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di Paola Barbato

 

La luce si stemperava definitivamente in buio. Il giovane attore di successo sedeva sul divano, lo sguardo fisso davanti a sé. Stava in quella posizione da cinque ore, da quando la ragazza velenosa era uscita. Stava lì e ci pensava, ci pensava come non aveva mai pensato a nient’altro nell’arco della sua breve vita. La ragazza era una fan, una di quelle che vincono un concorso che ti fa passare un pomeriggio col tuo idolo. Lui l’aveva ricevuta con aria annoiata, l’aveva ricevuta solo per i diecimila euro allungatigli dal fan-club. I patti sono patti, i contratti sono contratti. Certo che, Cristo santo, mai che capitasse di vincere ad una carina. Questa non era la peggiore però rientrava nella categoria delle cinque più scarse. Era al limite dell’anoressia, con un naso adunco e due occhietti penetranti. E poi della specie peggiore, quelle che vogliono parlare. Non si sarebbe accontentata di guardarlo e di gioire della fortuna di stare qualche ora con lui (non fosse stato per il concorso avrebbe tranquillamente potuto scordarsi di avere mai questa possibilità). No, lei voleva scoprire se il gioco valesse la candela, voleva scoprire se lui era davvero sensibile e dolce e affabile come in televisione. Non lo era, lui, certo, non lo era, chi glielo faceva fare? Era bellissimo, uno di quei ragazzi con la faccia d’angelo e lo sguardo assassino, una di quelle creature vagamente ambigue che ti spappolano il cuore a forza di gelo. Sarebbe andata come era già capitato altre volte, lei che rimane delusa, che gli rinfaccia qualcosa riguardo alla sua immagine pubblica ed alla triste e cruda realtà dei fatti, magari qualche lacrimuccia, addirittura qualche volta il sollievo di liberarsi di lei in anticipo. Ed invece con questa non era andata così. Forse era colpa sua, forse quel giorno aveva lo scazzo facile e non aveva voglia di sentirsi fare domande intelligenti e profonde. Così lei si era limitata ad ascoltarlo, a guardarlo con occhietti vitrei e a dilatare furiosamente le narici respirando. Alla fine lui ne aveva avuto davvero abbastanza.

«Senti, guarda, non per essere scortese, però se non hai altro da dirmi o da chiedermi io la farei finire adesso questa tortura. Senza offesa, eh? Ma tu mi puoi capire, per me queste cose non sono piacevolissime.»

«Naturale.»

«Ecco, allora se sei d’accordo...»

«Sai, Manuel, io non credevo che fossi così...»

Eccoci.

«Avevo una mezza idea in questo senso, però sono stata contenta di aver potuto appurare. Forse sta scritto da qualche parte che un sogno per intero non lo si può avere, che ci si deve accontentare dell’involucro...»

«Sì, ok, hai ragionissima, sono un pezzo di merda, quindi ora perché non te ne vai?»

«E allora va bene, se l’involucro deve essere l’involucro sia. Una cosa ancora, Manuel. Tu mi trovi brutta, vero?»

«Senti, davvero, perché vuoi farmi dire cose sgradevoli?»

«No no, io lo so che mi trovi brutta. È ovvio, tu sei così bello, frequenti donne tanto belle... Dunque mi trovi brutta. Eppure lo sai che questa sera noi due faremo l’amore?»

«Ma tu sei scema, non esagerare coi sogni, io i miracoli ancora non li posso fare.» Era stato stronzo, però se l’era tirata addosso.

«Non di persona. Nella mia mente.»

«Ah.»

«E ti spiego anche come: io ti farò inginocchiare davanti a me e tu mi leccherai le gambe e le cosce, poi ti prenderò per i capelli...»

«Senti, dai basta, non costringermi a chiamare qualcuno...»

«... E mi schiaccerò la tua faccia in mezzo alle gambe, poi ti legherò al letto per cavalcarti...»

«Ora basta, ok? Ora ti faccio sbattere fuori.»

«Non l’hai capito, Manuel? Io posso farti tutto quello che voglio, io posso usare la tua faccia e il tuo corpo come mi pare, posso incatenarti, frustarti, infilarti ortaggi nel culo, farti dire che mi ami, che non hai mai desiderato nessun’altra donna nella tua vita. Io ti possiedo...»

