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Interviste scrittori

internodue: Luigi La Rosa “Langueur”

Il pleure dans mon cœur

comme il pleut sur la ville,

quelle est cette langueur

qui pénètre mon cœur?

   […] 

                                                           (Paul Verlaine, Piange nel mio cuore)

 

 

Il caffè è sempre lo stesso, come il grigio di Parigi, da quando Emilio c’è giunto con l’intera classe al completo: la quinta ginnasio del liceo classico che frequenta.

E sono trascorsi già tre giorni, germogliati e avvizziti nel pallore di quella stessa timida luce.

Il rituale pressoché immutato ha qualcosa di spaventosamente perfetto, che fa pensare all’ingranaggio oleato d’un orologio, o di un pendolo.

Emilio ci pensa di continuo.

Ci pensa quando, puntualmente, poco prima del raduno delle cinque nella fumosa hall dell’albergo, scavalcando il controllo nevrotico della professoressa D’Agati, si lascia afferrare dalla smania d’uscire e si tuffa in strada.

Il percorso non cambia mai.

Pochi passi all’interno del vialone trafficato, poi il marciapiede, sul lato opposto del boulevard.

Infine l’arco, il cancello, e l’ammattonato erboso, su cui la scritta è scolpita in lettere quadrate e solenni: Cour du Commerce Saint André.

E’ allora che tutto ha inizio. Le voci, le parole, che cadono una sull’altra con la loro musica di pelle e pianto. Violoncelli dal fiato azzurro. Fremiti ciechi.

Il pleure. Comme il pleut sur la ville.

Pure la pioggia è identica.

 

***

 

Quando è che ha posato per la prima volta gli occhi su un ragazzo? Emilio non saprebbe nemmeno dirlo.

Forse, perché non c’è stata una prima vera volta, avendo sempre guardato così i ragazzi, con quella fame vorace in corpo, quella specie di vitalità immensa e stuporosa.

La prima volta riguarda Luca, semmai.

Sì, Luca.

Perché è da quando l’ha incrociato in fondo all’aula di scienze che Emilio è certo d’amarlo e di desiderarlo, anche se non gliel’ha ancora rivelato, e non sa se riuscirà mai a trovare il coraggio di farlo.

Si è solo limitato a studiarlo, bevendosi in silenzio la costellazione stellare delle sue piccole vertebre sotto la maglietta leggera, o la limpida pendenza della sua nuca, nella primavera di luce che è il banco davanti a lui, dove il compagno siede, in compagnia d’un ripetente.

In più d’un caso hanno scambiato qualche parola, qualche barzelletta idiota, e un mozzicone di sigaretta tra i corridoi di scuola. Ma niente di più.

Ogni volta il nodo alla gola ha reso l’aria irrespirabile, e il cuore di Emilio s’è messo a pompare, pompare, pompare sempre più velocemente.

 

***

 

Quelle est. Cette langueur. Qui pénètre mon cœur?

Riecco le voci, le parole. Ecco che tornano.

Sur la ville. Il pleure.

E le mani, ecco quelle mani invisibili e scaltre, che lo tastano dappertutto, e sembrano guidarlo giù, fino al caffè in fondo della strada.

Emilio non può che lasciarsi andare, che obbedire alla strana possessione che da giorni sente aleggiare intorno.

Da tre pomeriggi attraversa il cortile navigando con la base maldestra delle scarpe da tennis sui lastroni scivolosi del sentiero parigino.

Si ferma solo davanti all’ampia vetrina, dove non ha il coraggio di fermarsi.

E spinge la maniglia della porta blu piccione, senza un briciolo del coraggio necessario a spingerla.

E’ qui che l’uomo entra, mescolandosi ai clienti del locale.

Poi va a prendere posto nella saletta interna, sempre la stessa, e incomincia a scribacchiare su fogli di giornali, alle spalle la specchiera vagamente usurata.

Emilio lo segue fin dalla prima volta, ma allora era appena arrivato, e si sentiva ancora piuttosto frastornato dal viaggio.

