultura ci si può permettere di avere case editrici con cataloghi migliori?
Questo sì! (sorridendo)
Sembra un’ovvietà, ma noi italiani facciamo ancora fatica a capirlo, vero?
Purtroppo è vero esi sente ancora di più in un momento di crisi come questa. Visto che i tassi di lettura in Italia negli ultimi dieci anni invece di crescere sono calati ulteriormente, noi editori di catalogo dobbiamo inventarci anche attività collaterali per sopravvivere. Crediamo molto nella necessità di una continua innovazione tecnologica: siamo stati tra i primi editori in Italia a vendere e-book, ogni nuovo titolo esce nelle due versioni, cartacea e digitale, abbiamo più della metà del catalogo storico già disponibile e continuiamo a farlo: pensiamo che soprattutto i giovani siano molto sensibili al prezzo dei libri e questo sia perciò anche un modo per garantirci di averli sempre tra i nostri lettori. E vediamo buoni segni di un incremento delle vendite che comincia a diventare finalmente significativo. E poi stiamo investendo molto nel marchio: si sa che Iperborea vuol dire Nord Europa, abbiamo intorno una rete di appassionati e di sostenitori che ci ha spinto ad allargare i nostri interessi non solo alla letteratura, ma alla diffusione della cultura nordica in generale, per diventare sempre più un punto di riferimento per tutto quello che interessa quell’area geografica in Italia. Per esempio organizziamo festival: quest’anno il nostro quarto, Caffè Helsinki (www.caffehelsinki.it), dedicato alla cultura finlandese (letteratura, lingua, cinema, musica, fotografia, design e perfino cucina), organizziamo corsi di lingua, conferenze-lezioni, corsi di editoria. Alcune sono attività anche economicamente redditizie che ci portano quella liquidità indispensabile percontinuare a investire in cultura e tutte comunque ci permettono di creare una maggiore fidelizzazione dei nostri lettori e di mantenere con il mondo nordico dei rapporti privilegiati.
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