«Ehi, può venire qualcuno?»

«E siamo in tante. Obese, handicappate, acneiche, lebbrose, ti possiamo avere tutte, possiamo sognarci tutto quello che ci pare, possiamo giocare con la tua faccia e costringerti a subire ogni tipo di umiliazione. Tu ti sei venduto a noi.»

«Ecco, portatela fuori dai coglioni.»

«E tu non puoi impedirlo, Manuelino, pensaci, non puoi impedirlo, non potrai mai impedire a nessuno di usarti come vuole nei suoi sogni. Mai, mai!».

 

Era una poveraccia da compatire, una povera disgraziata piena di frustrazioni che aveva scaricato su di lui. Doveva avere una vita di merda. Se lo ripeteva da cinque ore. Se lo ripeteva instancabilmente per non dover pensare a quell’altra cosa. Non ci aveva mai pensato. Eppure quante volte glielo avevano detto: “Sei nei sogni di tutte le ragazze”. E a cosa pensava lui in quei momenti? A niente. I primi tempi, forse, gli si era affacciata nella mente l’immagine di tante ragazzine coi loro blocchettini in mano, belle fresche e sorridenti a caccia di un autografo. Eppure... Eppure ora pensava alla folla che aveva affrontato ieri uscendo dagli studi televisivi. Ragazzine che urlavano il suo nome, giovani vite sudaticce accalcate dietro alle transenne. Ma a guardar bene, a guardar bene in mezzo a loro, lui vedeva solo quei faccini sorridenti; quante volte i suoi occhi avevano dribblato qualche pachiderma, qualche escrescenza foruncolosa che si contorceva in mezzo alle altre? “Sei nei sogni di tutte le ragazze”. “Tutte”. Incondizionatamente. E delle madri no? Piacenti signore quarantenni...  Massaie, pescivendole, vedove tarchiate dalla vita vuota, vedove che si concedono un piacere solitario sul letto, ad occhi chiusi, e dietro gli occhi... Sentì un rumore ed alzò gli occhi di scatto.

«Chi è?»

«Ah, ma è ancora qui? Mi scusi signore.»

«Ma chi è?»

«Sono Rosalba.»

La donna delle pulizie.

«Sì, stavo uscendo...»

Si alzò con stupefacente lentezza dal divano. Si sentiva addosso migliaia di sogni incombenti. Passò accanto a Rosalba, la guardò. Si rese conto di non averla mai vista davvero. Piccoletta, tinta di biondo, con un porro sotto al naso, la bocca quasi senza labbra, odor di detersivo e sotto quell’odore l’aroma acido del sudore. Rosalba che lo guardava. Gli sembrò di vedere qualcosa di lascivo in quel sorriso. E un flash: lui legato al letto e Rosalba a cavalcioni sopra di lui bloccandolo contro il materasso con le braccione. E lui che urlava, e Rosalba che rideva...

«Cosa cazzo guarda?»

«Niente, scusi, è che è pallido...»

Controimmagine: Rosalba che gli sbatte un ovetto, lui in canottiera seduto in un cucinino, ciabatte sul linoleum, gomiti sul tavolo di formica...

Uscì.

 

«Non è il caso di diventare paranoico, cazzo!»

Camminava a testa bassa. Non era tardi ma c’era poca gente. Stringeva forte gli occhi, sbatteva contro i pali e li riapriva. Si aspettava da un momento all’altro che qualcuno lo riconoscesse, che individuasse sotto i capelli fluttuanti le forme del bel Manuel di successo. Il bel Manuel dagli occhi assassini. Ma nessuno lo fermò. Arrivò al locale senza intoppi. Entrò senza salutare nessuno ed andò immediatamente a farsi una pista in bagno. Per stare meglio, lo avrebbe snebbiato. Sedette al bancone e ordinò da bere. Il barman gli chiese cosa avesse. Gli disse che era pallido. E Manuel ebbe la seconda rivelazione della giornata. Il barman si chiamava...? Marco? No, Marcello. Aveva i capelli impomatati. Marcello, da quanti anni lo conosceva il buon vecchio Marcello che faceva degli splendidi Margarita? Da quando era diventato famoso. Strizzò gli occhi. Cosa gli aveva detto la volta che li avevano presentati? «Ecco il nuovo... -no- Ecco un astro nascente». Che cazzata. Gli aveva offerto da bere. Aveva i capelli sempre così impomatati, così lisci, così lubrificati... Marcello che inchioda l’astro nascente contro il bancone del bar, Marcello che gli infila una mano nei pantaloni...

