Il volto umano del nazismo. La storia di una bambina e del nazista che la salvò
Dopo il successo avuto in Francia, il 12 gennaio è uscito anche in Italia Oggi siamo vivi (Nord editrice – traduzione di Roberto Boi), primo romanzo della sceneggiatrice belga Emmanuelle Pirotte.
La storia inizia nel dicembre del 1944, in un paesino delle Ardenne, la zona collinare che si stende al confine tra Francia, Belgio e Lussemburgo, che nel rigido inverno 1944-45 diviene teatro dell'ultima grande controffensiva tedesca, nel tentativo di fermare l'avanzata delle truppe alleate sbarcate sei mesi prima in Normandia.
Mentre americani e tedeschi si combattono tra boschi e colline, la situazione degli abitanti civili si fa sempre più critica. Spaventato dalla ricomparsa nella zona dei nazisti, che credeva ormai in ripiegamento, il parroco di Stoumont fugge nella campagna cercando di mettere in salvo Renéè, una bambina ebrea che ha nascosto a lungo nella sua canonica: quando incontra due ufficiali americani di passaggio a bordo di una jeep, pensa subito che la cosa migliore sia affidarla a loro.
Il povero parroco non sa che i due sono in realtà spie tedesche travestite, che hanno il compito d'infiltrarsi nelle linee alleate per compiere atti di sabotaggio, secondo un audace piano concepito da Otto Skorzeny (l'ufficiale che liberò Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso) poco dopo lo sbarco alleato, l'operazione Greif.
Il destino di Renée ci appare dunque già segnato fin dalle primissime pagine, ma ecco che qualcosa cambia all'improvviso, e che Mathias, ufficiale tedesco che parla un inglese impeccabile, diventa, in apparenza senza alcun motivo logico, il protettore della bambina, con cui dividerà mesi di vita difficile, unito a lei solo dall'identica speranza di arrivare vivi alla fine della guerra.
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Oggi siamo vivi è un romanzo insolito e affascinante, in cui la divisione tra buoni e cattivi è estremamente labile, perché ogni personaggio alterna momenti di coraggio a momenti di debolezza, se non di vigliaccheria, come in fondo è naturale che sia, in un mondo reale dove non è così facile incontrare degli eroi al cento per cento.
Ne abbiamo parlato con Emmanuelle Pirotte, che ha scritto anche la sceneggiatura per il film tratto dal libro (che sarà realizzato dal marito regista), nel corso della sua permanenza a Milano in occasione della prima presentazione italiana del libro.
Per prima cosa ci si può domandare: perché scrivere ancora un romanzo sulla Seconda guerra mondiale? È stata in qualche modo influenzata da ricordi e racconti familiari di quel periodo?
Sì, di sicuro c'entrano dei ricordi familiari, della mia famiglia e di quella di mio marito del periodo della guerra. I miei nonni materni, ad esempio, nascosero per due anni un ragazzino ebreo durante l'occupazione nazista, mentre la bisnonna di mio marito salvò molti ebrei dalla deportazione, e c'era un forte desiderio di parlare di storie simili.
Sicuramente si è scritto tanto, e si continua a scrivere, sulla Seconda guerra mondiale e anche a proposito della Shoah. Esistono tantissime testimonianze, ma non esattamente una storia come quella che avevamo in mente io e mio marito: il confronto, in apparenza inconciliabile, tra la bambina ebrea e l'ufficiale tedesco, che costiuiscono una coppia speciale. Si uniscono contro ogni aspettativa, e questo ci ha permesso anche di mostrare il nazismo sotto un aspetto un po' meno rigido e manicheo del solito: anche i nazisti erano comunque delle persone.
Volevo indagare la psicologia di un uomo che ha aderito alla follia nazista più per opportunismo che per seguire un ideale, ma che a un certo punto compie un atto di vita anziché di morte, come gli verrebbe richiesto. Non si trattava, tutto sommato, di scrivere l'ennesimo libro sulla Seconda guerra mondiale, che in realtà sarebbe un tema vastissimo.
Il mondo di oggi non ha nulla di epico e mancano gli eroi. Forse la Seconda guerra mondiale affascina ancora scrittori e lettori proprio come ultimo grande momento epico?
Sono assolutamente d'accordo. Proprio ieri mi è stata posta una domanda non proprio identica alla sua, ma su questo stesso argomento, e credo che la giornalista sia rimasta un po' sconcertata perché le ho detto che la guerra ha costituito un momento drammatico straordinario, tanto che, se non fosse accaduta, avremmo potuto inventarla, pur con tutti i suoi aspetti abominevoli. L'epica, gli eroi e gli antieroi, l'avventura di quegli anni costituiscono un terreno ineguagliabile per ambientare storie di fiction, sia libri che film.
Del resto, se pensiamo a tutto ciò che è accaduto in quegli anni, a partire dal progetto nazista di sterminare il popolo ebraico, e poi tutte le altre minoranze che sono state annientate, dobbiamo considerare la Seconda guerra mondiale come il momento in cui la realtà ha superato ogni forma di immaginazione, persino la più folle.
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Posso capire che qualcuno interpreti negativamente questa mia constatazione, però è innegabile che, per uno sceneggiatore o un romanziere, questo periodo continui ancora oggi a costituire una miniera inesauribile di idee per raccontare nuove storie.
Come autrice, non dico certo di essere affascinata dalla crudeltà della guerra, ma sono stati tanti i periodi storici in cui l'epica che ci colpisce ancora oggi è comunque legata inevitabilmente a stragi e genocidi, a persone uccise o ridotte in schiavitù; tuttavia, col passare del tempo, si tende a dimenticarlo, per considerare solo il fascino dell'avventura, delle conquiste, il romanticismo di certi personaggi a dispetto della loro crudeltà.