Era stato per puro caso che l’aveva intravisto. Brividi freddi s’erano rappresi sugli occhi come nebbiolina urticante. E aveva avuto l’impressione che l’altro lo indicasse in silenzio.

Nei giorni successivi Emilio ha imparato a guardarlo meglio. E ad ascoltare. E’ allora che ha sempre creduto di riconoscerlo, fin dai suoi passi maltrattati, dalla strisciante camminata sghemba, mentre le parole riprendevano, a fiotti, e il nervosismo chiudeva il cuore in una impenetrabile morsa di gelo.

 

***

 

Non l’ha raccontato a nessuno. Non ne ha fatto parola con Mario né con Michele, suoi compagni di camera.

Neppure la storia dellosconosciuto sarebbe in grado d’infrangere la barriera di supponenza ch’è abituato a scorgere nei loro occhi.

Che dire, del resto?

Che un signore dall’aria famigliare l’ha adescato per strada e che lui l’ha scioccamente seguito, e da allora si fissano, e lui non smette di spiarlo?

Emilio pensa che non capirebbero. Hanno fatto insieme le medie, Michele è addirittura suo compagno di banco da due anni.

Lui li rispetta. Loro rispettano lui. Ma nessuno dei due darebbe credito a una sola di quelle sue parole.

 

***

 

Ha ripreso a piovere. Piove, piove, piove sempre a Parigi. Il cielo s’è fatto nero come il livido lasciato da una brutta abrasione.

Emilio si domanda se non sia tutto frutto della sua immaginazione. Forse quel tipo se l’è inventato fin dal principio.

Quell’uomo si materializza veramente solo quando lui decide di pensarci. Non esisteva prima del suo arrivo, e probabilmente non ci sarà quando lui sarà ripartito.

Eppure Emilio è sfiorato dal dubbio che esista perdavvero. Non ha scelto lui di andargli dietro, né di spiarlo tra i tavoli del caffè.

E’ stato quello a chiamarlo, con quel cenno terrorizzante delle pupille solcate dalle lacrime. Sì, Emilio giurerebbe che erano lacrime.

E non capita tutti i giorni di vedere un uomo di quell’età piangere con lo scoramento immane di un bambino.

 

***

 

Stamani Emilio non ha nemmeno fatto colazione, perché era come se una dolcezza inusuale, una sazietà simile alla nausea avesse invaso il suo risveglio.

Cette langueur. Qui pénètre mon cœur.

Le parole tornavano a farsi udire mentre il pullman avanzava in direzione del centro del parcheggio, e Versailles si stagliava nitida sulla pianura.

Luca sedeva al suo fianco, ed Emilio l’aveva contemplato per tutto il viaggio. Si era sorpreso non poco che fosse stato l’altro a proporgli di sedersi vicini. Non lo faceva da tempo, e l’emozione dava a Emilio un autentico capogiro.

Poi l’altro aveva smesso di parlare e s’era messo a dormire.

Emilio aveva continuato a fissarlo, felice, la testa reclinata sull’imbottitura del cuscino.

Un’esangue striscia di sole tagliava morbidamente il profilo dell’amico, imperlando le labbra chiare.

Emilio aveva inseguito lo splendore di quella luce e aveva stretto le gambe per l’erezione che si faceva largo nei calzoni.

Era stato allora che aveva percepito di nuovo quelle parole e la loro infelice musica, ricordandosi che si trattava di versi – i versi di una poesia importante, come ripeteva compunta la loro ex professoressa di francese - perché tutto a un tratto Emilio si ricordava ora pure del martedì interminabile in cui erano stati costretti a impararla a memoria, quasi fosse una canzone, e nel ricordo provava un pizzico di assurda felicità.

Quel poeta morto giovane parlava di malinconia, una malinconia greve, poetica, profonda quanto un vizio.

Non era sconveniente ridere di parole così tristi?

Eppure Emilio s’era ritrovato a farlo, senza nemmeno conoscerne la ragione, ma nascostamente, come quando non vogliamo che gli altri si accorgano di qualcosa, perché gli era tornata alla mente la vicenda dello sconosciuto, del caffè, delle sue fughe pomeridiane nello stretto cortile recintato dai cancelli.