«No, no, perdio, no, non cominciare anche così!».

Eppure gli occhi di Marcello, gli occhi di Marcello che accarezzavano il suo viso, che seguivano gli zigomi, quei begli zigomi sporgenti, zigomi nobili.

«Mi scusi, lei è...»

Si voltò di scatto. Una donna sui quarantacinque anni, la pelle bruciata dal sole, un ridicolo caschetto rossiccio. Una nuova ricca, non certo il suo tipo, carne conservata. Una donna dagli occhi avidi del divo. Occhi avidi.

«No, non sono io.»

 

Il locale lo faceva soffocare. Troppa gente, troppi occhi, troppo Marcello. Nel trascinarsi fuori (la pista non l’aveva sollevato, anzi) sentiva di lasciare la propria immagine dentro, in pasto a Marcello, in pasto alla donna cotta dal sole, in pasto a tutte le menti che lo avevano catturato. Ripensava alla ragazza del pomeriggio, gli sembrava che gli avesse lanciato un anatema d’altri tempi. Era ossessionato dalla propria immagine, si inseguiva da solo, voleva sfuggirsi. Dove aveva lasciato la macchina? Non se lo ricordava. Ma era uscito con la macchina, poi? E chi se ne fregava, avrebbe preso un taxi. Transitò davanti ad un’edicola. Si appiccicò ai vetri. La sua faccia di giovane dio troneggiava in bianco e nero su una copertina. Quand’è che l’aveva fatta quella foto? La rivista doveva uscire quella settimana? Oppure era un numero vecchio? Non ricordava, era confuso. Che rivista era? Una di quelle per ragazzine? Un mensile? Ah, sì un mensile per uomini, uno di quei giornali ironico-intellettuali... Di quelli che a volte si possono trovare sui taxi. Decise di andare a piedi.

 

Dal ponte guardava l’acqua. Era stato quel pomeriggio? Solo quel pomeriggio? Era davvero passato così poco tempo? Non settimane, mesi? Respirava a fatica. Guardava le luci, cercava di calmarsi. Se ne accorse per via dell’odore. Alla sua sinistra c’era qualcosa. In un angolo, due occhi, due occhi dentro a una vecchia. Una barbona. Non disse niente, lo guardava e basta. E sorrideva. Manuel cercò di bloccare il cervello ma fu troppo lento. Vomitò oltre il parapetto. La vecchia lo guardò vomitare. A Manuel venne in mente una vecchia barzelletta su una prostituta centenaria. Pensò alle croste, pensò all’odore che gli arrivava, l’odore gli penetrò nel cervello. Si vide con gli occhi della vecchia: bellissimo, giovane, ricco, tutto da gustare, tutto da ciucciare... Trattenne il respiro, sollevò il mucchietto d’ossa della barbona, le guardò il viso incomprensibile, vide un lampo di beatitudine negli occhi. Il sorriso le si allargò: non aveva denti. Manuel la scaraventò oltre il ponte.

«Ma cosa fa?»

Si voltò inalando bruscamente. Essenza di rosa. Una ragazza sui... Quindici? Diciotto? Trenta? Poteva avere ogni età. Si era fatta il piercing al naso. L’aveva riconosciuto?

«Ma cos’ha buttato? Sembrava una persona.» Si sporse dal parapetto. Non sapeva chi fosse, altrimenti lo avrebbe già riconosciuto. Ma ugualmente successe. La ragazza con l’anello al naso si voltò verso di lui con una prima ombra di paura.

Non sa chi sono -pensò- però da ora per lei sono un assassino. Si sta imprimendo nella mente la mia faccia (anche lei! Tutto diverso ma tutto uguale!) per potermi denunciare. Immagina già di far fare un identikit. Magari crede che diventerà famosa. Non sa cosa vuol dire, non sa cosa si paga, se lo sapesse non...

La ragazza fece un passo indietro. Dopo un attimo lui le fu addosso.

Nemmeno per un istante si accorse di quanto fosse bello.

