Immagini del soprannaturale: qualche spunto tra Henry James e Edith Wharton
Da anni leggo e rileggo le Storie di fantasmi di Edith Wharton, come da anni rileggo James, e ogni rilettura è più bella perché per ogni particolare in più che ti sembra di capire, ce n’è un altro, imprevisto, che ti sfugge.
Due elementi importanti accomunavano Henry James e Edith Wharton: la componente americana (che per James si fondeva con la cultura anglosassone) e l’essersi cimentati entrambi nella scrittura di ghost-stories, le tradizionali storie di fantasmi. L’argomento è troppo vasto e affascinante per un breve articolo. Mi limiterò quindi a riflettere su qualche immagine, in particolare sull’uso che la Wharton fece della grande lezione dello scrittore, di cui era una grande amica ed estimatrice.
Una buona guida per mantenere il contatto con la realtà, in questo tipo di lettura, sembra essere quella di rimanere ancorati agli oggetti. Del resto, non è un caso che un critico raffinatissimo come Francesco Orlando, scaltrito nell’esplorazione degli elementi psicoanalitici della letteratura, si sia occupato di redigere un’analisi così completa e profonda degli oggetti usati dagli scrittori nelle loro storie (Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Einaudi 1993). La raccolta di Edith Wharton si apre con un racconto strepitoso dal titolo Il campanello della cameriera. E a tenere unita la storia, esile di per sé, è un filo che si dipana in una residenza isolata della campagna americana, cioè quello di un semplice campanello. Proprio in quella casa, Brympton Place, grande e un po’ tetra, questo semplice oggetto di uso quotidiano diventa il tramite tra due mondi: quello reale e concreto delle abitudini e delle debolezze umane, e quello sospeso e parallelo delle memorie e del passato. Basta un tintinnio imprevisto nel cuore della notte ad evocare suggestioni inaspettate nell’ombra dei lunghi corridoi, nelle coscienze smarrite e ignare di chi non vuole arrendersi all’evidenza.
In un altro caso, nel racconto Semi di melograno, è una serie di lettere dal mittente ignoto ma ipotizzabile, e proprio per questo più tremendo, a scandire il ritmo della vicenda, con il loro arrivo cadenzato. Anche in questo caso, esse servono a legare, a tenere unite dimensioni razionalmente lontane, mondi inaccessibili. Il terzo esempio della raccolta viene invece dal racconto Ognissanti, secondo me il più misterioso, quello che devi rileggere più volte nella parte finale, se proprio ti ostini a voler dare un assetto razionale alla storia. Credo anche che sia il più jamesiano, e quindi sfuggente. In questo caso l’oggetto che fa da medium è un normale vassoio, con panini imbottiti e un thermos di tè, portato dalla vecchia, austera cameriera scozzese alla signora Sara Clayburn, nella cui casa lavora ormai da molti anni. Non è una storia di avvelenamenti, ma l’esperienza che la lucida e concreta Sara ne trarrà sarà non meno fatale e determinante. In sottofondo, come un basso continuo, a questi magnifici racconti della Wharton, c’è la grande lezione di Henry James, come dicevo prima. C’è il modello, inarrivabile ma sempre presente, de Il giro di vite. Il quale è un testo che ti segna, ti insinua il dubbio che quella testimone di tanto orrore, la protagonista, si sia in effetti inventata tutto senza rendersene conto, e che tutte le sue suggestioni siano un pretesto inconscio per riportare a sé il padre dei due inquietanti pargoli, incontrato in realtà una sola volta in tutta la sua vita. Ma nel frattempo non puoi dimenticarti di quei volti misteriosi che guardano, e non sai cosa guardano. Come se dietro a tutto il soprannaturale ci fosse il mondo inconscio che più profondamente ci appartiene, una dimensione imperdibile che tuttavia continua a sfuggirci, nel momento stesso in cui ci fermiamo a guardarla.
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