Riaprendo gli occhi Luca l’aveva scrutato insospettito. I suoi occhi marroni erano talmente belli che Emilio non riusciva a trovare la forza di sostenerli.

S’era voltato dall’altra parte fissando la superficie lucida del finestrino, su cui annegava il riflesso dei loro visi. Aveva provato a balbettare qualcosa.

Ma la voce era morta in gola, e l’altro aveva fatto finta di non sentire.

 

***

 

Quest’oggi l’acquazzone s’è placato in un baleno, e la luminosità della sera indora già lunghe falci di tenebra al di là delle punte aguzze dei comignoli.

Pure stavolta Emilio è fuori senza ombrello. Ma tanto non sembra affatto essercene bisogno.

In ascensore non lo ha incrociato nessuno, né alla reception, e molti dei ragazzi dormono ancora, oppressi dalla stanchezza dell’escursione.

Neppure Mario e Michele si sono accorti della sua fuga.

Emilio è divenuto abilissimo nello sganciarsi dal gruppo con la scioltezza di un felino.

Nessuno sembra chiedersi dove diavolo possa andare tutti i pomeriggi alla stessa ora.

Nessuno sembra più voler pensare a poesie che parlano di tristezza e di cuori sopraffatti dal dolore.

Eppure, s’interroga Emilio nell’oltrepassare l’elegante arcata di pietra che lo conduce dritto all’ingresso del caffè, non è esattamente l’adolescenza la stagione che i poeti prediligono?

Non è questo dolore più afono e crudele d’un soffio, questo bisogno d’amore irraccontabile, che passa di bocca in bocca, che tesse le dita tra le dita?

Non il volto dorato di Luca, le linee di quelle labbra un po’ prominenti, che lui è sempre morto dalla voglia di baciare?

 

***

 

L’uomooggi siede più giù, all’angolo del tavolo. Emilio l’ha riconosciuto in un istante. Ha una lettera tra le mani, e le palpebre rosa di chi ha pianto.

Emilio lo studia attraverso la lucentezza del cristallo che ha davanti: il calice segnato a metà dal verde clorofilla del suo strano liquore, e il cucchiaio forato in cima, di fianco a una montagnola di zollette di zucchero.

Possibile che sia lui? All’improvviso Emilio comprende, ormai il dubbio lo tormenta con l’insistenza di un tarlo.

Trattiene a stento il pulsare del petto. Si volta, cercando grottescamente aiuto con gli occhi, ma nessuno fa caso al suo appello disperato.

Non ha mai creduto ai fantasmi, eppure è certo di ricordarlo benissimo quel volto. Quella fronte sporgente, quegli occhi maestosi, la riccia barba scura.

Stava sul libro di letteratura, con quello etereo del suo giovanissimo amante. Emilio vorrebbe saperne di più, ricordare meglio cosa è accaduto, comprendere la reale ragione di tutte quelle lacrime. Ma non sente nulla, non vede nessuna cosa. Nella sua testa c’è il vuoto più assoluto.  

Si accorge di non riuscire a muoversi, di non avere parole, né respiri, e scopre che fuori sta daccapo piovendo, perché a Parigi piove sempre, pure sotto il sole, pure quando il cielo è dell’azzurro musicale d’un aprile, ed è come se venissero giù tutte quante le lacrime del mondo.

 

***

 

Dopo cena Emilio decide di restarsene in albergo. Non ha nessuna voglia d’uscire col resto della classe. Detesta le discoteche.

Il pensiero di quel che ha visto è ancora forte, troppo forte, e gli crea una specie d’oppressione in mezzo al petto.

Quando s’è allontanato dal caffè, l’uomo non l’ha seguito. E nel rientrare in albergo, solo il professore di chimica s’è accorto della sua assenza.

Ma per fortuna non ha indagato più di tanto, e poi, Emilio potrebbe sempre giustificarsi dicendo d’essere uscito a telefonare.

Sono tutti fuori, adesso. E’ solo. Dal pianoterra i rumori giungono attutiti come se si propagassero dal fondo di un oceano.