 

Era a casa, Manuel, era a casa e sentiva l’odore lasciato da Rosalba. Pensava febbrilmente. Ritirare tutte le riviste? Impossibile. Ritirare tutti i film in videocassetta? Impossibile. Poteva sparire per anni, fino alla fine dei propri giorni e ci sarebbe sempre stato un paio d’occhi che l’avrebbe individuato in un vecchio film e che per un attimo avrebbe sostituito il proprio viso a quello dell’attrice. Non c’era scampo. E poi che dire dei suoi amici? Che dire della sua mamma che, secondo quel che gli diceva, pensava sempre a lui? E infine, infine... Si osservò allo specchio. Infine c’era sempre lui, no? Avrebbe potuto mai impedirsi di pensare a se stesso? Non c’era modo di rientrare in possesso della propria identità, della propria immagine, della propria essenza. In fondo era il destino di tutti, a ben pensarci. Lui non era bello solo da oggi, c’erano stati gli anni di infanzia, e poi quelli dell’adolescenza. Si ricordava di quel tizio che al mare gli regalava i gettoni per giocare a flipper. Ricordava gli occhi umidi. Che cosa aveva fatto usando la sua immagine di bambino? E poi quella compagna di scuola, quel mostro di acne e apparecchio ai denti, gli aveva scritto una lettera d’amore, una volta. Ripercorreva febbrilmente la propria vita catalogando visi e occasioni, ingrassando il numero con tutti gli occhi segreti ed indiscreti, rincorrendo freneticamente ogni particolare sfuggito in un passato di incoscienza.

Troppi, troppi, non avrebbe potuto mai, potuto mai... E poi in un soffio la soluzione arrivò garbata. Il sollievo lo invase. Telefonò ad un amico che aveva un’armeria, un vecchio buon amico, un numero, ormai.

 

La giovane conduttrice era impazzita all’idea di averlo quel pomeriggio nella sua trasmissione in diretta. Le aveva sempre detto no, in molti campi. Ora lui le stava davanti, bello come il sole, pallido come la luna.

«Che rapporto hai con le tue fans?»

«Sono loro che hanno un rapporto con me, e non viceversa.»

«In che senso?»

«Ieri è venuta da me una ragazza, una ragazza che aveva vinto un concorso... Non... Non ricordo il suo nome, mi dispiace. Comunque questa ragazza mi ha aperto gli occhi. Mi ha aperto gli occhi ma su un punto si sbagliava: che non posso fare niente. Posso, invece.»

«Perché non ci spieghi...»

«Io posso creare un’immagine che sovrasti tutte le altre, un’immagine talmente forte da coprire tutto. Non eliminerò tutte le tracce, certo, però farò pulizia, una bella pulizia. Io posso impormi. Io posso imporre questo.»

Dalla giacca spuntò una specie di cannone.

«Cosa fai?» strillò la conduttrice.

Un ultimo svolazzo di vanità.

«Ma sta zitta, cretina», e le concesse il primo colpo. Poi, sapendo di avere poco tempo, sapendo di avere tutte le telecamere addosso, sapendo di avere la coda di tutti i telegiornali e di tutti i quotidiani e di tutte le riviste, infilò la canna in bocca.

 

Del giovane attore di successo ancora oggi l’80% della gente ricorda solo lo schizzo verso l’alto. E’ una buona percentuale.

 

 

Paola Barbato, classe 1971, milanese di nascita, bresciana d’adozione, prestata a Verona dove vive con il compagno, due figlie e tre cani. Scrittrice e sceneggiatrice di fumetti, l’esordio è nel 1999 sulla serie “Dylan Dog” della Sergio Bonelli Editore. Ha pubblicato tre romanzi thriller per la Rizzoli, “Bilico” (2006), “Mani nude” (2008, vincitore del Premio Scerbanenco di quell’anno), “Il filo rosso” (2010), il quarto uscirà nel 2012/2013. Nel 2008 è uscito, sempre per la Sergio Bonelli Editore, nella collana Romanzi a fumetti Bonelli, “Sighma”, disegnato da Stefano Casini. Ha co-sceneggiato per la Filmmaster la fiction "Nel nome del male" con Fabrizio Bentivoglio per la regia di Alex Infascelli, trasmessa da Sky nel 2009. Da novembre 2011 è online il suo webcomic “DAVVERO”.

 

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