“In movimento”, l’autobiografia di Oliver Sacks, a poco più di un mese dalla scomparsa
Esce oggi In movimento, l’autobiografia di Oliver Sacks, a poco più di un mese dalla scomparsa dell’autore, pubblicato da Adelphi nella traduzione di I.C. Blum. È il 19 febbraio 2015. In Italia e in Europa i giornali scrivono di crisi libica, di terroristi-emigranti, di suicidi in carcere. Le prime pagine dei giornali anticipano le emergenze di inizio estate: Grexit, terrorismo, immigrazione. Dall’altra parte dell’oceano Atlantico le notizie non sono poi così diverse, ma c’è un pezzo che appare sul «New York Times» e ha tutto quello che serve per smuovere il gigantesco e indefinito fenomeno del passaparola: parla di un vip, sconvolge, ma soprattutto commuove. Si intitola My own life e con esso Oliver Sacks, probabilmente il neurologo in vita più conosciuto nel mondo occidentale, esce allo scoperto sulla sua malattia: gli resta poco da vivere, a causa di un raro tumore all’occhio che nove anni prima è stato rimosso ma che la sorte ha voluto rientrasse nel 50% dei casi in cui il cancro persiste fino alla metastasi; ma, dice Sacks, ha ancora tanti libri in cantina pronti per essere pubblicati. Nel caso questo avvenga, i libri verranno pubblicati postumi. E così è stato, dato che il 30 agosto scorso Oliver Sacks è morto all’età di 82 anni, sconfitto dalla malattia. L’ultimo dei non postumi – almeno negli Stati Uniti e in Inghilterra, in cui è pubblicato rispettivamente da Knopf e da Picador – è destinato a essere proprio la sua autobiografia, On the Move. A life.
In movimento rappresenta il completamento del ciclo dell’opera di Sacks, un percorso durato un’intera carriera, iniziato con pubblicazioni di carattere prettamente divulgativo – sempre mediato dall’umanità caratteristica della scrittura del “Poeta Laureato della medicina” («The New York Times») – come Emicrania (1970) e Risvegli (1973). La prima parte della produzione di Sacks è incentrata su un “movimento” che va dal neurologo, dalla sua sensibilità e dalla capacità d’immedesimazione, verso la medicina, i suoi pazienti, le patologie che si trova di fronte: l’io sacksiano si limita a condire con la sua presenza e le sue reazioni il racconto dei casi clinici con cui ha avuto a che fare. Questi due termini, il medico e i suoi casi, sono andati invertendosi negli anni, facendo diventare centrale non più solo la singola patologia, ma anche il modo in cui Sacks viveva l’esperienza della patologia. In seguito alle raccolte di romanzi clinici L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985), Un antropologo su Marte (1995) – i suoi due libri più famosi – e Vedere voci (pubblicato per la prima volta nel 1989 e in cui il lettore si immerge per più di 250 pagine in un mondo senza suoni), arrivano libri come Zio Tungsteno (2001), un’autobiografia sull’infanzia, l’adolescenza e la passione per la chimica del giovane Oliver, e Diario di Oxaca (2002), rielaborazione della sua esperienza in Oxaca, Messico, per una spedizione scientifica informale sulle felci, una delle sue tante passioni al di fuori della medicina, anticipati nel loro stile solamente da Su una gamba sola (1991), il resoconto di Sacks sul suo rapporto con la lacerazione del tendine di una gamba, sull’incidente che l’ha provocato, e sulla convalescenza. Certo, Musicofilia (2007), L’occhio della mente (2010) e Allucinazioni (2012) rappresentano delle eccezioni, delle variazioni di percorso: basta però confrontare i racconti de L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, ben separati per casi quasi fossero cartelle cliniche, non così impegnativi sul piano glottologico (se non per il lessico medico specifico) e ordinati in base alle esigenze divulgative di Sacks,e quelli di Allucinazioni, che tendono a essere più lunghi e linguisticamente più curati, per avvertire subito la differenza tra il Sacks di oggi e quello di trent’anni fa.