Nella bassa luce della lampada da lettura Emilio solleva lo schermo del portatile, e accende il computer, avviando la connessione a internet.

Recupera a malapena un nome nella ressa dei ricordi. Lo digita in fretta, spinto dalla furia e dall’ansia.

Il lampeggio del cursore si apre su una fitta colonna di risultati. Lettere e cifre scorrono rapide sulla pagina.

Emilio trema per l’eccitazione, poi per la paura, per la certezza tremenda di quel che sta per rivelarglisi.

 

***

 

Paul Verlaine. E’ lui, l’uomo del caffè.

Emilio crede di svenire.

La foto del poeta sembra osservarlo incorniciata da un intrico grafico di esili foglie d’edera.

Dalla massa dei dati vien fuori pure il nome del suo giovane amore, l’uomo dalle suole di vento, il gran camminatore.

Il tonfo del cuore supera lo squasso della mente, ed Emilio deglutisce, ansima, fatica a rimandar giù l’amaro dello stupore.

Poi chiude gli occhi, e rimane così, in ascolto, intuendo che il silenzio vacilla sotto gli impulsi di una prima paurosa gestazione sonora.

Il pleure dans mon cœur.

Una voce prende forma. Ancora un po’ di silenzio, poi una seconda scaglia di luce. Comme il pleut sur la ville.

E una terza.

Il francese distilla sillabe d’oro al suo orecchio tramortito. Emilio avverte che sta letteralmente per crollare.

Gli sembra di scorgere le labbra che scandiscono i versi, la mano che solca la carta. E quel dolore grandissimo, il più grande che si possa immaginare.

 

***

 

Il dolore di chi ha perduto l’amore.

Di chi non ha impedito che fuggisse.

Il dolore di tutti gli uomini.

 

***

 

Emilio legge dentro gli occhi dell’uomo scossi dalla sofferenza, feriti dal trauma dell’abbandono.

Quelle est cette langueur, qui pénètre mon cœur?

Immagina i giorni della passione, e le notti in viaggio, sotto cieli normanni, in compagnia dello sposo infernale. E i litigi, le rabbie, le minacce, l’addio finale.

Nel figurarsi quei movimenti irrecuperabili, il pensiero di Luca e del suo amore inesperto si rifà nuovamente forte, soggiogandolo come quando dorme.

Gli capita sempre più spesso di sognarlo, e ogni volta l’amico è più bello, più vero, quasi sempre a un passo dal prendere le sue mani.

 Ripensa all’espressione dello sconosciuto, l’uomo del caffè. Pure lui vorrebbe poter dire di aver amato allo stesso modo, e gli piacerebbe scriverne, nonostante la poesia non sia per niente il suo forte ed Emilio abbia da poco superato i quattordici anni.

Se l’amore ha un tempo fisiologico, il poeta e il suo amante l’hanno percorso, ne hanno raggiunto lo zenit, il confine, l’oasi dopo il vuoto rombante.

Emilio ha la sensazione di rivedere l’ingresso del caffè pieno di gente, i passi del poeta tra la folla, la città immersa in un lago di nostalgia.

Cette langueur.Mon cœur.

C’è una grandezza in questo, qualcosa che mette addosso una toccante voglia di piangere.

Emilio spegne il computer e si allontana, ignorando persino il timore di perdersi tra strade che non conosce.

 

***

 

Una sola volta, qualche domenica prima di Natale, Emilio aveva cercato di rivolgere a Luca uno stentato invito ad andare al cinema insieme.

L’altro aveva annuito, visibilmente a disagio, ma aveva accettato, dandogli appuntamento davanti al portone di casa sua.

Poi, aveva guidato il motorino per una distanza che non superava neppure un chilometro di lunghezza in linea d’aria.

Emilio s’era stretto a lui, nel risucchio d’aria della corsa, sperando in segreto che l’altro gli domandasse il perché di quella proposta.

Nessuno di loro aveva voluto avvertire altri compagni. La serata doveva rimanere speciale, e se n’erano stati soli, prima, durante, dopo il film.

