Incontri straordinari in un viaggio sull’Himalaya
Erika Fatland ha una capacità narrativa travolgente e coinvolgente, perché la sua scrittura trascina il lettore all’interno delle pagine stampate. Questa sua abilità di far viaggiare il fruitore facendolo stare, per esempio, comodamente seduto in poltrona, ritorna anche nel suo ultimo libro pubblicato in Italia da Marsilio e intitolato: La vita in alto. Una stagione sull’Himalaya. Questa volta l’autrice ci porta nella zona dell’Himalaya e come lo fa? Partendo dalla Cina e attraverso Pakistan, India, Bhutan, Nepal e Tibet, in un lungo cammino attraverso cinque Paesi in cui abitano centinaia di migliaia di persone che sono simili e anche un po’diverse tra loro.
Fatland non è nuova a resoconti di viaggio così accurati e dettagliati e se le è stato assegnato il Premio Kapuścińscki ci sarà un motivo. Di certo l’autrice ha nel reportage il genere letterario ideale che le permette di esplorare luoghi e popoli e di condividere con il lettore quello che lei ha conosciuto in prima persona. L’antropologa norvegese già lo aveva fatto con Sovietistan (arrivato da noi ne 2017), anch’esso un diario di viaggio negli stati post-sovietici della Asia Centrale, gli “-stan” nati nel 1991 dopo il disfacimento della Unione Sovietica: Turkmenistan, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan. Nel 2017 ha pubblicato La frontiera (tradotto in italiano nel 2019) un viaggio intorno alla Russia, attraverso la Corea del Nord, Cina, Mongolia, Kazakistan, Azerbaigian, Georgia, Ucraina, Bielorussia, Lituania, Polonia, Lettonia, Estonia, Finlandia, Norvegia.
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La vita in alto è un reportage vero, ma non mancano i riferimenti ad altri ambiti, perché abbiamo la storia, la geografia, la geologia, l’antropologia e pure un po’ di guida turistica che fanno di questo saggio un vero e proprio strumento di conoscenza del mondo sull’Himalaya.
Il viaggio della Fatland è durato circa otto mesi durante i quali ha incontrato centinaia di persone, che ogni lettore può conoscere proprio perché l’autrice “indossa” in modo completo i panni dei suoi interlocutori, facendoli poi parlare nelle pagine del libro. Tra le voci presenti nel volume troviamo i monaci buddisti, nomadi purtroppo allontanati dalle terre dei pascoli occupate da coloro che lavoro nel settore minerario, ci sono dee bambine e re che, più che guidare il loro reame, mandano avanti hotel, alternati a storie davvero di dolore e dramma come quelle delle donne vittime di tratta. Una serie di ritratti umani davvero interessanti, che permettono di scoprire come dietro all’immagine spesso patinata di queste aree himalayane, si nascondano invece storie di vita vissuta dalle quali emergono le gioie, i dolori, gli affronti, le lotte per la libertà e per la tutela del proprio spazio vitale.
L’antropologa nordica però non si limita alle persone. Nel suo libro, tradotto da Sara Caleddu e Alessandra Scali, ci porta dentro ai paesaggi fatti dalle alte montagne (Everest, K2,per intenderci) agli occhi di molti invalicabili, per altri invece mete da scalare e vincere, alle zone subtropicali ed è tra questi due climi così differenti che ci sono aree afflitte da continue tensioni tra Stati (India, Pakistan, Cina), unite a veri e proprio controlli e pressioni di alcuni Paesi su altri con presenza militare massiccia, come avviene in Tibet o nel Kashmir. Il tutto in un frequente passaggio dal mondo del presente alle prese con i problemi ambientali e politici a una dimensione atavica viva, che aleggia in ogni dove, come segno evidente dell’importanza delle proprie radici.
Un altro aspetto interessante di La vita in alto è che ci si muove anche tra tradizione e innovazione, tra danze tantriche e karaoke, tra induismo, sikhismo, islamismo e pure cristianesimo, tra Carlo Magno e un giovane Gesù Cristo presente in India, tra Siddharta e i moderni viaggiatori pronti a tutto pur di compiere il loro viaggio nella terra del Lama o a stabilire nuovi record di scalata. Non manca nemmeno il confronto tra quello che riportano gli organi di informazione e quello che veramente c’è in quelle zone, che noi conosciamo proprio perché è la scrittrice norvegese a farci compiere il viaggio e a farci da guida.
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È un mondo davvero sfaccettato e molteplice quello presentato da Fatland nel suo libro, è una dimensione di colori, rumori, suoni, parole, confini, culture differenti tra loro, di minoranze etniche che cercano di resistere, di mantenere vivo il proprio status per non soccombere ed essere fagocitate da coloro che hanno preso maggiore spazio e controllo.
L’autrice norvegese crea quindi un vero e proprio diario dal quale emerge il suo profondo amore per il viaggiare, ma anche la sua capacità di osservare e di conoscere a fondo, nel dettaglio, i mondi e le culture nelle quali si immerge ad ogni spedizione e, come nei lavori precedenti, anche in La vita in alto. Una stagione sull’Himalaya, Erika Fatland riesce a esplorare i luoghi e le culture con un abile e sapiente uso delle parole che fa vedere attraverso di esse.
Per la prima foto, copyright: Jeremy Bezanger su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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