Intervista a Dacia Maraini: un viaggio fatto di libri
Il primo romanzo che ho letto di Dacia Maraini è stato il mémoire La Nave per Kobe. Diari giapponesi di mia madre (Rizzoli, 2012), ben prima dei grandi classici come La lunga vita di Marianna Ucrìa (Rizzoli, 2012) o Bagheria (Rizzoli, 2012). Forse perché, un tempo, ero più suscettibile al fascino dello scrittore straniero, che immaginavo mi potesse offrire quanto di più diverso potesse esistere da ciò che avevo intorno. Con gli anni fortunatamente alcune idee giovanili mutano. Ma La nave per Kobe ha subito catturato la mia attenzione perché è disseminata della malinconia del viaggio, che ne modella le aspettative e le paure con lieve e inarrestabile cadenza, come una bolla di vento tiepido intrappolata in una mattina nervosa. Mi piacerebbe partire proprio da quest’immagine per chiederle quanto il viaggio fisico, che ha segnato l’inizio della sua vita, abbia influenzato quello mentale grazie al quale ha creato le sue storie.
Il viaggio è stato sempre una costante nella mia vita, fin dall’esperienza del Giappone. Io vivo viaggiando. Il primo sapore che ho conosciuto è il sapore del viaggio. Anche adesso sono in partenza e, se non è un viaggio fisico, c’è quello mentale a scortarmi. Il viaggio è un processo di conoscenza. È lui a disegnare il mio rapporto con il mondo.
Qualche settimana fa ero al Teatro De’ Servi a Roma, dove lei ha inaugurato una serie di incontri dedicati alla lettura, promossi dalla rivista letteraria «Orlando Esplorazioni». L’obiettivo del progetto è creare una vera e propria “scuola di lettura” che invogli le persone a leggere, per sfatare il mito di un Paese (l’Italia) di scrittori che non leggono. Ci racconta come mai ha scelto di prendere parte a quest’iniziativa? E il libro, che necessita di attenzione e “connessione dedicata” da parte del suo lettore, può farcela a vincere la battaglia con il multitasking e i social network, su cui gli italiani spendono almeno due ore e mezzo al giorno?
Si legge poco in questo Paese e si scrive troppo. Chi scrive dovrebbe leggere moltissimo. Le “carriere” di lettore e scrittore sono fittamente intrecciate. C’è qualcosa di nevrotico in questa smania di scrivere senza avere la voglia, la necessità e l’umiltà di leggere. È come se si volesse comporre musica senza conoscere Bach, Paganini, per citare i grandi; senza dimenticare i contemporanei, chi compone ora, in questo secolo, in questo momento. Con questo non voglio dire che la necessità che le persone hanno di scrivere sia negativa. Hanno bisogno di scrivere, perché vogliono esprimersi e questo è un bene. Ma è ingenuo pensare che l’istinto basti a creare un collegamento con il lettore. Se lei amasse canticchiare mentre si fa la barba, non penserebbe subito di essere pronto a cantare Rigoletto al Teatro dell’Opera. Serve studio, dedizione, lavoro, anni, senza la certezza di arrivare. Si tende a semplificare troppo il lavoro dello scrittore: “siccome io parlo e penso, allora io scrivo”. Non funziona così e pensarlo indica poca serietà. I social network e il loro utilizzo smodato rappresentano una fase di euforia. Nel nostro Paese siamo facili all’entusiasmo e all’innamoramento per le novità, soprattutto se si traducono in una forma apparentemente più immediata e accessibile di comunicazione. Ma si tratta di una falsa pista. Alla lunga le persone si stancheranno, rendendosi conto che queste reti virtuali amplificano la solitudine da cui cercavano di fuggire.
Cosa direbbe allora a un non-lettore per spingerlo a provare questa esperienza, magari staccandosi per mezz’ora al giorno dal suo social network preferito?
Gli direi che con un libro potrà imparare a comunicare molto meglio. E non solo per la capacità di esprimersi, che si arricchirà, ma perché chi legge diventa protagonista del libro in cui si avventura. Lo riscrive. La ricezione della storia è nella lettura un processo attivo, che ha bisogno di una forte dose di immaginazione per mettere in moto la narrazione, in un modo che spesso è sconosciuto allo scrittore. Questa particolare alchimia è possibile solo con la lettura.
Lei ha scelto di presentare un libro simbolo dell’italianità, un libro che è conosciuto da tutti, ma forse oggi letto veramente da pochi. Parliamo di Pinocchio di Collodi. Come mai ha fatto questa scelta? E pensa che possa essere una lettura interessante anche per un adulto?
