Incontro con Jeremy Rifkin: una società a costo marginale zero
Jeremy Rifkin è in Italia a promuovere il suo ultimo libro La società a costo marginale zero (traduzione di Luca Vanni, Mondadori 2014), in cui disegna un avvincente scenario per lo sviluppo dell’economia mondiale dei prossimi decenni, sostenendo che con l’uso delle nuove tecnologie si possa arrivare ad azzerare, o avvicinare di molto allo zero, i costi iniziali di produzione.
Per Rifkin ogni sistema economico si fonda sull’unione di tre elementi portanti: comunicazioni, energia, trasporti. Se la prima rivoluzione industriale era supportata da stampa e telegrafo come mezzi di comunicazione, dall’energia prodotta con carbone e vapore e dalla logistica ferroviaria, la seconda, protrattasi fin nel XX secolo, usava telefono e radiotelevisione, era alimentata dal petrolio e usava come mezzi di trasporto di base auto e camion lungo le strade.
Oggi, nel XXI secolo, siamo in una fase di transizione, che dalla decadenza inevitabile della seconda rivoluzione industriale ci deve immettere nella terza, che ci farà vivere almeno fino alla metà del secolo in una fase economica ibrida: il petrolio, fonte di energia costosa e destinata a esaurirsi, dovrà essere sostituito pressoché totalmente dalle fonti rinnovabili, e poiché il sole e il vento sono gratis, il loro sfruttamento ci porterà, una volta assorbiti i costi iniziali per la costruzione degli impianti, a un’economia a costo marginale zero.
La terza rivoluzione industriale, secondo Rifkin, si basa su tre pilastri: la rete digitale delle comunicazioni, le fonti rinnovabili per l’energia e la rivoluzione completa dei trasporti, affidata a veicoli elettrici e ottimizzata in modo da eliminare spostamenti di uomini e merci che oggi sono del tutto obsoleti e superflui (ad esempio, i viaggi con i mezzi vuoti che fanno spesso i camionisti dopo aver consegnato un carico).
Rifkin, settantenne che spiega le sue teorie con un entusiasmo molto giovanile, ha risposto alle domande di alcuni blogger nel corso della sua tappa milanese.
Nella sua presentazione ci ha detto che insegna alla Wharton Business School, che prepara i manager del capitalismo avanzato. Insegna loro che il capitalismo sta finendo?
La posizione di chi lavora oggi nelle aziende tradizionali è mista e oscilla tra indifferenza, paura e desiderio di cogliere le nuove opportunità di sviluppo. Tutti pensano a come aumentare i profitti, ma nessuno riesce a immaginare che il costo marginale possa arrivare a zero, sia pure non in tutti i settori. I grandi produttori di energia, ad esempio, sono molto restii a lasciare il mondo del petrolio, anche se in molti Paesi l’uso degli impianti fotovoltaici ha già fatto scendere sensibilmente il costo della corrente elettrica, mentre nell’ambito dei trasporti e della logistica c’è molto più entusiasmo: le case automobilistiche sono tutte impegnate a progettare veicoli elettrici, e sono allo studio anche veicoli intelligenti che possano viaggiare senza conducente. I grandi gruppi della telecomunicazione sono certamente favorevoli allo sviluppo digitale, ma ne vorrebbero mantenere il controllo
In effetti le grandi aziende informatiche come Google sono ormai delle megacorporazioni, che con la scusa di fornirci qualche servizio gratis usano per fini commerciali i nostri dati. C’è il pericolo di un accentramento del potere digitale e delle informazioni?
Mi sono chiesto spesso se si arriverà o no a un’effettiva democratizzazione della rete, che è molto meno libera di quanto si pensi. Google e Microsoft mi hanno invitato spesso a parlare, ma non si può negare che oggi siano dei monopoli: garantiscono un servizio ma alle loro condizioni. In futuro ci vorrà un’autorità globale che possa gestire la rete, composta da rappresentanti delle società, dei governi e delle associazioni no profit. Questo sta già accadendo a livello europeo, dove si avverte già il problema molto più che negli Stati Uniti, e infatti il mese prossimo parteciperò a un grande incontro su questo tema a Bruxelles. I grandi gruppi possono essere battuti dalla diffusione delle cooperative di utenti. Questo accade già in Germania e in Danimarca, dove gli utenti che immettono in rete l’energia prodotta dagli impianti fotovoltaici producono molta più energia verde delle grandi compagnie. I miliardi di persone che immettono ogni giorno in Internet i loro contenuti possono far valere la loro voce di fronte ai monopoli organizzandosi in cooperative.
Questo sistema di Internet delle cose (IDC) che descrive nel suo libro non avrà bisogno di enormi quantità di energia per essere realizzato? Da dove la prenderemo?
