internodue: Giuseppe Merico "Il Guardiano dei morti" prossimamente per Perdisa Pop
Lo avevamo detto che saremo stati anarchici così, malgrado la scadenza bisettimanale programmata in partenza, a sette giorni dal racconto di Elisa Ruotolo, torniamo per proporvi un’anteprima e inaugurare con Giuseppe Merico questo nuovo spazio del cantiere attraverso il quale anticiperemo proposte editoriali che vedranno a breve i banchi delle librerie; anticipazioni selezionate direttamente dagli autori.
Giuseppe Merico, già autore di Dita amputate con fedi nuziali (Giraldi, 2007) e di Io non sono esterno (Castelvecchi, 2011), ci propone un’anticipazione da Il guardiano dei morti che verrà pubblicato in autunno da Perdisa Pop.
Le buone letture sono a portata di mouse.
Il guardiano dei morti
di Giuseppe Merico
“Papà, era ancora quando non avevamo la veranda nella casa al mare. C'era la stanza dove mangiavamo e la finestra grande che dava sulla strada e quelli che passavano ci guardavano mangiare e tu, seduto a capotavola, gli dicevi 'favorite...' e loro, 'grazie, buon appetito Nino'. Ed era ancora quando c'era il letto con le molle che facevano rumore in cucina e per me era una cosa normale che ci fosse un letto in cucina accanto ai fornelli e alle taniche d'acqua ed era quando la nonna, tua madre, veniva a stare da noi. Era grossa la nonna. La nonna era più di grande di una nave, la nonna era un porto. Le gambe, c'aveva quelle gambe simili a quelle colonne di ferro che stanno al porto di Brindisi, quelle dove le navi ci attaccano grosse corde dure come acciaio. Aveva le stesse gambe che le son venute alla mamma e la stessa malattia, l'elefantiasi. Era talmente grossa che, come la mamma, poteva portare solo certi vestiti grandi come lenzuola o come bandiere e mai camicie o magliette. Puzzava la nonna, puzzava di tane per topi e di trasudato che le veniva fuori dalle gambe. I piedi poi erano soffocati dal grasso ed erano edematosi, gonfi e tutte le scarpe che calzava le andavano strette o non le andavano affatto e le dita dei piedi ce le aveva quasi tutte attaccate. Aveva il secondo dito di entrambi i piedi che si accavallava all'alluce e quello strano modo dei suoi piedi di essere piedi lo ha passato a te, papà. Non i piedi grossi che quella era la sua malattia, ma le dita accavallate quasi fossero in lotta tra loro.
La nonna puzzava sempre anche se si lavava, era la mamma a lavarla perché lei da sola non era capace. Era grossa, puzzava e pesava ed erano queste tre cose che mi facevano guardare intontito le sue scarpe vuote ai piedi del letto, i pomeriggi, quando tu te ne stavi di là a dormire con addosso solo le mutande bianche e larghe affianco alla mamma con la sottana nera.
Quelle scarpe stavano come sconfitte sul pavimento scuro, un pavimento già vecchio quando me lo ricordo io, messe come veniva ai piedi del letto con le molle che facevano rumore nei pomeriggi quando tutti dormivate, tranne io. Scarpe sformate dal troppo peso, vuote e libere dal dovere di accompagnare un corpo così grande, scarpe aperte davanti e dietro, con solo una fibbia per far sì che i piedi non uscissero fuori. Non gliel'ho mai chiesto alla nonna quanto pesasse, anche perché lei non avrebbe saputo rispondermi e non l'ho mai chiesto nemmeno alla mamma che forse lo sapeva e se lo avessi chiesto a te mi avresti preso per scemo, uno scemo più scemo di quanto già non pensavi che io fossi. Dunque niente domande. L'avrei valutato io, da solo, il peso della nonna.
Mi fermo, aspetto. Sono seduto nel sottoscala, ormai non c'è rimasto più nulla da portare al paese, anzi sì, questa confessione piccola, questa cosa nascosta nel mio passato di bimbo, quando mi piaceva togliermi le croste dalle ginocchia tutte le volte
che cadevo.
“Papà, non è una cosa importante...”
“Continua.” Di nuovo la sua voce, sembra venire dall'angolo, dove la scala tocca il pavimento, vicino al motorino dell'acqua, a pochi passi da me.
“Perché toccavi la nonna?”dice papà con una voce che è vicinissima che è dentro di me ma anche fuori, nell'angolo e anche lontanissima. Viene da dove sta lui e lui sta in un posto così lontano che la mia immaginazione non ci può arrivare, tuttavia la sua voce è limpida ed è la voce che aveva prima che si ammalasse di cancro, forte e senza esitazioni, non come dopo che ha cominciato a tentennare quando parlava.
“Papà, stavo lì ed ero piccolissimo, il mio corpo era piccolissimo e senza peso. La nonna invece dormiva con la pancia all'aria e il sedere, lo potevo vedere perché stavo seduto sul pavimento con le gambe incrociate, piegava la molla del letto verso il basso e quasi il sedere lo sfiorava al pavimento e russava. Ero senza peso, sono stato senza peso per tantissimo tempo. Volevo che mi schiacciasse. Le mettevo una mano sotto la coscia e la tenevo lì e la mano entrava a fatica sotto la gamba perché quella era la cosa più pesante che avessi toccato, ma alla fine ce la facevo, le mettevo la mano sotto la coscia, lei dormiva, russava. E poi il braccio, le infilavo il braccio sotto la coscia calda e non ho mai sentito un peso così grande. Tutta quella pelle. Volevo che mi regalasse un po' di quel peso. Papà, avresti dovuto regalarmelo tu quel peso.”
Di nuovo mi fermo, lo chiamo, “Papà... papà?”
Non risponde.
Mi vedo piccolo, da quanto tempo non pensavo a questa storia? Mi vedo lì, ad annusare l'odore di cucina, di olio, di pasta avanzata messa nel frigo, di angurie aperte, di bottiglie di vino a metà, di melanzane avanzate e lasciate nel forno per la cena.
“Con l'altra mano le toccavo la pancia, partivo dal basso e poi fino a sopra, tutta quella montagna dura. La nonna non se n'è mai accorta. La pancia su e giù e premevo anche, ma le dita non affondavano, era dura, quella pancia era sopravvissuta alla guerra ed era sopravvissuta al nonno, perché lui era morto e quella pancia era così forte che da lì eri nato tu. Un braccio sotto la gamba, l'altro sulla pancia. Rimanevo così per interi minuti e infine la testa la poggiavo sul letto e la guardavo, era grandissima la nonna, era la cosa più grande che avessi visto e mandava fuori una puzza di case chiuse, di letti dove ormai non dorme nessuno.”
Piango, di un pianto sommesso, mi fa male questo ricordo. Mi stringo le ginocchia, da solo nel sottoscala, la luce della nostra casa al mare non arriva qua sotto.
“Qua sotto, arrivi solo tu, papà... Mi fa male questo ricordo, lo capisci? Dov'eravate tu e la mamma quando io ero senza peso? Dov'eravate?” Urlo.
Piango e urlo, ma lui non c'è più, è ritornato nel suo posto lontanissimo, un posto che prego Iddio le mie lacrime possano raggiungere.
Giuseppe Merico è redattore della rivista di letteratura Argo, http://www.argonline.it/, nel 2007 ha pubblicato la raccolta di racconti Dita amputate con fedi nuziali, Giraldi, nel 2011 il romanzo Io non sono esterno, Castelvecchi, Il guardiano dei morti è il suo secondo romanzo.
A cura di Sara Gamberini e Giovanni Ragonesi
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