Una lenta virata di prospettiva verso l’interno quindi, durata anni, in cui la medicina è diventata sempre più una parte (comunque imprescindibile) dei libri di Sacks per lasciar spazio a un taglio più letterario, che non poteva non avere il suo culmine con un memoir, quindici anni fa, con Zio Tungsteno e ora con On the Move, arrivato un paio di mesi dopo l’annuncio della malattia terminale: una coincidenza che ha fatto schizzare il nuovo librotra i primi posti delle classifiche americane di non-fiction delle ultime settimane.
La foto sulla copertina di On the Move è molto eloquente: ci mostra un ragazzo ormai diventato uomo, i capelli rasati, seduto su una BMW R60 – la prima moto non usata comprata da Sacks –, con addosso un giubbino di pelle nera e un paio di jeans, a suo agio in posa rilassata anche se non del tutto capace di nascondere la consapevolezza di trovarsi di fronte a un obiettivo, come ci suggerisce la leggera smorfia delle labbra. L’immagine ben riassume la direzione che vuole prendere questo memoir, quella della continuità rispetto a Zio Tungsteno: sarà la vita dell’uomo, non del ragazzino, a venire raccontata. Sacks della sua infanzia e dell’adolescenza in On the Move ci fornisce solamente un schizzo generico, concedendoci qualche episodio, come quello della madre che, scoperta la sua omosessualità, si lancia in uno sdegno (poi, negli anni, superato) che il giovane Oliver si porterà dietro a lungo: «You’re an abomination, – she said – I wish you had never born».
Nonostante questo tipo di episodi, Sacks non si è mai impegnato pubblicamente nella lotta per l’accettazione verso l’amore gay, anzi, dopo alcune relazioni dal finale non certo disneyiano, dal compimento dei suoi quarant’anni pratica per trenta la castità. L’ha dimostrato anche la (non) reazione del neurologo allo storico traguardo raggiunto dalla Corte Costituzionale americana che lo scorso 26 giugno ha dichiarato le nozze gay diritto costituzionale in tutti gli stati USA: nessun commento ufficiale da parte di Sacks, che sui suoi profili Facebook e Twitter si è limitato alla pubblicizzazione dell’ultimo giorno della #CephalopodWeek. Redazioni di giornali, associazioni culturali, artisti e milioni di singoli individui hanno festeggiato, ma da Oliver Sacks, probabilmente uno degli omosessuali più famosi del pianeta, niente. Forse non ha mai voluto difendere le sue preferenze sessuali proprio perché il trauma di quella prima reazione della madre non l’ha mai abbandonato, perché il senso di colpa, l’eco di quella frase, You’re an abomination, non si è mai estinto del tutto. Con questa sua non-reazione il dottor Sacks ci manda un messaggio semplice e diretto: il fatto che in On the Move lui abbia per la prima volta parlato apertamente e al mondo intero della sua omosessualità non cambia le carte in tavola, ottantuno anni alle spalle sono forse troppi per diventare qualcosa di diverso da se stessi, nonostante una sentenza storica e un tumore in fase terminale.
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Non è stata facile la vita nel Regno Unito degli anni ’50 per un omosessuale ebreo, con la passione per la chimica, una predisposizione alla medicina (di famiglia, tanto che uno dei motivi per cui si se ne andrà da Londra sarà la presenza di troppi Dr. Sacks sull’elenco telefonico e la conseguente difficoltà di trovare lavoro) e tendenze letterario-intellettuali: geniale e scostante, Oliver ha una passione per le moto che non abbandonerà mai – rinuncia perfino alla proposta del padre di acquistare un’auto (quattro ruote sono più sicure di due, d’altronde) e compra una BSA Bantam di seconda mano, con la quale rischia la vita una paio di volte –, all’università (si laureerà in medicina a Oxford) sembra inciampare sugli esami più facili, passando invece brillantemente quelli più impegnativi. La Londra del dopoguerra e la sua famiglia, i disturbi maniaco-depressivi del fratello, i tabù sociali e il conservatorismo stanno stretti a uno come Sacks: dopo la laurea decide di andarsene in America, con il sogno di realizzarsi professionalmente e vivere libero le sue inclinazioni sessuali. Arriva a San Francisco e, dopo uno stage (in nero) non retribuito presso uno dei migliori ospedali del continente, decide di approfittare del periodo di attesa per la green card e girare gli Stati Uniti in moto. Me lo vedo, il giovane della foto in copertina, brillante, pieno d’energia e incazzato con il mondo, che se ne va in giro di notte in sella a tutti quei cavalli come uno dei protagonisti della seconda stagione di True Detective, l’agente Paul Woodrugh(anche se con meno istinti suicidi, penso, nel caso di Sacks). I suoi viaggi lo portano a conoscere personaggi singolari, da aiuto-camionisti ritardati a poeti del calibro di Thom Gunn, autore di On the Move, la poesia dalla quale il libro prende il titolo.