Le energie rinnovabili si trovano ovunque. Nel 1989 nessuno riusciva a immaginare che oggi, venticinque anni dopo, il 43% del mondo sarebbe stato collegato alla rete Internet: allo stesso modo, tra altri venticinque anni potremmo avere un mondo alimentato quasi totalmente dalle energie rinnovabili. Vi posso confessare che, sorprendentemente, il mio libro La terza rivoluzione industriale ha venduto centomila copie in Cina, che il premier cinese è un mio fan e che il vicepremier vuole seguire le mie idee? Lo sviluppo della rete è fondamentale anche per loro, così come l’uso delle fonti rinnovabili, anche per ridurre il loro spaventoso inquinamento. Possiamo dire che, se l’Inghilterra ha fatto la prima rivoluzione industriale e gli stati Uniti la seconda, potrebbe essere proprio la Cina a guidare la terza.
Quindi sarà l’energia pulita a risolvere tutti i problemi?
Il futuro avrà forse meno risorse, ma risolverà il problema con la condivisione. Auto e autobus elettrici al posto di quelli a benzina, e soprattutto veicoli condivisi più che di singola proprietà, usati solo quando servono veramente, ridurranno moltissimo l’inquinamento da traffico. Siamo solo agli inizi della terza rivoluzione: io non mi sento naïf a immaginare un futuro migliore, ma solo cautamente speranzoso. In fondo anni fa non pensavo che avremmo avuto tanti cambiamenti in così poco tempo!
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Con le stampanti in 3D, ognuno potrà arrivare a produrre oggetti di ogni tipo. Non si rischia che il mercato collassi per troppa produzione?
Con le stampanti in 3D accadrà quello che è già successo con i computer. Tra cinque o al massimo dieci anni in ogni scuola ci sarà una stampante 3D e i ragazzi potranno fabbricarsi oggetti. Ci sarà chi lo farà solo per sé, ma i più creativi inventeranno cose da condividere o anche da vendere ad altri. Tutti vorranno tutto? No, perché la disponibilità finisce per cancellare il desiderio. Avremo un’abbondanza sostenibile, e la condivisione regolerà gli eccessi.
Si ritiene cautamente speranzoso per il futuro, ma che cosa le fa invece più paura?
Di sicuro il cambiamento climatico, perché può essere più veloce della nascita dell’IDC che progettiamo. Dipendiamo sempre dall’acqua, e negli ultimi tempi abbiamo avuto enormi siccità, uragani, tsunami… tutti fenomeni per noi incontrollabili. Penso che il cambiamento climatico sia fortemente sottovalutato, e mi auguro che voi giovani ci pensiate di più per salvaguardarvi un futuro sostenibile. Temo anche il cyber terrorismo. In America, ad esempio, la rete elettrica è molto vulnerabile. Un attentato che mettesse fuori uso una delle grandi centrali, che sono tutte collegate tra loro, metterebbe fuori uso la griglia per cinque settimane: gli Stati Uniti sarebbero finiti.
Lei immagina un futuro in cui tutti condivideranno tutto e la rete non avrà segreti per nessuno. Ma quali sarebbero i limiti della privacy individuale, considerando che tutti noi abbiamo cose che non desideriamo condividere? Tra l’altro, la condivisione totale non favorirebbe forme di terrorismo informatico?
Negli Stati Uniti non si fa ancora nulla riguardo a questo problema, che invece è molto più avvertito qui in Europa: sono consulente della Comunità Europea proprio su questi temi. Lo sviluppo di Internet dovrà consentire al singolo il controllo dei propri dati, anche stabilendo punizioni severe per chi viola determinati codici di comportamento. Noto però che le ultime generazioni avvertono meno il problema della privacy, e sono abituate a condividere di tutto: io e mia moglie non metteremmo mai la nostra casa a disposizione per uno scambio in rete, eppure molte persone oggi lo fanno.
Un’ultima domanda: come cambia il lavoro, oppure sparisce sul serio?
Aspettavo che qualcuno me lo chiedesse! Nel breve e medio termine operai, impiegati e anche molte categorie di professionisti perderanno il loro lavoro tradizionale, ma al tempo stesso la creazione dell’Internet Delle Cose creerà una quantità di nuovi impieghi per almeno quarant’anni: pensate soltanto ai cambiamenti necessari per adeguare i vecchi edifici alle nuove norme energetiche, per modificare la rete dei trasporti e la distribuzione delle merci. In Italia, purtroppo, l’economia è stagnante per molti motivi, ma se non si cambiano le infrastrutture non si possono fare le riforme, e molti investimenti attuali fatti dalle regioni sono inutili perché creano infrastrutture inutili e già obsolete. I lavoratori migreranno dal capitalismo al terzo settore, quello dell’economia sociale, che non è priva di utili come troppo spesso si crede. Questo comporta anche un rinnovamento globale dell’istruzione per formare le nuove generazioni, altro settore in cui si creerà occupazione.
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