Tutti i buoni libri per l’infanzia possono essere letti anche da un adulto, perché nascondono tante possibilità di interpretazioni, tanti livelli di lettura della stessa storia. Pinocchio è una favola, certo, ma è anche un libro sulla contrapposizione fra menzogna e verità, sull’onnipotenza di un essere umano che ne crea un altro, sulla povertà, sull’Italia, sulla famiglia. Ma per me è soprattutto una grande metafora sul desiderio di paternità. Un tema che la letteratura tratta raramente. I ruoli sociali sono talmente definiti e standardizzati da lasciare poco spazio alla libera espressione della paternità. E, se ci sono vari esempi di storie in cui padri e figli si confrontano e si scontrano, è difficile trovare una storia che raccolga come Pinocchio l’essenza dell’amore di un padre per il suo bambino, e ancora meno il desiderio di paternità, che ha la stessa dignità del desiderio di maternità nella donna. L’uomo così viene privato del rapporto con l’infanzia e questo non è giusto.
Molto spesso nei suoi interventi e, da ultimo, anche all’incontro inaugurale della scuola di lettura di «Orlando Esplorazioni», ha ricordato l’importanza dei dettagli, e che è proprio da questi che lei riconosce uno scrittore. Io, per esempio, ricordo molto bene, nella Nave per Kobe, la descrizionedel baule che usava sua madre per i viaggi e di come lei ci si nascondesse dentro, quando era aperto e poggiato per terra in verticale a mo’ di libro. L’attenzione per il particolare e il conseguente approfondimento emozionale e razionale necessario per distillarlo, sembrano oggi trovarsi in difficoltà. Li vedo messi all’angolo dalla necessità di passare al prossimo argomento, al prossimo amico in chat, al prossimo incontro. Pensa che l’approfondimento e l’amore per il dettaglio abbiano ancora un mercato e un pubblico?
L’approfondimento ha certamente un mercato, anche se di nicchia. Ci sono molti modi di leggere i libri. Per alcuni, leggere è come bere una birra: la storia deve trasportati lontano, senza chiederti troppo in cambio. Poi c’è chi preferisce il vino o il cognac, e i tempi si allungano. C’è il lettore più raffinato, quello che ha bisogno di stimoli crescenti, di motivi solidi per continuare la sua lettura. Per lui leggere non serve solo a passare il tempo, ma a porsi delle domande. Questo lettore cerca uno scrittore con un proprio stile e sa quale emozione si cela dietro una metafora perfetta, quando lo stile diventa musica. La gente spesso non vuole davvero godere le cose: le vuole solo ingoiare, consumare. Ma ci sarà sempre una richiesta di profondità, anche se minoritaria.
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Cosa pensa di eventi come Masterpiece, in cui diventa difficile conciliare approfondimento e intrattenimento?
Ho registrato un mio intervento a Masterpiece. Penso che, prima di fare una trasmissione sulla scrittura, sarebbe utile farne una sulla lettura. Per creare il buon lettore, quello che si interroga e che pretende. Creiamo un lettore migliore per avere uno scrittore migliore. Ma non ho nulla contro format come Masterpiece. Quando si parla di libri, va sempre bene.
Prima di salutarla, mi piacerebbe parlare del suo ultimo libro Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza (Rizzoli, 2013), in cui ho ritrovato molta di quella voglia di mettersi in discussione che amo in uno scrittore. Quella necessità di dubitare dei propri più che degli altrui dogmi; approccio che soprattutto in autori consolidati è difficile avvertire. Il suo sentirsi così diversa e allo stesso così simile alla Chiara emblema della lotta silenziosa e imperterrita con cui le donne hanno dovuto dissodare ogni loro giornata dall’inizio dei tempi, scorre limpido in tutto il libro. Con il suo testo si entra in una strana nicchia dell’animo umano. Una caverna oscura in cui una luce sottile e precisa entra e ci colpisce, come accadeva in una fotografia del 1955 di suo padre intitolata Raggio di luce. Come ha acchiappato questo raggio e con esso l’idea di scrivere di questa figura così nota eppure così poco imitata?
Da tempo mi occupo degli scritti di donne che hanno fatto del misticismo la loro fonte di vita primaria. Ho scritto un testo teatrale su Caterina da Siena (I digiuni di Santa Catarina) e ultimamente ho cercato di far conoscere personaggi come Juana Inés de la Cruz, suora e libera pensatrice argentina del XVII secolo. Mi interessa il tema della reclusione, la situazione in sé e la scrittura che si genera nella e dalla reclusione.
Approfondendo la storia di Chiara di Assisi per il suo libro, cosa ha scoperto che non si aspettava di questa donna?
Lo studio necessario a scrivere questo libro mi ha fatto approfondire la mia conoscenza del Medioevo, un periodo di grande repressione e al contempo di grande visionarietà. Una dote che scarseggia in questi tempi. Ho compreso meglio anche Chiara, una donna di straordinario coraggio, forza e intelligenza strategica; una persona che vale la pena di conoscere.
Grazie per il suo tempo e a presto.
Grazie a voi.
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