E poi la passione per la palestra e il sollevamento pesi, l’abuso di droghe, i diari giornalieri, la solitudine e la dedizione per il lavoro, per i suoi pazienti, i rapporti non idilliaci con la “scienza tradizionale”, lontana (o almeno non vicina quanto lui) da un approccio umano alle patologie, tanto da arrivare a definire Sacks “l’uomo che scambiò i suoi pazienti per una carriera letteraria”, il successo di Risvegli e della sua trasposizione cinematografica con Robin Williams e Robert De Niro, e degli altri libri, la fama mondiale.
Quando leggo qualcosa di Sacks, si risveglia puntualmente in me una non troppo assopita propensione all’ipocondria, pronta a scatenarsi anche al più piccolo lapsus: se i giorni seguenti alla lettura de L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello mi capitava di non ricordare il nome di un amico, o di dirigermi in cucina e passarci più di trenta secondi senza che mi venisse in mente il motivo che mi aveva spinto ad andarci, passavo la notte in bianco concentrato sulla mia ormai incurabile disfunzione neurologica; in seguito alla lettura di Allucinazioni sono stato più volte tentato di prenotare una visita oculistica, per assicurarmi che ogni singola “macchia” che mi si formava sulle retine fosse normale e non potesse rappresentare qualcosa in grado di evolvere in qualcos’altro; il buon senso (o l’ingenuità?) ha sempre avuto la meglio e non ho mai fissato nessun appuntamento. Leggere On the Move è stato in qualche modo diverso. La neurologia c’è, è lei a condire la portata principale; ma in questo caso paragonerei la mia esperienza allo scoprire qualcosa della vita privata del tuo professore delle scuole superiori, quello bonaccione che sapeva comunque farsi rispettare, l’unico che riusciva a trasmetterti qualcosa nonostante insegnasse chimica o fisica, mentre quelli di letteratura e filosofia si limitavano a costringerti a imparare a memoria le date delle edizioni dei Promessi Sposi o dell’intera opera di Hegel. È stato come scoprire che anche quel professore aveva una vita al di fuori dalla scuola, fatta di delusioni e realizzazioni personali, di segreti e di umiliazioni, esattamente come quella che pensavi non fosse concessa a gente come i professori. E nonostante scoprissi cose per cui non si dovrebbe andare fieri, queste non riuscivano a intaccare il rispetto che negli anni quell’uomo si era guadagnato.
Non impazzisco per la scrittura di Sacks, ma ne apprezzo l’efficacia, la lucidità, e l’umanità dello sguardo, della prospettiva, e sono del parere che i suoi libri abbiano la possibilità di scuotere il lettore, che siano potenti e allo stesso tempo eleganti. Questo si deve al fatto che chi legge viene messo di fronte a un campo scientificamente ancora da esplorare, in grado di influire in profondità sulla quotidianità delle persone, ossia quello della neurologia, che quindi trasmette soggezione al lettore interessato ma impreparato: avere un mentore che vi introduca a questa disciplina con la stessa sensibilità di un genitore che parla per la prima volta di sesso con sua figlia, fa la differenza nei libri di Sacks. In On the Move la situazione si capovolge, è come stare a sentire quel genitore, trent’anni dopo, che ricorda di quando faceva l’amore con la moglie, e spiegava a sua figlia cosa questo comportasse, quanto la sua stessa vita fosse dipesa da quel fenomeno così naturale e così incomprensibile alla sua età. Questa è in concreto la forza e uno degli aspetti più importanti di questa autobiografia di Oliver Sacks, In movimento.
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