Ma alla fine erano rientrati, e senza una parola di troppo s’erano salutati con l’avvilente pacca in spalla di sempre, e la promessa di rivedersi a scuola il giorno dopo.

Emilio c’era rimasto malissimo.

Da allora, da quella sua imperdonabile mancanza di coraggio, non s’era più verificato che uscissero ancora tutti e due da soli.

 

***

 

Era quello avere quattordici anni? Quella smisurata voglia d’amare dentro? Quella fame insaziabile? Tutta quella solitudine?

O forse quelli erano solo gli effetti collaterali di una poesia frettolosamente appresa, e rimessa in circolo durante un insipido viaggio di fine d’anno?

Emilio se lo chiede nel raggiungere il caffè, nello spingere la pesante porta dell’ingresso.

Il locale è affollato, pieno di una comitiva di vocianti turisti inglesi, ma stavolta nessuno sembra far caso a lui.

Non ci sono neppure i versi, il passato tace, ed è come se per un attimo si fosse trattato di un’allucinazione, una capricciosa beffa del suo cervello.

Emilio siede al tavolo in cui ogni pomeriggio ha visto sedere lui, e lo attende schivando le occhiate invasive d’un cameriere.

Poi si rialza. Ed esce.

Sa che è tardi, che ormai il poeta non verrà più, e che forse farebbe bene a rientrare anche lui, prima che lo becchino i professori e che gli facciano una delle loro interminabili ramanzine.

Ma i piedi imboccano il sentiero opposto a quello dell’albergo. Parigi sembra non finire. Emilio cammina, cammina, come se avesse finalmente compreso ogni cosa.

 

***

 

Cette langueur.

Non vuole più pensare al dolore sul viso di quell’uomo.

Non può più credere a quello che si spegne, che muore, o che ci lasciamo sfuggir via di mano come sabbia.

Cette langueur.

Pensa al poeta, pensa che il suo volto sarebbe ancora bello senza quella pena. E pensarci lo spinge alla decisione che ha sempre rinviato, un’idea che per un momento luccica in fondo al cuore come un atomo di gioia lunare.

Qui pénètre mon cœur?

 

***

 

Da stanotte non sarà più solo come Paul Verlaine. Non commetterà più l’errore di rinunciare alla passione.

Quando tutti si saranno addormentati, Emilio busserà piano alla porta di Luca, e gli chiederà di uscire con lui in balcone per parlargli.

Fingerà di volergli raccontare un sogno. Poi lo sorprenderà dicendogli che è lui il sogno. Il suo sogno. Chissà perché è certo che l’amico non lo respingerà.

Poi, chiusi gli occhi e accostato il viso a quello del compagno, scriverà il lento corsivo di un verso sopra quella pelle, quella bocca.

Le labbra sulle labbra. A Parigi.

Forse, pioverà ancora.

 

 

 

Luigi La Rosa, messinese, scrive praticamente da sempre. Vive tra Roma, Parigi e la Sicilia, dove insegna scrittura creativa in scuole di vario ordine e grado, e all’università. Collabora a riviste, blog e settimanali, tra cui il siciliano “Centonove”. Per la casa editrice Rizzoli-Bur ha curato i seguenti volumi antologici: “Pensieri di Natale”, “Pensieri erotici”, “L’anno che verrà” e “L’alfabeto dell’amore”. E’ presente in diverse antologie di racconti, tra cui “Quel che c’è tra di noi. Storie d’amore omosessuale” (Edizioni Manni) e “Roma per le strade” (Azimut). E’ inoltre curatore di antologie tematiche per la Giulio Perrone Editore. Un suo contributo giornalistico è apparso sulla quarta di copertina di un romanzo di Andrea Camilleri, “Biografia del figlio cambiato”, nell’edizione Bur. In prossima uscita il suo primo romanzo, e una traduzione de “La dama pâle” di Alexandre Dumas.

 

 

A cura di Sara Gamberini e Giovanni Ragonesi

saragamberini@sulromanzo.it

giovanniragonesi@sulromanzo.it

 

 

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