Questo non è un romanzo di buoni sentimenti: i personaggi non sono divisi in modo netto tra buoni e cattivi, perché ciascuno ha pregi e difetti, si dimostra a volte forte e a volte debole. È più facile che il lettore apprezzi dei protagonisti di questo genere rispetto agli eroi tutti d'un pezzo?
Non credo di aver inventato i personaggi pensando a una possibile identificazione da parte dei lettori, ma ora che me lo chiede penso che chi legge potrebbe sentirsi più vicino a chi non è decisamente bianco o nero, ma viene descritto nelle sfumature intermedie.
Penso che nessuno sia mai davvero o bianco o nero, ma che siamo tutti più o meno a metà strada. Per questo motivo Mathias, il protagonista, non è un eroe totale, anche se in principio si presenta come il salvatore di Renée, ma un uomo con una sua complessità psicologica.
Del resto, non è neanche facile accettare come protagonista positivo un ufficiale nazista.
No, in effetti sono rari i libri che abbiano i nazisti come protagonisti. Qualche anno fa, Le benevole di Jonathan Littell (Einaudi, 2008 – traduzione di Margherita Botto, ndr) aveva colpito proprio per questo motivo. Anche Il comandante di Auschwitz di Thomas Harding (Newton Compton, 2016 – traduzione di Lucio Carbonelli, ndr), che raccontava i sentimenti del terribile comandante Höss in prima persona, ci faceva entrare nei meandri di una personalità totalmente asservita al potere.
Per me era appassionante cercare di decifrare le motivazioni di un personaggio come Mathias, che in realtà non è il classico nazista fanatico: è un opportunista disincantato, non crede in Hitler ma non crede neanche in qualcosa d'altro.
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Lei è sceneggiatrice, e di questa storia è in preparazione un film per la regia di suo marito: ha scritto prima la sceneggiatura oppure il romanzo?
È nata prima la sceneggiatura. Però i tempi di realizzazione del film stavano diventando un po' troppo lunghi, anche se mio marito continuava a dirmi che dovevo avere pazienza, che i ritmi di lavoro sono sempre quelli. Avevo già realizzato un paio di versioni differenti della sceneggiatura, eppure sentivo l'esigenza di raccontare questa storia in modo diverso, finché mi sono lanciata nell'idea di farne un romanzo. Devo dire che in principio non avevo nemmeno ben chiare le differenze di scrittura tra i due tipi di testo.
In effetti questo romanzo ha un'andatura molto cinematografica, soprattutto negli stacchi tra un capitolo e l'altro, che appaiono proprio come dei cambi di scena.
Spero che, alla fine, non appaia "troppo" cinematografico, però non mi dispiace se un lettore avverte questa impostazione per immagini che ho voluto dare alla storia.
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Spesso gli scrittori non amano le trasposizioni cinematografiche dei loro romanzi, perché non condividono certe scelte operate da registi e sceneggiatori, oppure non sono d'accordo sull'attribuzione dei ruoli a determinati attori. Lei che conosce meglio il mondo del cinema pensa che un film debba essere il più fedele possibile al libro da cui viene tratto o che il regista abbia il diritto di operare scelte personali?
Per quanto mi riguarda, ho scritto anche la sceneggiatura e mio marito realizzerà il film, per cui lavoriamo in perfetto accordo e non avverto il problema. Parlando più in generale, penso che il regista, nel momento in cui prende in mano un soggetto, abbia la facoltà di modificarlo, almeno in parte. Già passare da un mezzo all'altro, dopotutto, è una specie di tradimento dello spirito originale, perché un film e un libro non sono la stessa cosa. L'importante è che dalla riduzione del libro esca in ogni caso un buon film: ho visto certe trasposizioni "troppo" fedeli al libro che si sono rivelate film mediocri.
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Forse il problema è più dei lettori, che leggendo un romanzo si creano un'immagine dei personaggi, che poi non sempre corrisponde agli attori?
Sì, questo è il rischio più grande che si corre quando si realizza un film da un romanzo, ma è impossibile accontentare tutti i lettori e le loro costruzioni personali dei personaggi: ci saranno sempre adoratori e denigratori della versione cinematografica. L'importante è restare fedeli allo spirito della storia, e al messaggio che l'autore intendeva comunicarci.
Subito dopo Oggi siamo vivi ha scritto un secondo romanzo, De Profundis, che si svolge in un futuro distopico, dove una madre e una figlia adolescente devono affrontare un'epidemia di Ebola. Com'è stato trasferirsi dal passato recente e concreto della Seconda guerra mondiale a un futuro immaginario?
Scrivendo sceneggiature mi capita anche che alcune di esse non vengano poi realizzate: la storia di De profundis l'avevo immaginata parecchio tempo fa, ma era rimasta nel cassetto. Subito dopo aver pubblicato Oggi siamo vivi mi è tornata voglia di riprenderla in mano e di farne un altro romanzo. Spesso non sei tu a decidere di scrivere una storia ma sono i personaggi che vengono a cercarti.
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Nella prima versione la storia si svolgeva al presente, ma riprendendola in mano ho avvertito il bisogno di trasferirla nel futuro, perché nel frattempo io sono cambiata, ed è cambiata la mia percezione del futuro: col tempo tendono a mutare non solo le nostre paure, ma anche il nostro modo di esprimerle.
Chi ha letto entrambi i romanzi ci ha trovato degli elementi in comune, a partire dal fatto che in tutti e due ci sono delle protagoniste giovanissime, comunque non faccio parte di quegli autori che scrivono sempre lo stesso genere di storia, perché anche nel mio lavoro di sceneggiatrice mi è sempre piaciuto spaziare in epoche e ambienti differenti, e costruire personaggi molto diversi tra loro.
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